Venticinque anni single

Dieci cose che ho guadagnato da single (e di cui avrei volentieri fatto a meno)

Giovanni Mauriello
uonnabi
5 min readMar 20, 2017

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Isaac Cordal — Cement Eclipses

Se esisti, sei anatomicamente provvisto di un cuore e hai guardato almeno una volta nella vita una commedia hollywoodiana, è probabile che prima o poi soffrirai per amore.

È una conseguenza così naturale dell’essere un essere umano che io, dai zero ai ventiquattro anni, ho confuso milioni di volte quelli che erano leggeri fastidi come stizze da orgoglio ferito o momenti di incredibile insicurezza personale con ciò che invece poeti e cantanti chiamano pene d’amore.

La verità la posso ammettere oggi, a venticinque anni, senza più temere il vostro giudizio: fino a due mesi fa io non avevo mai sofferto per amore.

La mia adolescenza ha fatto schifo. No, non come la vostra. No, non come quella di tutti. Diciamo che ha fatto molto più schifo di quella di almeno la metà di voi. Sull’altra metà non metterei la mano sul fuoco.

Il punto, comunque, è che durante l’adolescenza io non ho avuto proprio il tempo di soffrire il maldamore. Ne simulo qualche sintomo, ma dentro di me sono ben conscio sia una posa, un sistema per omologarmi a qualcosa che in fondo non mi tocca.

A diciotto anni mi affeziono per la prima volta a qualcuno: affetto, moltissimo; amore, poco. L’amore può essere poco? Credo oggi di no, perciò rettificherei: affetto, molto; amore, no, niente amore.

A vent’anni, finalmente, mi innamoro.

Ecco che soffri, mi dico: ecco la batosta. Zero, nessuna batosta, solo passeggiate notturne a Parigi a ridere dei francesi che ti propongono una margherita a 16 euro; solo canzoni d’amore, solo baci e ancora baci e quanto mi piace guardarti negli occhi.

Affetto, moltissimo; amore, almeno il doppio.

Penso a quegli occhi tutto il giorno. La mia ossessione è che si posino su qualcun altro, voglio mangiarli, tenerli al sicuro dentro di me cosicché siano per sempre solo miei.

A ventiquattro anni quegli occhi lì guardano ancora me: sono ancora lì, al caldo, nel mio stomaco. Abbiamo una casa, abbiamo un cane, ci amiamo. Dentro di me ci sono i nostri discorsi, i film che abbiamo visto, i posti in cui siamo stati. L’amore per me non sarà mai sofferenza, penso. Sono solo più fortunato degli altri, l’amore per me è una consolazione, l’amore per me sono solo quegli occhi lì. Fortunato io.

Un giorno poi mi scoppia la testa. Scoppia letteralmente. Provo a rimetterla in sesto ma è fatta a brandelli sul pavimento del bagno e per raccoglierli tutti ci vuole del tempo. Succede tre mesi fa.

Vomito quegli occhi e li rimetto al loro posto: guardatevi intorno, occhi, non posso più tenervi con me. Lascio il mio amore. Il vero, l’unico amore che abbia mai provato in vita mia. Perché? Non lo so, non so spiegarlo a nessuno che abbia il coraggio di chiedermelo. Forse è tornata quella robaccia che durante l’adolescenza mi distraeva, forse sono solo un codardo, forse ho venticinque anni e qualcosa nel mio corpo, qualcuno nel mio cervello, mi sta imponendo di soffrire per amore. Lo faccio. Oggi. A venticinque anni.

Ritrovarmi single a venticinque anni mi costringe a fare i conti con gli aspetti più tragicomici della mia personalità. Non che prima non fossero bene in evidenza, ma vivere un rapporto simbiotico ti illude di poter tenere a bada tutte le tue nevrosi fino a data da destinarsi: c’è chi se ne prende cura, dopotutto, e in fondo quello di cui ogni nevrotico ha bisogno è qualcun altro a cui affidare — direi meglio: su cui scaricare — le proprie nevrosi.

Io lo avevo trovato, ma quel genere di amore lì, seppure pulsante, finisce per marcire e poi inacidire. Appena lo realizzo corro ai ripari e inizio a delegare la cura della mia mente a chi è disposto a farlo solo previo pagamento di cinquanta euro all’ora.

Nel frattempo il mio amore resta lì, rantolante nel corridoio di casa, della nostra ex casa, che mi ricorda che morte e genesi si rincorrono di continuo fino a confondersi l’una con l’altra, e io mi ritrovo in una stanza vuota a domandarmi come ho potuto essere così presuntuoso da credermi più fortunato degli altri.

La risposta la elaboro un po’ per volta, ma nel frattempo questa situazione mi fa guadagnare un bel po’ di cose. Ne raccolgo dieci, per non annoiarvi:

  • quattro telefonate giornaliere di mia madre che con tono affranto piglia fiato, fa pausa e dice “cerca di stare bene”; non contenta tossisce, quasi a simulare sopraggiunta commozione, e aggiunge “se vuoi puoi sempre tornare qua. Da mamma.”. E io attacco in lacrime pure se tutto sommato la giornata era iniziata benino.
via.
  • un incredibile senso di soggezione per il tipo della pizzeria che prende gli ordini per le consegne a domicilio e che dopo che dico la prima (e unica) pizza che voglio ordinare sta lì che attende la seconda e dice: e poi? pronto? e poi? e io finisco per balbettare “un’altra margherita, grazie”. E me la mangio il giorno dopo. Fredda.
  • sbalzi d’umore che Lars Von Trier in confronto ha diretto pellicole d’animazione per bambini.
  • una notevole impennata della mia già naturalissima inclinazione all’inettitudine: non mi preparo il pranzo, non mi rifaccio il letto, vado al supermercato alle nove di sera e tutto quello che mi ritrovo per le mani quando ormai sono già in cassa sono tre kinder cereali e una confezione di aglio liofilizzato. Per farci che, poi, boh.
  • ho qualcosa, nel volto, forse nello sguardo, qualcosa che ricorda Robert Smith.
via.
  • chiedo a Siri di cercare su Google come si fa a dimenticare una persona, come si impara a stare da soli, quali sono i sintomi della depressione, quanto prende in media una signora che fa le pulizie, se fare il testamento è obbligatorio e se si può morire mangiando una sola volta al giorno.
  • passo da febbrili danze sciamaniche in cui Spotify pompa a duemila le canzoni più automotivazionali della discografia di Beyoncé a tremende passeggiate lungo il fiume in cui Alanis Morissette mi piagnucola nelle orecchie domandandomi Isn’t it ironic, don’t you think?
  • cerco conforto nella presenza di amici di ieri, amiche di oggi, amici di domani, coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto e cucine a gasse.
  • decido che in fondo preferisco una vita breve da ubriaco a una lunga da sobrio: prendete in mano i vostri sentimenti e raccontateli in una nota vocale, in un messaggio, in una canzone che vi squarcia la gola. Fate quello che vi pare, ma fatelo da sbronzi. Da lucidi siamo tutti dei cagasotto.
  • realizzo ogni giorno la più spiazzante delle verità: inquietanti profezie non sono contenute nelle parole di Pasolini, bensì nelle canzoni di Raf.

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Giovanni Mauriello
uonnabi

una cosa so fare: avere ragione | scrivo su uonnabi | mangio più della media.