Non è la musica italiana che fa schifo, siete voi che non ascoltate quella giusta

Abbiamo intervistato La Rappresentante di Lista per indicarvi la retta via

uonnabi a redazione
uonnabi
8 min readFeb 4, 2019

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Mentre le riviste musicali italiane si basano sull'ultimo album di Fedez per valutare lo stato di salute della musica italiana, quest’ultima regala ancora grandi soddisfazioni a chi non si limita ad ascoltare quello che passa il convento. Ne è la prova La Rappresentante di Lista, che a dicembre è tornata con un nuovo album, Go Go Diva, prodotto col sostengo del Mibac e della SIAE grazie al bando Sillumina. Ne abbiamo parlato con Dario Mangiaracìna (con l’accento sulla i) e Veronica Lucchesi, il duo che sta dietro La Rappresentante, poco prima del loro concerto all’Hiroshima Mon Amour di Torino.

Prima data “fuori casa”, primo sold out. Che sta succedendo?

Difficile dirlo adesso, perché tutto inizierà stasera quando la gente entrerà nel locale e noi suoneremo. Fino a questo momento è stata una fase preparatoria alla fase più calda di un disco, quella in cui le canzoni prendono vita perché ci sono sei persone sul palco e altre fuori dal palco a dargli corpo ed energia vitale. E poi perché il pubblico le fa proprie e vedi sotto il palco delle persone che cantano le canzoni con emozioni sicuramente diverse da quelle per cui sono nate, o probabilmente con sfaccettature diverse. Insomma inizi ad avere dei feedback da parte del pubblico, cosa che non succede quando sei in casa a scrivere o nello studio di registrazione.

Così una canzone smette di essere quello scheletro che è nel momento in cui la scrivi, quella cosa che un po’ ti spaventa, perché sta lì e si cristallizza.

Per quanto riguarda il sold out, quello che sta succedendo, penso, è che abbiamo fatto un buon lavoro e ne raccogliamo i frutti. Abbiamo lavorato tanto per questo disco: non solo noi due ma tutta la squadra, Marta, Enrico, Erika, Roberto e poi decine di persone, dal booking all’ufficio stampa, che stanno collaborando con noi per far sì che questo disco “passi”. Che poi è la cosa fondamentale.

A proposito di feedback: a parte le reazioni dal vivo, ricevete mai lettere o messaggi di commento da parte dei fan?

Lettere no, purtroppo non è più l’epoca delle lettere… Però ci dedicano tante storie di Instagram, messaggi in cui ci scrivono, ad esempio, “questa canzone è uscita il giorno che mi è successa questa cosa, d’ora in poi mi farà pensare a questo” o “con questa canzone mi avete dato le parole per capire e per descrivere una cosa che mi era successa”. Questo è ciò che l’arte dovrebbe fare in generale, al di là della musica: dare suggestioni, immagini, parole per cambiare la vita delle persone e, in senso più esteso, il mondo. Alla fine è il motivo per cui facciamo questo lavoro.

In Go Go Diva uno dei brani, “Panico”, parla di Torino. C’è un legame speciale, tra La Rappresentante e questa città, o siamo solo un po’ egocentrici nel pensarlo?

Torino è una città che amiamo e in cui abbiamo anche vissuto per un breve periodo. Al di là di questo, però, quando accadde il fatto di piazza San Carlo, durante la partita della Juve, ci colpirono diverse immagini della narrazione che se ne fece i giorni seguenti. Tra cui quella delle scarpe lasciate lì. La gente che si calpestava. Immagini che poi sono tornate, purtroppo, molto presenti nelle scorse settimane quando c’è stato quell’episodio in discoteca… ad Ancona…

Voi non eravate a Torino in quel periodo.

Non eravamo a Torino, abbiamo ricevuto l’eco della notizia e lì per lì appuntammo delle parole. Capita anche di appuntare delle frasi di giornali, perché colpiscono per la loro crudezza, a volte.

Quindi quest’immagine delle persone che si calpestavano, che è tipica del panico, l’abbiamo legata a una riflessione sul fatto che il panico, nel mondo occidentale, è la nostra guerra: l’unico sentimento esplosivo che riusciamo a vivere, non essendoci più una guerra di cui avere paura, o perlomeno non qui dove viviamo noi.

Go Go Diva sono dieci brani che definire “elettropop” sarebbe riduttivo. Rispetto all’album precedente, i fiati sono stati sostituiti da archi e synth, che ultimamente sono un po’ il prezzemolo dell’arrangiamento indie italiano, lo sappiamo. Tuttavia Go Go Diva dimostra, brano dopo brano, che si può usare l’elettronica, in Italia, senza risultare pacchianamente nostalgici degli anni Ottanta.

Ma non solo il sound: anche i testi, l’interpretazione, persino la comunicazione e il formato dei videoclip rivelano uno spirito innovatore e una cura maniacale per il dettaglio. Go Go Diva è un album che si prende il rischio di fare musica pop come si deve, di quella che ti fa ballare, sì, ma su una citazione di Bulgakov (la trovate in Alibi).

Parliamo di com’è nato Go Go Diva: voi due lavorate molto all’unisono, già nella fase di scrittura, ma come siete riusciti a intrecciare le vostre esperienze?

Per questo disco abbiamo avuto la fortuna di condividere un foglio Word su cui buttare giù degli appunti e poi, pian piano, modificarli fino a dimenticare chi aveva dato l’input di un primo paragrafo. Poi via via che modellavamo i testi venivano fuori delle pagine che alla fine sono diventate le canzoni. La parte negativa di questo processo è stata un po’ di imbarazzo iniziale: sapendo che l’altro avrebbe letto il foglio, sicuramente in questa prima fase non eravamo andati a fondo su alcuni punti. Cosa che siamo riusciti a fare in seguito, dichiarandoci a vicenda quali erano i momenti testuali in cui effettivamente ci eravamo risparmiati e integrandoli.

Il titolo dell’album è un tributo a Lady Godiva, una nobildonna inglese che secondo la leggenda sfilò nuda per protestare contro il marito, che affamava il suo popolo. Fedeli al nome che portano, femminile e politico, con quest’album Dario e Veronica affermano di voler raccontare “un punto di vista plurale femminile: una femmina che accoglie, che si prende cura, che ama.” Ma anche una femmina a cui non piace niente e nessuno (Questo corpo), che che fa ammazzare suo figlio (The Bomba), che beve e vuole ancora la sete (Giovane femmina).

Ci interessa molto l’aspetto “queer” della vostra band, soprattutto la composizione uomo + donna: come si relaziona il vostro pubblico a questo essere un uomo e una donna, ma soprattutto cosa significa per voi essere un uomo e una donna che però scrivono “Questo corpo”, che quindi è uno solo. Ed è femminile.

Abbiamo preso in prestito il termine queer per descrivere la nostra musica dopo che siamo stati al Sicilia Queer Film Festival, un festival molto importante di Palermo. Il direttore artistico, che poi è diventato un nostro caro amico, ci aveva invitati a fare la serata di apertura del festival. Quando siamo arrivati lì ci siamo riconosciuti moltissimo nella filosofia del festival, che tratta la questione del “queer” non solo nella sessualità, con le questioni LGBT, ma anche tutto ciò che è trasversale, straniero, al margine, e in questo senso esce un po’ dagli schemi stessi di quello che è un festival queer. Ci sembrava molto interessante e ce lo siamo sentito proprio addosso, ci ha emozionato moltissimo questa vicinanza. Tant’è che infatti, poi, a scadenze di due anni torniamo per l’apertura del festival: quest’anno per esempio abbiamo ideato questo spettacolo in cui la presentatrice era un programma operativo, l’ospite d’onore era un alieno, e per il quale abbiamo collaborato con artisti e scultori. E quindi questo punto di vista così aperto, senza paletti o sovrastrutture, fa sì che ci muoviamo anche noi in questo modo nel mondo, nella società… Anche perché non mi verrebbe da muovermi altrimenti, perché penso che potrebbe limitare anche il modo in cui vivo le cose.

Mettersi delle sovrastrutture da soli, voglio dire… già ne abbiamo abbastanza. Appena capisci quante te ne hanno messe addosso inizi un po’ a fare pulizia!

Poi sicuramente, parlando della musica indipendente è vero che non è così tanto rappresentata questa femminilità, questo modo trasversale e obliquo di rappresentare anche i generi… nel femminile come nel maschile, perché ci sono stereotipi tremendi e schifosissimi anche nel machismo…

Però, mentre esistono interi generi musicali improntati su una visione machista, voi siete quasi un unicum, con questa sorta di “femminile universale”.

Su questo tema ci piace sempre citare un’intervista di Miyazaki in cui spiega perché scegliesse sempre personaggi femminili. E lui dice una cosa interessantissima sull’essere femmina: “pensate a chi scrive una favola, se prende un personaggio maschile sarà fortemente ancorato a dei topos: l’eroe, il principe, il cattivo”. I personaggi maschili spesso sono molto definiti, mentre secondo lui l’eroe femminile, l’eroina, gli dava più spazio per la “follia”, perché era più flessibile come personaggio, poteva lasciarsi stupire e prendere risvolti inaspettati proprio perché non eccessivamente incastrata in questo tipo di stereotipi. Il maschile è molto più standard, in tutto: dal teatro al cinema, si ripropongono quasi sempre gli stessi personaggi. Invece i personaggi femminili possono avere quella vena di follia e dare libero spazio alle avventure più incredibili, anche perché non siamo abituati a vederle così tanto, delle eroine…

Che poi è anche quello che fate voi: la vostra eroina è un personaggio femminile che si appropria di caratteristiche che spesso fanno parte della narrazione maschile, che si autodetermina e che arriva ad essere anche violenta.

La cosa interessante è che lo fa con un margine di rischio sempre altissimo. Di rischio e di consapevolezza del rischio. Che poi, se ci pensate, è quello che fanno tutti, sia gli uomini che le donne. Nella vita reale è questo che succede.

In “Gloria” dichiarate “scriviamo solo canzoni d’amore” e in effetti in quest’album ogni brano sembra parli di un tipo di amore diverso. Stanco, abbandonato, rabbioso, sensuale, fraterno, universale. C’è persino una canzone che si intitola “Ti amo” di cui non si può fare a meno di apprezzare l’ironia affettuosa. Per voi qual è la vera canzone d’amore di Go Go Diva?

Sono tutte canzoni d’amore, per quanto ci riguarda: è un’antologia di canzoni d’amore. Non per scelta ma perché avevamo necessità, in questo periodo, di parlare d’amore. Tra l’altro è come se, dalla prima canzone che è questo corpo, che parla d’amor proprio, se vuoi, è come se il nostro personaggio vivesse tutte queste storie e arrivasse alla fine con tutta quella consapevolezza, tutto quello che ha vissuto attraverso queste canzoni. E quando arriva all’ultima canzone e riesce a vedere l’altro, e a comprendere l’altro.

E quindi lì ci siamo immaginati che l’altro, per riuscire a comprendere quello che le sta dicendo l’altra voce, dovrebbe fare tutto il percorso all’indietro.

Che ci sia un percorso narrativo in tutto il disco è molto chiaro. E metanarrativo.

Sì, c’è un po’ di racconto della scrittura, anche. Ci interessava rappresentare un po’ questo momento, che è sempre un momento di grande amore.
E di grande sofferenza.

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