La breve, brevissima storia del DAC

Fabbì
UX Italics
4 min readApr 23, 2018

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Il DAC è il nome in codice di una delle “piccole storie” sull’ Interaction Design in Italia.

E’ stato un corso di laurea specialistica durato solo 4 anni e che ha dato alla luce una quarantina di interaction designers tra il 2008 ed il 2012. In quei tempi a cavallo del decennio, si era da poco conclusa l’avventura dell’Interaction Design Institute di Ivrea e si era ancora un po’ lontani dall’apertura di nuovi corsi e sub-corsi di Interaction Design, tutti rigorosamente in nord Italia.

Il corso si teneva all’Università degli Studi di Siena, in centro Italia, in una università ancora famosa per la sua didattica e non per la crisi e gli scandali che presto l’avrebbero colpita.

Erano gli anni in cui il sistema del Monte dei Paschi di Siena stava cominciando a cedere, portandosi inesorabilmente dietro l’Università, la città e tutto quello che la città poteva contenere ed il DAC, con la sua sede in via Roma, era stato fondato su un terreno incerto.

Nasceva dalle ceneri di un corso che portava l’austera dicitura di “Interazione Uomo-Macchina”, chi lo ha frequentato ora lavora in grandi aziende o insegna Interaction Design, a volte fa tutte e due le cose.

Ecco, questo è il contesto in cui “la piccola storia” è stato fabbricata, ma sono stati una serie di fattori e sfortunate coincidenze a garantire il suo anonimato.

Il primo motivo per cui del DAC non se ne è parlato è che la bolla dell’Interaction Design era appena nata e non ancora cresciuta: si stava attraversando un periodo di “definizione” e mentre altri acronimi come UCD affollavano le schede dei corsi, nell’ambiente si parlava anche di UX e UI, Design Thinking, best practices ed altri inglesismi.

E se ora dicessi che il DAC è stato, come finora in questo scritto, solo uno di quegli acronimi, farei un torto alla “piccola storia” che mi ha portato fin qui.

Chi scrive ha frequentato quel corso ed è probabilmente stata l’ultima laureata di Design di Ambienti per la Comunicazione, una di quei 30 interaction designer certificati DAC.

Io a Siena c’ero accademicamente cresciuta studiando il curriculum “Analisi e produzione testi” sotto Scienze delle Comunicazione. Avevo deciso di restare e di dare una “svolta” alla mia carriera accademica dopo una tesi sulla Letteratura Americana fatta per puro piacere e che non lasciava spazio a grandi interpretazioni sul futuro: fare la scuola di traduzione a Firenze, fare la specialistica in Scienze Cognitive o fare una specialistica nuova e misteriosa. A me, per il semplice fatto di aver già studiato a Siena, l’accesso alla specialistica misteriosa non mi poteva esser negato ed e’cosi’ che mi sono ritrovata dritta verso la prima lezione di Analisi delle Attività e Definizione dei Requisiti.

Al DAC si studiavano le materie che ai tempi componevano la UCD: un po’ di storia delle tecnologie, un po’ di ricerca, un po’ di web un po’ di physical computing. Tutto “un po’” di quello si pensava potesse formare un Interaction Designer, ma soprattutto il pensiero prima dell’azione.

Tutto sommato ci sentivamo fighi senza il diritto di esserlo ed il DAC finché ha potuto ha alimentato questa illusione. Sulla soglia dei nostri 20 e qualcosa anni eravamo entusiasti ed incantati, lontani anni luce dalla realtà del Design eppure abbastanza vicini da schiantarcisi contro.

Nella classe eravamo in 16, con una dote di sei estranei provenienti da “ovunque” tranne che dalla triennale in Tecnologie da cui provenivano gli altri 10.

Di questi 16 futuri interaction designers 4 contribuiscono ora a questa serie chiamata UX Italics.

Di questi 4, due vengono dalla stessa regione e due dalla stessa Università, tre donne ed un uomo, tre outsiders ed una insider, due che vivevano nella contrada del Nicchio, uno fuori le mura e l’altra in una residenza universitaria fuori Siena. Tutti attualmente in parti diverse del mondo.

Marcello aveva vissuto fino ad allora a Sassari studiando Giornalismo, Alessia a Firenze con una triennale in Comunicazione Linguistica e Multimediale e Simona per l’appunto dalla triennale di Tecnologie a Siena.

Non ci siamo incontrati subito, ma ricordo che di Marcello mi colpì la sua mancanza totale di accento, di Alessia la scelta sempre azzeccata degli accessori e di Simona una bellezza in coabitazione con una travolgente goffagine.

Di me si sa già il giusto e spero che gli altri potranno raccontare il resto.

Noi quattro ad un certo punto abbiamo cominciato ad orbitarci attorno: con Marcello ed Alessia ho lavorato assieme sul secondo progetto. Per lavorare con Simona, invece, ci ho messo un po’ perché la diffidenza tra chi veniva da Tecnologie e gli altri era più di un percepito, ma una vera e propria segregazione iniziale.

Le cene, la vodka e le serate da Rosy hanno fatto il resto.

Ora ci sentiamo soprattutto via email, quando capita ci incontriamo per una rimpatriata, parliamo di Gianni Morandi e ci scambiamo opinioni, raramente sul mondo del design.

UX Italics parla delle nostre storie e di quei sedici selezionati studenti di Interaction Design, di quello che fanno ora e di cosa ne pensano di essere stati inconsapevolmente i precursori di uno degli acronimi più usati ed abusati degli ultimi anni, che non è DAC ma è UX.

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