Lavoro e giovani, c’è una strada ancora da esplorare

Le riforme messe in campo finora hanno avuto pochi effetti. Forse si può fare qualcosa, rischiando un po’

Giorgio Baglio
upday IT
3 min readSep 18, 2018

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Career day all’Università Cattolica di Milano — Nicola Vaglia/ LaPresse

Non sono “bamboccioni”, “choosy”, pigri. E non stanno sdraiati sul divano ad aspettare il reddito di cittadinanza. Molti sono rassegnati, certo, altri hanno un lavoro precario, i più fortunati sono assunti con uno stipendio dignitoso, ma spesso più basso di gran parte dei coetanei europei. Sono i giovani italiani e non serve che l’Istat ci confermi a ogni rilevazione che il tasso di disoccupazione sfiora il 33% o il 34%. Basta incontrarli, conoscerli e parlare con loro.

Il tema della disoccupazione giovanile è sempre stato in cima alle agende di governo, ma finora i rimedi hanno avuto solo effetti limitati. Non si tratta di attribuire responsabilità, ma di comprendere a fondo il problema per trovare soluzioni di lungo respiro.

Tra i provvedimenti messi in campo dagli ultimi governi ci sono stati la decontribuzione per i nuovi assunti, il Jobs Act, con l’abolizione dell’articolo 18 per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, lo stanziamento di fondi alle imprese. Qui si possono leggere i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, in un interessante articolo su Formiche.

Se tutte queste riforme hanno avuto solo effetti piuttosto blandi, forse varrebbe la pena tentare altre strade, magari investire su settori considerati marginali e non direttamente connessi al lavoro: l’istruzione, la ricerca e la cultura. Il nostro Paese investe solo l’1,3% del Pil in ricerca — siamo dodicesimi in Europa — e meno dell’1% in cultura. Un Paese che possiede il più ampio patrimonio a livello mondiale con oltre 3.400 musei, duemila aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco.

La fuga di cervelli

Si parla spesso di fuga di cervelli, di ragazze e ragazzi che lasciano l’Italia per trasferirsi all’estero. E se ne parla con rassegnazione, come un dato di fatto. Basta incontrarli questi 30enni per capire perché non tornano. Marta ha 34 anni. Dopo 5 anni a Londra in una banca d’investimenti, riceve un’offerta in Italia a metà stipendio “perché ancora giovane”. Cosa dovrebbe fare? Accettare? Giulio è un ricercatore italiano che lavora in un’importante università americana. Guadagna più di 3mila dollari al mese. Perché dovrebbe tornare per uno ‘assegno’ di 400 euro? Per non parlare di chi, lauree, master, conoscenza delle lingue, si sente rispondere: “Sei bravissimo, ma non ho soldi per pagarti”. O viene pagato in nero, con un ‘argent de poche’ e la promessa un giorno di avere un contratto.

C’è chi assume ma non trova ‘specializzati’

Poi esistono anche i paradossi. Ci sono aziende che cercano professionisti e non li trovano, perché non sufficientemente formati, oppure incapaci di sperimentare le nuove professioni che si affacciano all’orizzonte. Nelle università americane esistono le ‘School of Continuing Education and Professional Studies’, scuole di formazione da frequentare durante la propria carriera per acquisire nuove competenze specifiche nei settori più disparati. Corsi molto pratici, mirati ed efficaci. E qui torniamo al tema dell’istruzione: finanziare borse di studio all’estero, corsi pratici di formazione e di alta specializzazione probabilmente non avrà un effetto immediato sui dati dell’occupazione — e neppure sul consenso dell’elettorato — ma nel medio-lungo termine porterebbe di certo buoni frutti. Forse vale la pena provarci.

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Giorgio Baglio
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