Sembra proprio che io sia diventato razzista

di domande che sarebbe opportuno farsi

Giovanni Mauriello
uonnabi
6 min readJun 5, 2017

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September 11, 2001 | Steve McCurry. via.

11 settembre 2001.

Sono nato nel 1992. L’11 settembre del 2001 ho compiuto nove anni da poco più di un mese. Sono a Cartagine con la mia famiglia, in vacanza con degli amici dei miei genitori. Squilla il telefono di Adriano, gli dicono che sono cadute le Torri Gemelle. Lui si mette a ridere, lo riferisce a sua moglie, poi a mio padre e mio padre a mia madre. Nessuno di loro capisce se si tratti di uno scherzo o se la persona dall'altro lato della cornetta sia seria: ma scherzi? No, non scherzo: hanno fatto un attentato terroristico. Ma chi? Quando? E soprattutto, chiedo io:

Cos'è un attentato terroristico?

15 maggio 2017.

Sto andando a Berlino. Io e Riccardo arriviamo in aeroporto trafelati: non smetto di lagnarmi, ripeto che non è possibile, che fa caldissimo, che queste non sono temperature da maggio; pare sia stato improvvisato uno sciopero e dell’autobus non si vede nemmeno l’ombra, l’Enjoy più vicina è lontanissima, la raggiungiamo elencando ordinatamente tutti i santi che risiedono nel paradiso ma poi becchiamo strade bloccate, fiumi di bambini che ci impediscono di circolare, semafori rossi che si susseguono tra loro. Manca troppo poco tempo alla chiusura del gate. Io sono isterico, Riccardo cerca di tranquillizzarmi e poi dice: sembra proprio che non ci dobbiamo salire, su ‘sto aereo.

Alla fine arriviamo. Appena in tempo, sudatissimi, ma arriviamo. Facciamo la fila, superiamo i controlli, saliamo sul pullman che conduce all'aereo. Piazzato proprio in mezzo tra noi c’è un uomo in tuta, ha la faccia più incazzata che abbia mai visto, sulla felpa c’è scritto “fuck the rules”. Ha la pelle scura, è da solo. Ci viene da ridere. Riccardo mi dice sottovoce: “So a cosa stai pensando”. Sto pensando che se mi chiedessero di descrivere un terrorista, lo descriverei esattamente come quest’uomo. Sto pensando a quando poco prima “sembrava proprio che non ci dovessimo salire, su ‘sto aereo”. Sto pensando guarda eh, guarda come finisco ammazzato. Sto pensando cavolo, sembra proprio che io sia diventato razzista.

Prima del 13 novembre 2015 il terrorismo mi sembrava un affare da telefonata, da telegiornale, da articolo sul web. Un fatto increscioso, triste, in ogni caso lontano. Poi hanno ammazzato una cosa come centotrenta persone a Parigi. Per lo più giovani, giovani come me, in una città in cui appena due anni prima avevo vissuto per sette mesi. Ci avevo fatto l’Erasmus e di giovani ne avevo visti tanti. La seconda cosa a cui ho pensato è stata: chissà se qualcuno che ho incrociato in quei sette mesi ora è morto; la prima è stata: se non fossi mai rientrato in Italia, ora sarei vivo?

Tremendo entrare in empatia con la morte altrui solo quando diventa un po’ meno altrui, eppure è andata proprio così: più i chilometri tra me e i morti diminuivano, più la mia paura aumentava; ho iniziato ad avere quel grado di morbosità che ti conduce a guardare i profili Facebook delle vittime, a pensare cavolo, questo qua aveva esattamente la mia età, aveva pubblicato una foto la sera prima di essere ammazzato, una foto in cui era vivo, inconsapevole, in cui era come me. E ho iniziato a scervellarmi per dare una risposta sensata a chi avanzava come unica soluzione l’esclusione indistinta, una risposta da dare a chi mi poneva delle domande con sempre più aggressività, come a dire: tu che fai tanto il compagno, che sei per l’accoglienza e l’inclusione, come li riconosci questi pazzi omicidi se li teniamo nascosti al sicuro dentro casa nostra? Perché i prossimi siamo noi, eh. Bada bene: non è allarmismo. Mi spiace ma qui non c’è più posto. Se ne stiano a casa loro.

Postcard from Kobane. via.

Torino. Pochi giorni fa ero in bicicletta ad un incrocio, aspettavo scattasse il verde e nel frattempo origliavo due signori sulla cinquantina che parlavano tra loro. Uno dei due dice di essere parecchio in ansia. Non so di cosa parla. L’altro fa come per tranquillizzarlo, poi parla di sé, dice no, a me non frega niente: rossi, neri, viola… per me sono tutti uguali. Parla di uguaglianza, forse. Vado al lavoro un po’ più ottimista, penso: è un bel modo di iniziare la giornata.
Poi l’altro dice sì ma è la Champions, e aggiunge qualcosa sul fatto che se ci pensa troppo non dorme la notte. Parlava di calcio.
Nessuno è perfetto, recupero il pessimismo cosmico che mi ero illuso di archiviare e vado al lavoro.

4 giugno 2017.

Si gioca stasera. Sono sempre in bicicletta, devo andare verso Porta Nuova. Taglio per via Roma, mi ritrovo a Piazza San Carlo. C’è già il maxi schermo, le recinzioni, i tifosi a petto nudo che strombettano. Mi infastidiscono: sono molesti, rumorosi. Continuo senza fermarmi troppo e tra me e me penso male di loro, in qualche modo li giudico senza nemmeno rendermene conto.
Qualsiasi programma per la serata viene smontato nel giro di poche ore. Poco male, resto a casa a studiare. Di sabato sera. Sarà un segreto, mi dico. A questo punto non lo è più. Comunque, nel giro di poche ore quei tipi molesti si ritrovano a dover gestire il panico. No, non una sconfitta calcistica. Il panico. Succede qualcosa, non si sa bene cosa: un rumore, uno scoppio, alcuni iniziano a urlare. Qualcuno pensa ad un attacco terroristico, forse lo grida, forse lo riferisce al vicino. Ci sono bambini. Nessuno ha il tempo di spiegare loro cosa sia, il terrorismo. Loro non sono a Cartagine, i terroristi non sono negli Stati Uniti. Loro sono lì e devono scappare.
Sono arrivati davvero. Non era allarmismo, non era razzismo: sono in casa nostra.

Piazza San Carlo, Torino. (Emanuele Menietti — il Post). via.

Centinaia di feriti. Pochi quelli gravi. Tutti spaventati a morte. Non c’era nessuno: nessun terrorista, nessuna bomba. C’era solo la paura. Qualcuno che si è divertito a fomentarla, forse, ma essenzialmente c’era la paura. Penso a quel briciolo di paura che ho provato sul pullman che conduceva all'aereo, penso a quanto facilmente possa trasformarsi in un mare di persone che inonda le vie che quella stessa mattina avevo tagliato in bicicletta, a come facilmente passi di orecchio in orecchio, di stomaco in stomaco, fino a diventare un motivo valido per scappare, per perdersi un bambino nella folla, per sanguinare, vagare scalzi, in lacrime.

Quando ho chiesto ai miei genitori di spiegarmi cosa fosse il terrorismo, nessuno mi ha suggerito di cercare una risposta nei tratti somatici di una persona. Nessuno mi ha detto di cercarlo nel Corano. Quando ho chiesto cosa fosse il terrorismo, la risposta più semplice mi è stata data partendo da quella che è la radice del termine: terrore; il tentativo di imporlo; di sostituirlo alle cene fuori, ai concerti.

Qualche razzista, in Piazza San Carlo, ci sarà senza dubbio stato. Qualcuno di loro oggi lo sarà forse ancora di più. Per la maggior parte, però, quelle persone si sono messe in fuga perché terrorizzate. Si sono messe in fuga perché il terrore è riuscito a sostituirsi ad una partita in Piazza San Carlo.

Sembra proprio che io sia diventato razzista.

Me lo sono ripetuto più di una volta, su quel pullman. E poi sull'aereo, e poi ancora quando ho letto della psicosi di massa in Piazza San Carlo. In qualche modo, però, nonostante la stretta allo stomaco che quel tipo ci ha provocato, su quell'aereo io e Riccardo ci siamo saliti.
Devono avermelo spiegato bene, a questo punto, cosa sia il terrorismo.

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Giovanni Mauriello
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