Un Giubbottino li seppellirà (gli stereotipi). Intervista a Margherita Vicario.

In attesa di vederla live al Premio Buscaglione, abbiamo chiacchierato con Margherita Vicario a proposito di scrittura teatrale, produttori fantastici e solidarietà femminile.

uonnabi a redazione
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4 min readMar 5, 2020

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Sara Sabatino Photography

A Torino Fred Buscaglione non è solo un grande della musica italiana, è anche il santo protettore degli artisti emergenti. Ogni due anni, infatti, il Premio Buscaglione aiuta i giovani musicisti a farsi conoscere dal grande pubblico.

Anche quest’anno, nella prima metà di marzo, una grande festa coinvolgerà le piòle (osterie tipiche piemontesi) e culminerà in tre giorni di concerti all’Hiroshima Mon Amour. Durante le tre serate si alterneranno sul palco sia i contendenti che alcuni artisti già affermati. Tra questi, venerdì 13 marzo, ci sarà anche Margherita Vicario.

Margherita nasce come attrice di teatro e televisione, ma dal 2014 inizia a farsi conoscere anche in veste di cantautrice, con l’uscita del suo primo album Minimal Music. Fin dall’esordio i suoi brani colpiscono per la potenza immaginifica e per la capacità di creare “affreschi” di umanità, in cui i personaggi vengono dipinti in pochi ma vivacissimi tratti.

Da dove prendi ispirazione per i personaggi che racconti?

Sono personaggi della mia fantasia, che creo perché farei fatica a scrivere in altro modo: sono soddisfatta di quello che scrivo solo quando immagino scene, o persino dialoghi tra più personaggi in cui non si capisce neanche bene chi sta parlando.

Anche se non è studiata a tavolino mi piace quest’ambiguità che ne risulta, perché lascia spazio a diverse letture del brano.

Forse questo modo di scrivere deriva dai miei studi teatrali e dal lavoro di attrice, quindi quando devo scrivere io delle canzoni e dare delle battute ai miei personaggi mi viene più facile attingere da questo bacino.

“In Ufficio” è uno dei tuoi primi brani, nel quale parli del lavoro in un call center: hai vissuto in prima persona quest’esperienza o hai fatto ricerca per scriverlo?

Diciamo cinquanta e cinquanta: sotto casa dei miei genitori, nel seminterrato, c’era un call center. Ogni volta che passavo di là spiavo il loro lavoro dalle finestre. E visto che nel primo disco raccontavo cosa succedeva tra la fine di una storia d’amore e l’inizio di un’altra, ho immaginato che il mio alter ego non fosse soltanto precaria sentimentalmente ma anche professionalmente, perché questo l’avrebbe resa ancora più “esasperata”.
La parte di esperienza personale è invece nella frase che i colleghi dicono alla protagonista del brano, sulla necessità di sorridere mentre parla al telefono. Quando ho lavorato come speaker per Radio 2, infatti, mi avevano spiegato che in radio si sente se sorridi mentre parli, e questo concetto mi aveva colpita a tal punto che l’ho inserito in questo brano.

Come accennavi prima, una caratteristica della tua scrittura è nel creare “dialoghi” tra i personaggi. Anche in “Giubbottino”, il tuo ultimo singolo, ti rivolgi prima a un personaggio maschile e poi a uno femminile. Ci spieghi questa scelta?

È la prima volta che spiego Giubbottino, la canzone più criptica che ho scritto: nella strofa mi rivolgo agli uomini, poi nel ritornello alle donne, e poi ancora c’è un uomo che parla. Ho usato queste voci per raccontare le pressioni che spesso gli uomini subiscono dalla società. Parlo di quest’uomo che fa il duro con giubbottino e occhiali da sole, ma che “sotto sotto” è “come un biscotto”, e quindi non si rivede in certi stereotipi.

Non dico che sono tutti dei fragiloni che fanno i fighi, ma che alcuni sono così. Così come noi donne vediamo sempre delle modelle ovunque, ed è una fonte di frustrazione per noi come per loro.

E così anche “Al tuo uomo digli tutto” è un invito a parlarsi non solo in chiave sessuale, ma a comunicare in senso lato, a stabilire un dialogo profondo. Ed è un consiglio che do anche a me stessa.

Da Minimal Music agli ultimi singoli hai fatto grandi cambiamenti sia a livello di estetica che di sonorità: come hai lavorato per mettere a fuoco questa nuova Margherita Vicario?

Ho fatto un percorso di ricerca che mi ha portato a scartare molte cose prima di arrivare dove sono ora. Il bello è che chi aveva apprezzato il primo disco non si è sentito tradito o deluso da quest’evoluzione, che è stata importante sia a livello di produzione che nel mio modo di lavorare.
Roberto Angelini, il mio primo produttore al quale sarò per sempre grata, mi aveva lasciato completamente libera di scrivere e suonare quello che mi passava per la testa. Con il passaggio a INRI, invece, Dade (Davide Pavanello ndr) mi ha dato lasciato la stessa autonomia nella scrittura, mentre sulla parte musicale ci lavoriamo insieme, facendo più attenzione alla scena musicale contemporanea. Questo perché io venivo da una serie di ascolti che erano miei, poco attenti allo scenario attuale. Inoltre prima tendevo ad avere il controllo su tutto in maniera maniacale, fino all’ultima linea di violino.

Con Dade invece mi sono “deresponsabilizzata”: queste nuove canzoni sono frutto di di intuizioni e idee su cui lavoriamo metà e metà. E quando propongo qualcosa che non gli piace, so già che nel 99% dei casi ha ragione lui.

Ultima domanda: nel nuovo album di Elodie, This is Elodie, ci sei anche tu. In “Sposa” interpreti il ruolo dell’amica che ti spalleggia quando stai male per qualcuno. Anche nella vita reale per te è così importante la solidarietà femminile?

Quando uno cresce e supera i terribili 20 non c’è niente di più figo che ritrovare la capacità di fare squadra, godere della compagnia femminile, avere nuove amiche femmine. Secondo me è una cosa che fa parte di un’età: magari sei più tranquilla, e non dai la colpa a quella più figa o più fortunata di te. Ti rilassi e ritrovi la capacità di provare la solidarietà femminile.
Così quando Elodie mi ha chiesto di contribuire a quel pezzo già così bello mi sono detta: beh, ma cosa posso fare qui, se non essere sua amica?

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