Il ciclo esiste. Fatevene una ragione.

Angela Bernardoni
uonnabi
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6 min readOct 7, 2016

Nel 2003, quando ancora non sapevamo cosa fossero i meme, uscì nella Biblioteca Umoristica Mondadori Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me) (cioè da lui) e ogni volta che parlo con un uomo di mestruo, mi viene in mente quella barzelletta che vede Totti e la sua dolce metà al mare.

«Amò, vatte a fà er bagno» le dice lui.

«Amò, ciò ‘e cose mie» replica lei.

A quel punto il numero 10 della Maggica risponde:

«Amò, nun te preoccupà, te ‘e guardo io!».

Ora, Er Pupone è famoso per i cucchiai e non certo per le sue spiccate doti deduttive, ma ho sempre più l’impressione che il sesso maschile tenda a tottizzarsi nel momento in cui si trova ad affrontare con loro il delicato argomento dell’emorragia mensile che accomuna quasi tutte le persone uteromunite in età fertile.

Come si approccia, l’uomo, al mestruo?

Così.

Apparentemente il cromosoma Y negli uomini cisgender è dotato per natura di un apparato di strategie difensive che si attivano nel momento in cui qualcuno parla di ovulazione, pance gonfie o tamponi: c’è chi sceglie la strada del passivo aggressivo e presenta un arsenale di battute sulle bistecche al sangue, chi si scopre agnostico e non si pone il problema dell’esistenza stessa del mestruo, chi abbraccia la filosofia stoica. Nelle pubblicità di assorbenti gli uomini hanno lo stesso scopo delle scimmie nei lanci di prova prima dell’allunaggio: se ci riescono loro, possiamo farcela tranquillamente anche noi.

Parlare in pubblico di mestruo è un tabù sociale come chiedere lo sconto in un negozio di via Monte Napoleone o togliersi le scarpe in uno scompartimento pieno dell’intercity Torino- Salerno. Facce schifate, discorsi lasciati a metà, sgomento e peste vi colgano se state valutando pro e contro della coppetta mestruale durante un aperitivo con le amiche e non vi zittite abbastanza prontamente all’avvicinarsi del cameriere con il vassoio degli spritz. Perché tanta omertà e ribrezzo in una società in cui la pipì dei bambini è santa, ma il sangue che a quei bambini darebbe sostentamento nel grembo non deve mai essere nominato?

Beh sì, può succedere.

Adesso vi racconterò una storia autobiografica, si intitola “Il mio menarca”.

Il mio menarca è arrivato con sadica puntualità la mattina di ferragosto dei miei dodici anni. A quell’età avevo già letto abbastanza romanzi di Isabel Allende da sapere cosa mi stesse succedendo e non temere di essere a un passo dalla morte. Sapevo anche che, a differenza del Cile di inizio Novecento, nell’Italia degli anni Duemila non avrei dovuto tagliare a strisce un lenzuolo di lino da appallottolarmi tra le gambe, ma che sarebbe bastato comunicare l’avvenimento alla mia genitrice per ricevere un assorbente e qualche caustica perla di saggezza materna sulla vita latrice di sofferenze e sangue. In quella calda giornata agostana, dunque, sono diventata signorina (ah, gli eufemismi!) provando sulla mia pelle la dura legge dell’incompatibilità tra assorbente esterno e bagni in piscina.

Ho passato i miei anni prepuberi a chiedermi chi fosse quel Marchese di cui ogni tanto parlavano in casa.

Mia nonna, che non avrà mai fatto gol in nazionale, ma riesce a capire cosa spinga una ragazzina a passare una giornata di sole sotto l’ombrellone in pantaloncini, ha deciso di comunicare a tutta la mia famiglia (un nonno, due zie, due zii, un cugino, un paio di sorelle, tre gatti e un numero imprecisato di galline nel pollaio) il mio ingresso nell’età fertile scrivendo su una torta con della glassa rossa di dubbio gusto CONGRATULAZIONI ANGELA. Così, a caratteri cubitali, come se sopravvivere all’infanzia e arrivare a dodici anni pronta per farsi inseminare fosse un traguardo da celebrare.

La me dodicenne, quel giorno, si nascose dietro il pollaio, rossa in viso come la glassa alla fragola della torta, rifiutandosi di festeggiare quel cambiamento privato del suo corpo appena diventato di dominio pubblico. Il senso del pudore instillato in me fin dall’infanzia mi rendeva impossibile credere che la mia famiglia fosse veramente felice di condividere un momento così importante. Mi sentivo invasa, quasi derisa.

La me venticinquenne, dopo un lungo, lungo periodo di somatizzazione, non smetterà mai di ringraziare sua nonna per quella festicciola così lontana, eppure così vicina, ai canti del primo mestruo degli indiani d’America Lakota.

Crescendo, i motivi per festeggiare il ciclo cambiano.

In occidente la donna è socialmente spinta a vergognarsi del proprio ciclo.

Nel caso una ragazza abbia bisogno di un assorbente durante un’uscita con gli amici, inizierà un gioco del telefono senza fili per domandare a ogni altra donna presente se per caso ha in borsa il prezioso involto di plastica e cotone, che verrà poi passato di mano in mano come una dose di droga fino a tornare da colei che ha dato inizio al gioco.

In un mondo ideale, non ci sarebbe bisogno di nasconderli.

Nel negozio in cui lavoro Tampax e Lines si trovano nello scaffale più vicino alla cassa, di modo che il lasso di tempo che intercorre dall’acquisizione del vergognoso pacco alla scomparsa dello stesso in un’anonima shopper di amido di mais sia il più breve possibile. Nonostante ciò, molte donne vagolano per il negozio con studiato disinteresse in attesa del momento in cui la cassa si trovi libera da presenze maschili per pagare con mosse ninja il prezzo esageratamente costoso della loro fertilità.

Per farvi capire, quando la tennista Heather Watson ha ammesso di essere uscita dall’Australian Open per una di quelle cose che hanno le ragazze, le colleghe sono rimaste sbalordite dal coraggio che ha avuto nel parlare di un disagio che mai nessuno porta alla luce nell’ambiente sportivo. Certo, in altri paesi la questione è più grave e in India le donne sono ancora considerate impure ed esiliate durante i giorni del mestruo. Mi rendo conto che questo pezzo possa essere categorizzato come un first world problem, ma spero davvero che il cambiamento possa essere messo in atto nel Paese in cui vivo.

Per esempio, potremmo insegnare agli uomini che il ciclo (che dura 28 giorni, non solo i cinque giorni del sanguinamento) influisce veramente sull’umore delle donne, che la seconda settimana l’aumento di estrogeni ci rende energiche, entusiaste e piene di serotonina, ma che poi è normale soffrire di sindrome premestruale nel momento in cui estrogeni e progesterone calano vertiginosamente.

Non siamo lunatiche, siamo un corpo vivo che viene influenzato dalla biochimica.

D’altra parte, dobbiamo insegnare alle donne a non chiudersi nel loro guscio, a non prendere ogni commento al proprio umore come un’offesa al genere femminile tutto. Se un uomo vi dice

“oh quanto sei nervosa, ti deve venire il ciclo?”

non reagite come se avesse tentato di decapitare il vostro animale domestico, soprattutto se ha ragione.

La libertà di vivere il proprio ciclo nasce da qui, dal poter rispondere in tutta onestà:

“sì, è vero, il premestruo mi rende irritabile.”

Una risposta simile non è una sconfitta, è un’apertura al dialogo, è una forma di educazione dell’uomo che potrebbe addirittura portare alla comprensione da parte sua del vostro bisogno di guardare una volta al mese Les Misérables cantando tutte le canzoni tra un singhiozzo e l’altro per la morte di Fantine.

But women too.

A meno che voi non siate realmente lontane dal premestruo e che la vostra irritazione sia dovuta ad altre cause. In quel caso, ragazze, l’onestà paga sempre e la risposta giusta è:

“no, non ci sono scusanti biochimiche, mi stai proprio sul cazzo.”

O meglio, sulle ovaie.

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