Informativa privacy, l’ultimo scoglio dell’UX Writing

Nella home page creiamo sorpresa, nella lista prodotti creiamo entusiasmo, nel form di registrazione creiamo fiducia… e a fondo pagina roviniamo lo sforzo fatto, creando senso di inadeguatezza.

Giovanni Ghirardi
UX Tales
9 min readJul 27, 2020

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Tutti proviamo svariate emozioni durante la navigazione. Se positive si trasformano in motivazione, premiando l’utente e l’azienda, se negative diventano bloccanti o disattivanti, facendo perdere tutti.

Incanalare e gestire queste emozioni è soprattutto compito dei testi nell’interfaccia. Mai come oggi si sta creando una coscienza comune sull’importanza di avere un tono di voce adeguato e una maggiore attenzione sui testi: microcopy, call-to-action, feedback, ecc…

Le aziende e le agenzie si stanno rendendo conto che la forma testuale che accompagna l’interazione (definita nell’UX Writing) non può più essere trascurata. Magari lasciandola alla casuale qualità lessicale del singolo designer o alla tradizionale maniera di fare copywriting.

Nella pratica della progettazione, si tratterebbe di far sparire il maledetto Lorem ipsum e dare più centralità a chi scrive i contenuti, evitando di ingaggiarlo solo ad interfacce finite. Un ruolo, quello del Content Designer, che sta finalmente passando da riempitore di spazi altrui a co-progettista dell’esperienza utente.

Ma c’è una precisa area testuale di siti e app dove ancora la strada è in salita: l’accettazione delle informative privacy e trattamento dei dati personali. L’utente può iniziare la sua esperienza in un form friendly del 2020 e finirla con un testo vetusto del 1920. Il tutto nel giro di pochi pixel.

Non c’è dubbio, il colpevole è il burocratese (spoiler: abbiamo il Legal Designer come giustiziere).

Il burocratese (o legalese) è quello che Italo Calvino definì, in un articolo del 1965, come l’antilingua inesistente: nemica della chiarezza e della concretezza. Un linguaggio che non serve a comunicare, a farsi capire, ma, al contrario, serve a tenere a distanza, a mettere una barriera tra sé e gli altri.

Ma perché ancora oggi ne parliamo e perché è così duro a morire?

Tanto non lo legge nessuno

Questa è la giustificazione, con una base di colpevole verità, che spesso le aziende usano per evitare di investire nel miglioramento dei contenuti contrattuali e legati alle informative privacy e marketing.

Ciò che spesso si sottovaluta è il potere della fiducia che possono creare questi contenuti. In certi casi, possono anche diventare un puro strumento di marketing, soprattutto se ci si fa vanto della propria trasparenza.

Si analizza, si progetta e si costruisce un’intera piattaforma digitale per far incontrare gli obiettivi dell’azienda con i bisogni dell’utente, ma poi si tengono in bella vista — la registrazione è spesso uno dei funnel principali — aree poco chiare, scritte da legali e comprensibili per lo più solo da altri legali.

Quali emozioni induce il burocratese

Come Valentina Di Michele e Andrea Fiacchi analizzano nel loro ultimo libro (Emotion Driven Design), all’interno della società esistono tantissimi modelli mentali, ed ognuno di questi ha una sua forma di linguaggio specifica. La forma e i termini usati in uno studio legale non sono gli stessi di un’officina meccanica, quelli usati in una clinica a contatto con pazienti sono simili ma non uguali a quelli di un laboratorio di analisi, e addirittura quelli che usi al lavoro non sono uguali a quelli che usi in famiglia.

Tutti noi siamo in difficoltà quando entriamo in contatto con un modello mentale che non ci appartiene.

I contenuti prodotti con un linguaggio specifico sono molto chiari solo nel gruppo dove nascono, ma complicati e frustranti per chi viene da fuori.

Valentina Di Michele, nel suo corso Progettare contenuti per le emozioni delle persone, spiega che la frustrazione e l’ansia sono le principali emozioni negative provocate dalla mancata comprensione di un testo. Generano la sensazione di impotenza davanti a uno sforzo mentale che sembra inutile. Come se, anche con tutta la buona volontà ed impegno, qualcosa ci stesse sfuggendo.

Al contrario, tutto ciò che richiede uno sforzo mentale alla nostra portata lo interpretiamo come facile da fare e soddisfacente. La soddisfazione è l’emozione positiva alla base della fiducia. La fiducia è la motivazione che spinge le persone a fare cose.

Alcuni esempi che inducono emozioni negative:

1. Senso di inadeguatezza
O l’azienda ritiene l’utente così stupido da non comprendere il contenuto dell’informativa, o l’informativa è scritta volutamente in maniera complicata.

2. Distacco
In tutto il form si usa il tu e poi improvvisamente arriva l’impersonale del “Si autorizza il trattamento dei dati personali […]”

3. Confusione
Dall’io al lei nella stessa call-to-action “Confermo (se non conferma non potrà […]”. Tra l’altro, nel resto del form si usa il tu nel titolo, l’impersonale negli errori e il voi nella frase da confermare.

Incongruenza nel tono di voce

Gli esempi qui sopra dimostrano che c’è ancora molta leggerezza nel mantenere coerenza nel tono di voce.

La sensazione che spesso si ha è che, per esempio scrollando un form di registrazione, improvvisamente il sito debba farsi più autorevole di quanto non sia stato finora. Come se inconsciamente dicesse “fin qui con le domandine si giocava, ora passiamo alle cose serie”.

Questo bipolarismo del tono di voce è spiazzante.

La percezione dell’utente è che una delle due forme di comunicazione sia poco onesta. Sarà quella gentile e colloquiale o sarà quella fredda e impersonale?

Nella pratica:

  • Chi si occupa di contenuto cerca con fatica di definire un tono di voce adeguato: che sia amichevole ma professionale, che sia cortese ma non troppo accondiscendente, che sia positivo ma non troppo sognante.
  • Poi valuta con l’UX Designer quali contenuti servano.
  • Crea i testi, in linea con la personalità scelta.
  • I contenuti vengono messi nell’interfaccia.
  • Arriva l’ufficio legale ed impone il suo trattamento dei dati.

Il dialogo dell’azienda verso l’utente risulterebbe più o meno così…

Scelte lessicali

L’aspetto più evidente è la scelta delle parole da usare.

Calvino definisce “terrore semantico” l’evitare forzatamente ogni parola che abbia un significato comune (per paura di passare per ignoranti) optando invece per sinonimi più complicati e meno usati, con il risultato di creare poca chiarezza.

Inevitabilmente ciò si trasforma in una separazione classista, “Io scrivo così, se non capisci non sei alla mia altezza.”

Come diceva Albertone?

Per fortuna, la direzione che ormai molte aziende stanno prendendo è quella di scegliere una scrittura colloquiale: una via di mezzo tra la seriosità della lingua scritta e la freschezza di quella parlata. L’obiettivo è mantenere la professionalità di chi ne capisce, comunicando con la naturalezza di un amico di cui ti fidi.

Evitare l’antilingua non è complesso: basta non usare espressioni dell’altro secolo e scegliere parole che le persone usano più comunemente. Ovvio, senza scadere nello slang.

Una verifica immediata, per valutare i propri testi, è pronunciare la frase ad alta voce di fronte ad un’altra persona: se risulta inutilmente altisonante, è da ottimizzare.

Qualche esempio…

Poca importanza al valore

Una delle strategie principali su cui punta l’UX Writer è comunicare il valore, non il metodo.

È necessario frenare il naturale primo pensiero pratico sul cosa quel prodotto fa, sostituendolo con il come cambierà in meglio l’esperienza dell’utente.

L’obiettivo è di comunicare i vantaggi, non le caratteristiche.

In questo modo l’utente non leggerà un’asettica lista di utilizzi dei propri dati, che porta poca emozione (quindi poca motivazione), ma dei vantaggi concreti per sé stesso, la trasparenza aziendale percepita, la personalizzazione dell’offerta o un più agile servizio clienti.

Questo ribaltamento di prospettiva è una delle cose più complicate da far digerire agli uffici legali.

Purtroppo, prevale spesso la percezione (sbagliata) che solo ciò che è altisonante e distaccato possa essere inteso come autorevole e insindacabile.

Anche se a volte, basterebbe davvero poco…

Obiettivo finale, la semplicità

Quanto analizzato fin qui non intende dire che dobbiamo sempre evitare parole complesse. Piuttosto, vanno sfruttate per ritmare i testi in cui l’usabilità non è prioritaria: dove il racconto (il caro storytelling) e la personalità più intima del brand devono essere valorizzati.

Ogni parola che scegliamo è un mattoncino nella comprensione di quello che comunichiamo, e la sua resistenza è il come lo facciamo. Se però non c’è comprensione, si crea sfiducia. Se c’è sfiducia, la “casa” creata per i propri clienti crolla. Ricostruirla poi sarà faticosissimo e costosissimo!

La pratica da seguire è una costante ricerca della vera semplicità, che non vuol dire banalità o appiattimento. John Maeda ne diede una definizione semplicemente perfetta

Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo

Chi ci salverà? Il Legal Designer

Molte delle pratiche descritte sono alla base del Legal Design che, come scrive l’avvocato Giorgio Trono, è la “disciplina che applica i principi del design thinking al mondo del diritto”.

Uno degli aspetti su cui principalmente ci si concentra è rendere più leggibili e visuali i contratti. Attenzione, non si tratta semplicemente di migliorare l’aspetto estetico. Ma di ottimizzare il testo e creare infografiche che riducano lo sforzo cognitivo. Per approfondire, consiglio l’articolo di Luisa Carrada.

Naturalmente non solo di contratti si occupa il Legal Design. Anche le informative privacy o le condizioni di vendita possono essere rese più comprensibili. Con evidenti vantaggi per la trasparenza verso l’utente e per la fiducia che l’azienda acquisisce.

Il ruolo professionale del Legal Designer è abbastanza recente, come quello dell’UX Writer, ma già esistono realtà specializzate: The Writer, Stefania Passera, Federica Corsi e lo stesso Giorgio Trono citato in precedenza.

Ora, serve solo il bat-segnale per chiamarli. Ma forse basterà una email!

P.S. La politica ragiona in burocratese

Non posso non chiudere con una nota sull’attualità.

In questi mesi, questione “congiunti” compresa, l’opinione pubblica ha discusso sulla poca chiarezza dei decreti-legge più di quanto abbia mai fatto prima. Ed è soprattutto nei testi prodotti dalla politica dove si annida la volontà di evitare la chiarezza, con la paura di farsi capire (troppo bene) o perdere l’algido tono istituzionale.

Giusto come esempio, un’alternativa al decreto-legge del 16 maggio che ci fece uscire dal lockdown

È soprattutto grazie alla politica se l’antilingua è ancora viva.

Calvino scrisse che “dove trionfa l’antilingua, la lingua viene uccisa” e che l’italiano “sopravvivrà soltanto se riuscirà a diventare una lingua strumentalmente moderna […] sviluppandosi non nel rapporto con i dialetti, ma con le lingue straniere”.

Ma, non sarebbe onesto dire che la politica non abbia mai tentato di risolvere il problema.

Nel 1993 la presidenza del Consiglio dei Ministri fece redigere il “Codice di stile”, partendo dal presupposto che “una pubblica amministrazione che sia realmente al servizio dei cittadini deve garantire ai suoi utenti una comunicazione chiara e univoca”. Nel 1997 con il “Manuale di stile” si cercò anche di promuovere un linguaggio meno discriminatorio verso le donne (ancora oggi l’uso del maschile come genere base è molto diffuso). Nel 2002 ci provò la Direttiva Frattini intitolata “Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi”.

Poi ovvio, tra il dire e il fare c’è di mezzo una copiosa e cerulea distesa salmastra.

Storie di design, esseri umani e interazioni.

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