Gli ultimi reduci dell’eccidio di Cefalonia e Corfù del settembre 1943

A 20 anni scamparono alla morte, a quasi 100 lo raccontano ancora con emozione. Le storie di 3 sopravvissuti all’annientamento della divisione Acqui da parte dei tedeschi

Federico Thoman
upday IT
6 min readSep 22, 2018

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Da sinistra: Olindo Bussi, Pietro Pulisci, Andrea Gagliardi, Dino Benedetti e Gino Marchesin — Foto di Federico Thoman/upday

“Sono stato fortunato”. Dino Benedetti ha 96 anni e nel settembre del 1943 era di stanza sull’isola greca di Cefalonia, occupata dalle truppe italiane e tedesche (così come Corfù e le altre isole dello Ionio, data la loro grande importanza strategica). Si salvò quasi per caso: “Ero autiere, guidavo i camion. Mi salvai grazie a una famiglia greca che mi nascose. Sono rimasto 8 giorni imboscato”. Poi i suoi salvatori lo avvisarono che i tedeschi avevano smesso di giustiziare sommariamente gli italiani: “Allora sono uscito”.

Un momento della cerimonia di commemorazione al parco Divisione Acqui di Verona, venerdì 21 settembre — Foto di Foto di Federico Thoman/upday

A Verona, città e provincia da cui provennero molte delle vittime dell’eccidio di Cefalonia e Corfù, si è tenuta una cerimonia commemorativa per i 75 anni dalla strage. Presenti autorità civili, politiche e militari e alcune scolaresche. Ma, soprattutto, c’erano 5 superstiti: Olindo Bussi, Pietro Pulisci, Andrea Gagliardi, Dino Benedetti e Gino Marchesin. upday ha ascoltato le loro storie, che meriterebbero non un articolo ma –ognuna- un libro (uno di loro l’ha scritto davvero), e ha cercato di distillarne qualche dettaglio.

Da sinistra, alcuni soldati italiani giacciono a terra dopo essere stati sommariamente fucilati dai tedeschi alla ‘casetta rossa’, che si vede a destra — Foto cortesemente data dall’Associazione nazionale divisione Acqui

La storia tra date e numeri

Fino all’8 settembre le giornate scorrevano tranquille, i rapporti coi civili greci erano in generale buoni e la guerra tutto sommato lontana. Poi, però, l’armistizio di Cassibile (firmato il 3 settembre, ma reso noto l’8) sconvolse ogni cosa. L’esercito italiano si dissolse, il re fuggì al Sud e migliaia di soldati italiani si trovarono di fronte a una scelta: arrendersi, consegnando le armi ai tedeschi, diventati di colpo nemici, o combattere. La loro vita era in gioco in ognuna delle due possibilità, e i militari del nostro Paese, sia a Corfù che a Cefalonia, scelsero di resistere. La storiografia contemporanea è ancora divisa sull’effettivo svolgersi degli eventi e sul numero totale delle vittime, ma quel che è certo è che gli italiani, le armi, non le consegnarono.

Non consegnò le armi la 33esima divisione di fanteria Acqui, che insieme ad altri corpi di complemento (carabinieri, guardia di finanza, marina e aeronautica) formava una forza di circa 12 mila uomini a Cefalonia. Qui, i tedeschi (il grosso formato dalla prima divisione di montagna della Wehrmacht, l’esercito) reagirono in modo brutale: spenta la resistenza italiana, parte delle truppe fu passata per le armi, a partire dagli ufficiali. La battaglia terminò dopo una settimana, il 22 settembre, quando il comandante della divisione Aqui, il generale Antonio Gandin, chiese ai tedeschi la resa senza condizioni. Le esecuzioni sommarie, però, continuarono almeno fino al 24. Chi fu risparmiato, fu in seguito trasportato in campi di lavoro o di concentramento in Germania o nei territori occupati a Est.

Chi sopravvisse, affrontò una vera e proprio odissea per tornare a casa. In molti, poi, perirono sulle navi affondate dalle mine o dai siluri degli angloamericani (circa 2.500 vittime in affondamenti di navi partite da Cefalonia e Corfù). Sul numero totale dei morti non c’è ancora un accordo unanime, ma se nel 2015 il conteggio dell’Associazione nazionale divisione Acqui ha stimato in 4439 i reduci italiani tornati in patria, non è azzardato ipotizzare che le vittime (ripetiamo: in totale) siano state almeno 7.500.

“Io, schiavo di Hitler”

Gino Marchesin, 95 anni, a Cefalonia nel settembre 1943 non c’era. Era arrivato a Corfù dall’Albania e il suo racconto sembra un film d’azione: “Decidemmo di resistere. E quella è stata la nostra fortuna, perché abbiamo spaccato le truppe tedesche in due e protratto il combattimento fino al 26 settembre. Dopo i fatti di Cefalonia, forse i tedeschi hanno deciso di non commettere le stesse atrocità a Corfù”, racconta il reduce. Ma l’odissea di Marchesin era solo agli inizi: “Mi fecero prigioniero, ci misero in un campo vicino all’aeroporto. Non ci davano da mangiare niente e non potevamo nemmeno avere contatti con la popolazione locale per avere un po’ di cibo. Ci arrangiavamo: un giorno, messa dell’erba da campo negli elmetti per cuocerla poi con un po d’acqua, sento un rumore sordo in lontananza: alzo gli occhi e all’orizzonte vedo uno squadrone di aerei. Erano gli americani, e pensavo fossero lì per salvarci. Quando vidi che lo squadrone si allargò in formazione, capì che stavano per bombardare. Fu un massacro, vedevo corpi dilaniati a destra e a sinistra”. Ma Gino, quella volta, riuscì a scamparla.

La morte, però, bussò ancora diverse volte alla sua porta: trasferito da Corfù a Igoumenitsa, sulla terra ferma, rischiò di essere ‘estratto’ in un sorteggio per una decimazione: “I tedeschi ci facevano trasportare oggetti e vettovaglie. Sparirono due scatole di un chirurgo e non la presero bene: dissero che, se non fossero saltate fuori, avrebbe fucilato un soldato ogni dieci. Eravamo più di mille, credo 1200. Grazie all’appassionato intervento di un ufficiale italiano, però, la decimazione fu tramutata in 25 frustate”. Ma non era finita, perché Marchesin prima di fare ritorno a casa, in Italia, dovette affrontare altre prove. La più terribile, finire in un lager nazista a Belgrado: “Lì ho lasciato l’anima, per 6 mesi non ci hanno dato niente da mangiare”. La sua straordinaria esperienza è raccontata nel libro ‘Io, schiavo di Hitler’, scritto con la curatela di Ugo Perissinotto.

Quando una licenza (e un ritardo) salvano la vita

Olindo Bussi, 97 anni, l’ha scampata due volte. La prima perché “dopo aver contratto la malaria a Corfù, ero stato mandato a casa in licenza per un mese nel luglio 1943”. La seconda perché, al momento di dover tornare in Grecia, arrivò in ritardo al comando navale di Brindisi e vide salpare la nave ‘Città di Spezia’ dal porto. Quella nave fu poi affondata dai siluri di un sommergibile britannico e persero la vita diversi soldati. Olindo dovette così attendere per ripartire, ma con l’8 settembre e il pandemonio seguente non salpò più alla volta della Grecia. E, anzi, proprio in Puglia riuscì anche a vedere il re Vittorio Emanuele III e parte della famiglia reale durante la loro fuga da Roma.

Da sinistra, Dino Benedetti e una ragazzo dell’istituto Ferraris-Fermi di Verona — Foto upday

Ventenni allora, quasi centenari oggi, accanto ai 18enni

In quei drammatici giorni del ’43, i nostri protagonisti avevano poco più (o poco meno) di 20 anni. Ora, che di anni ne sono passati 75, Olindo, Pietro, Andrea, Dino e Gino vivono le loro vite da reduci raccontando- quando capita, o quando glielo chiedono - quello che hanno passato.

Alla commemorazione, c’erano anche due scolaresche. Alunni di un istituto tecnico superiore e studenti di una scuola media. Durante i discorsi delle autorità, il coinvolgimento dei ragazzi non sembrava alle stelle. Ma quando si è trattato di andare a salutare i reduci e ascoltare qualche loro parola, molti sono scattati con entusiasmo. Per chi è nato e cresciuto senza guerra, ascoltare di persona i racconti di chi si è salvato, anche in modo rocambolesco, è un’esperienza profonda. Al netto della retorica sull’eroismo e sul nazionalismo, la memoria e la tradizione delle singole e multiformi storie umane sono tra i bagagli del passato più preziosi da conservare.

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