Santa Prostata

chi di catechesi ferisce, di catechesi perisce.

Giovanni Mauriello
uonnabi
4 min readOct 11, 2016

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Pierre et Gilles, St. Sebastien, 1987

Quando avevo nove anni, il mio più grande vanto era quello di essere prossimo alla comunione. Figuriamoci se me ne importava qualcosa, della comunione in sé, ma ero arrivato alla conclusione che se proprio non potevo portare l’apparecchio, — badate bene: potevo comunque fingere di averlo ogni volta che rispondevo al telefono — desideravo mi venisse quantomeno concesso di frequentare il catechismo con un anno di anticipo.

Avevo bisogno di un evento che sancisse la mia indubbia ascesa al mondo degli adulti: il catechismo, roba da grandi. Perfetto.

Mi chiamò Matilde, fingemmo entrambi di portare l’apparecchio durante l’intera conversazione. Sapevo di spiazzarla dicendole che sarei andato a catechismo con un anno di anticipo, per cui le piazzai lì l’informazione con grande nonchalance e sperai di captarne l’invidia. Mi deluse quando invece la prese con entusiasmo:

se ci vai tu allora ci posso andare pure io; mi disse: mando mamma a parlare con Duilio e vengo con te.

Duilio era il catechista. Già salvo per miracolo la prima volta, quando ebbe una recidiva si spaventò così tanto che dovette appellarsi direttamente a Dio, scacciando dalle sue preghiere sia Gesù che la Madonna. Scopertosi vivo, si sentì evidentemente in colpa e, per sdebitarsi, divenne il più forsennato frequentatore della parrocchia di quartiere. Ce n’erano altri di catechisti, ma senza dubbio lui era il più popolare proprio grazie alla faccenda dei tumori.

Per quanto mi riguarda, la parola prostata io non la sapevo neppure pronunciare, dunque me ne andavo in giro dicendo che il mio catechista si era salvato da ben due tumori o alla prosdata o alla prostada, a seconda di come mi veniva in quel momento. Ne andavo fiero manco fossi io, il miracolato. Comunque Duilio accolse entrambi, sia me che Matilde, quindi iniziammo con grande entusiasmo a frequentare il catechismo ogni mercoledì.

Eravamo dodici bambini: io e Matilde i più piccoli, tutti gli altri andavano in classe insieme.

Mi accorsi subito che Daniele non era inserito nel gruppo, ma non per questo mi venne voglia di farci amicizia. Lui invece tentava di continuo di attaccare bottone con me e Matilde, giacché eravamo, per forza di cose, ancora meno inseriti di lui. La cosa mi infastidiva, mi metteva a disagio:

Daniele era strano, sorrideva senza fiatare mai; aveva qualcosa negli occhi che trasmetteva come una specie di divertimento inadatto al contesto, alla sua personalità, alla nostra, a tutto. Perché ride, perché ci guarda e non parla.

Dopo alcuni mesi di catechismo potevo dire di non sapere che tono avesse la sua voce. Non mi piaceva, eppure divenne una presenza fissa accanto a me e Matilde. Possibile fosse sufficiente il fatto che né io né lei lo avessimo scacciato, per farlo affezionare?

Persino a Duilio dava fastidio, lo rimproverava di continuo. Quando si rese conto che a sgridarlo non ci guadagnava nulla, prese a prenderlo in giro: diceva cose tipo

se nessuno sa la risposta la chiediamo a Daniele, ché sicuramente non vede l’ora di parlare, e tutti ridevano. Daniele compreso.

Senza emettere suoni, ovvio.

Chiesi una volta ai suoi compagni di classe perché Daniele non fosse amico con nessuno di loro. Si tiravano una palla senza convinzione, anche perché la pausa che ci concedeva Duilio durava sì e no quindici minuti.

Uno di loro, Federico, si mise a ridere e mi disse:

casomai sei tu che ci devi spiegare perché sei amico suo.

Mi venne spontaneo sussultare e giustificarmi:

mica è amico mio, gli risposi; si mette sempre vicino a me ma non abbiamo mai nemmeno parlato.

A quel punto il ragazzino mi stese:

è frocio, ecco perché ti sta sempre dietro.

E secondo me sei frocio pure te.

Mi si ficcò un’eco nelle orecchie così forte che per un attimo fui convinto che la palla me l’avesse calciata in faccia.

Poi gli risposi.

Poi: a casa, nel letto, mentre pensavo a cosa sarebbe stato opportuno dirgli per rimetterlo al posto suo. Lì per lì invece non feci altro che sorridere. Ma non con la bocca: con gli occhi. Proprio come faceva Daniele.

Federico non mi staccava lo sguardo di dosso: era lì che mi voleva far cedere come aveva fatto chissà quante volte con Daniele. Potevo specchiarmi nei suoi occhi, talmente li teneva sbarrati: mi parve di cogliere i contorni del volto di Daniele incastrati tra le pupille nere del mio interlocutore.

I suoi contorni o i miei, cosa importava: io ero già Daniele, poco contava la differenza tra i nostri tratti somatici. Contava il modo in cui ci vedeva quel branco lì, era importante quello che avevano deciso per noi.

Finiti i quindici minuti di pausa rientrammo nella saletta in cui Duilio ci spiegava il vangelo. L’ipocrisia di quelle letture mi nauseò per la prima volta in vita mia. Lasciai che mi inquinassero tutti i mercoledì successivi, lasciai pure che Duilio si divertisse a prendere in giro alle volte Daniele, alle volte me, altre volte ancora persino Matilde.

Aspettai fiducioso al varco, e l’occasione perfetta si presentò quando il catechista miracolato ci incaricò di imparare a memoria dei versi della Bibbia a nostra scelta. Quella volta, in aula, sfidai la mia timidezza e mi alzai in piedi. Mi rivolsi a Daniele, solo a Daniele, e fissandolo negli occhi recitai:

Non ti ho io comandato: sii forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada.

Potevo specchiarmi nella sua pupilla come qualche settimana prima era accaduto con Federico. Stavolta però c’ero io, nitido e delineato.

Dopo un attimo di perplessità la classe scoppiò in una rumorosa risata. Duilio, fatto insolito, rimase invece serio. Pensava al suo Dio, forse, e a quanto poco si erano capiti fino a quel momento.

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Giovanni Mauriello
uonnabi

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