UnREAL ti spiega come guardare i reality

senza smettere di essere femminista

Chiara M. Coscia
uonnabi
7 min readSep 10, 2018

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illustrazione di Billythebrave

Non indago le ragioni profonde di chi guarda e segue un reality con passione. Questo non diventerà uno di quegli articoli poco velatamente snob in cui si osserva la plebe dall’alto della propria pila di libri. Anche nella visione consapevole, ironica, il più distaccata possibile, c’è sempre lo stesso desiderio profondo e morboso di osservare l’altro, la vita dell’altro, l’amore, l’attrazione, il tradimento, la vergogna, la rottura, e non solo il suo essere, talvolta, un po’ “camp” o antropologicamente interessante (espressione quanto mai omnicomprensiva, dato che in quanto esseri umani lo siamo tutti, antropologicamente interessanti).

Credo ci sia un unico desiderio di fondo, democratico e unificante, nella visione di qualunque cosa abbia uno o più protagonisti dotati di braccia, gambe e pollice opponibile: l’interesse per le storie umane, di qualunque umano si tratti, di qualunque tipo di storia si tratti.

Umani con un nome (sempre necessario), che si immolano sullo schermo in virtù della sconfitta delle due cose più spaventose di tutte: la povertà e l’oblio. Noi spettatori, pure, non siamo immuni da queste paure. Da anni, ad esempio, si è diffusa su Twitter la pratica della visione collettiva dello show a colpi di hashtag, e si fa a gara a produrre i tweet più ironici e affilati, così da rendere tutto condiviso e condivisibile, come tanti occhi di fronte a uno stesso schermo. Twittare di un programma diventa la ragione per cui lo si guarda: l’abbiamo fatto tutti (anche io) divertendoci dal divano.

condividere un hobby con Donald Trump: fatto.

Tuttavia, non si guarda un reality se non succede niente. Quelle lunghe riprese di Marina La Rosa stesa sul lettino a prendere il sole avrebbero avuto poco senso senza tutto il dramma che si scriveva tra le mura della Casa. L’importante è capire che le storie, per funzionare, hanno sempre bisogno di qualcuno che le racconti, bene, e che crei “azione”.

Ho adorato UnREAL dal primo momento anche solo per questo motivo, molto semplice: finalmente uno show che racconta in modo magistralmente onesto cosa significa “fare” la TV. Ho assistito alle volte a questa sorta di delirio collettivo per cui i personaggi dei reality e dei talk show, durante le loro presenze in studio, quando parlano o litigano, dando luogo a momenti scioccanti di altissimo interessa per gli spettatori, siano percepiti come “veri”, “spontanei”, “davvero così”.

L’affermazione della verità come punto di forza nelle storie non mi ha mai convinta. Un personaggio non deve essere vero, ma “credibile”, il che è tutta un’altra cosa.

Sono anni che provo, più o meno timidamente, a tirare fuori l’argomentazione che no, non sono “così”, stanno in TV, e se in un programma ci sono degli autori quella cosa è automaticamente classificata come performance, come fiction, per quanto realistica possa sembrarci. A volte riesco a farmi ascoltare, più spesso no. Ma da quando esiste UnREAL posso non parlare più. Do solo il titolo della serie:

Vedi UnREAL!, dico.

UnREAL è una serie TV finita quest’anno, in tre stagioni uscite su Lifetime e una quarta prodotta da Hulu, che ha come protagoniste due donne alle prese con la produzione di un reality show, Everlasting, una sorta di The Bachelor (la cui autorevolezza rappresentativa ci è garantita dalla magnifica Sarah Gertrude Shapiro, creatrice dello show nonché ex producer proprio di The Bachelor) in cui uno scapolo d’oro conduce una gara alla ricerca della donna della sua vita, che si conclude con tanto di matrimonio finale trasmesso in TV.

Le protagoniste sono Quinn King e Rachel Goldberg, e la loro è l’unica vera everlasting love story di tutto lo show.

Quinn è un’executive producer di successo, che non si vergogna di saper fare bene il suo lavoro. Non si sente creatrice o perpetratrice di un sistema malato e viziato, si limita a usarlo nel modo più conveniente possibile per lei. Eccelle in quello che fa, e nessun uomo riesce a spodestarla dal suo trono. Quinn è contemporaneamente re e regina, e l’unico bisogno umano che esprime, l’unico da cui non riesce ad affrancarsi, è quello di Rachel, con cui ha un rapporto potentissimo che si allontana dal semplice essere capo-dipendente e, passando per il livello amica-rivale, arriva nello spazio oscuro e complicato del terreno madre-figlia.

Rachel è una producer affascinante, intelligente e completamente dissestata a livello mentale. La sua lotta interiore per conciliare una coscienza morale femminista (sort of) e quel senso di eccitazione che prova nella soddisfazione di fare bene il suo lavoro è un po’ una messa in scena dell’eterno dilemma tra bene comune e volontà individuale. Il suo lavoro, infatti, consiste nel manipolare i partecipanti al reality come fossero personaggi di una sua trama personale in cui questi, il più delle volte, ne escono totalmente smantellati, anche fisicamente devastati, alcuni non più vivi.

Le narrazioni che Rachel, grazie alle sue impressionanti capacità manipolative, riesce a mettere in scena, sono narrazioni umilianti, dolorose, faticose da guardare, eppure allo stesso tempo ce ne stiamo lì, le guardiamo con la stessa attenzione morbosa con cui guardiamo l’ennesimo video di un incidente mortale su YouTube. Perché ne siamo rapiti, orripilati e affascinati, come in una sorta di sublime romantico.

Se pensiamo ancora che sia la realtà a ispirare la fiction ci sbagliamo di grosso. Questo assurdo mondo si auto-racconta, si attorciglia su se stesso e sulle sue narrazioni intrinseche in continua creazione e ricreazione, in continua scrittura e riscrittura, e UnREAL è una piccola lente di ingrandimento su questo discorso.

Il male che il reality percepito come “reale”, e non come spettacolo, ha fatto alla conversazione collettiva è secondo solo al male che le ha fatto il talk show.

Disinnescare quella deformazione per cui si possa parlare di questioni complesse a botte di slogan e battute a effetto fatte apposta per far partire l’applauso è ormai uno dei compiti più ardui della corrente e futura classe docente, ma continuiamo a confidare in un’educazione alla complessità. In effetti, se cominciassimo tutti a prendere consapevolezza della struttura retrostante al “discorso” (che questo sia scritto, parlato, rappresentato o “postato” non cambia nulla) potremmo finalmente goderci il nostro desiderio di storie senza correre il pericolo di replicarne e introiettarne in maniera passiva le forme nella nostra quotidianità.

UnREAL, sin dal titolo così chiaro e semplice, fa molto di più che mettere in scena una critica alla struttura del reality e all’industria televisiva. UnREAL ci interpella come soggetti pensanti, attivi, mettendo in scena il dramma interno alla narrazione televisiva.

Smontando da dentro Everlasting, la serie ci fornisce gli strumenti per decodificare i drammi che accadono nella produzione e nella creazione del reality, rendendoci contemporaneamente osservatori esterni e partecipi, chiamandoci a leggere le trame come soggetti in grado di distanziarci dall’immedesimazione, dalla visione passiva, dall’embodiment.

La metanarratività dello show non si estingue nel racconto della TV, oltrepassa il limite e diventa metarappresentativa nell’immagine implicita che ci rimanda di noi come spettatori. Non è la prima volta che uno show televisivo riesce a fare un’operazione simile. Ci sono riuscite The Newsroom, The Hour, e la quarta stagione di The Wire, raccontando il mondo dell’informazione dall’interno e quel sottile confine tra verità e intrattenimento che risponde al nome di infotainment.

Scoprire i meccanismi intrinseci alla serie può inoltre farci capire i giochi di scatole cinesi interni alla serie stessa: nell’ultima stagione, infatti (SPOILER ALERT!) lo show non si limita solo a rappresentare Everlasting, bensì diventa Everlasting addirittura a tre livelli: lo show rappresentato, la love story di Rachel e Tommy (che è la vera protagonista della ricerca dell’happy ending con tanto di anello finale) e, come abbiamo già detto, l’unica vera everlasting love story, quella tra le sister Rachel e Quinn, che va oltre ogni maschio posticcio di turno.

Prima di concludere, parliamo dell’elefante al centro di questa stanza. E cioè del che ne pensa una femminista di uno show che mette in scena due donne che per lavoro smantellano pubblicamente altre donne?

Ecco, il fatto che le protagoniste di UnREAL siano così imperfette nel loro femminismo è ciò che rende — paradossalmente — ancor più fortemente femminista la serie TV. Come sostiene Marama Whyte in quest’ articolo di Hypable del 2015, c’è un che di liberatorio nell’avere degli antieroi femminili, nella narrazione di una femminilità che fa i conti con le contraddizioni intrinseche dettate dallo stare contemporaneamente dentro e fuori dal patriarcato.

Anche le donne possono fare schifo, anche le donne devono poter fare schifo nelle stesse posizioni di potere in cui a tutti gli uomini è non solo consentito, ma sentito come dato culturalmente accettato, il fare schifo.

E il fatto che i personaggi femminili detestabili siano così poco importanti se paragonati a tutti i Walter White e Don Draper di cui ci siamo innamorati, è un’ulteriore forma di disequilibrio nella rappresentazione mediatica, un disequilibrio che UnREAL prova, con successo, a compensare.

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Chiara M. Coscia
uonnabi

I’m a close watcher: apro le serie TV per guardarci dentro (una vita SUB-ITA)