Un designer nel paese dei mostri selvaggi

Evoluzione del ruolo del designer tra innovazione, cultura e trasformazione digitale

Lorenzo Fabbri
UX Tales
14 min readJan 28, 2019

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Illustrazione di Davide G. Steccanella

Il testo è un adattamento del mio intervento al XII Summit di Architettura dell’Informazione, Genova 26–27 Ottobre 2018

Abbiamo tutti la percezione che questo sia un buon periodo per il design, ma questo di preciso cosa significa? Qual è il reale impatto che produce nella società? Quando penso all’impatto del design mi viene sempre in mente il Bauhaus. In quattordici anni, dal 1919 al 1933, ha saputo interpretare magnificamente la rivoluzione industriale e tecnologica del suo tempo, raccoglierne le sfide e contribuire a dare forma alla società moderna. Sappiamo che cosa ha bruscamente interrotto l’attività del Bauhaus, ciò nonostante gli effetti sociali del Bauhaus sono giunti inarrestabili fino ai giorni nostri.

https://it.wikipedia.org/wiki/Bauhaus

Se vogliamo riflettere sull’impatto del design dobbiamo smettere per un attimo di congratularci con noi stessi per i progressi della disciplina e per quel poco di spazio o attenzione in più che le aziende concedono ai designer in questo periodo. È forse il momento di farci qualche domanda sincera: come designer, stiamo realmente provando a cambiare, con tutte le nostre forze, la società in cui viviamo? Siamo davvero sicuri che l’impatto che pensiamo di produrre sia un impatto positivo “in senso assoluto”? E infine, quali strategie possiamo adottare per rendere più forte o più rapido l’effetto che abbiamo in mente di creare?

Rispondere a queste domande significa affrontare i nostri limiti e le nostre paure come designer. Ed è quello che faremo oggi, e lo faremo in compagnia di un libro, un libro sull’immaginazione e sulla paura, che si chiama “Where the Wild things are” (Nel Paese dei mostri selvaggi) e che alcuni di voi conosceranno.

Nel paese dei mostri selvaggi, di Maurice Sendak

Il libro fu pubblicato nel 1963 e cambiò il canone dell’editoria per ragazzi dell’epoca. È il racconto del viaggio immaginario di un bambino di nome Max che gioca in casa, “ne combina di tutti i colori” e viene messo in punizione dalla mamma. A quel punto inizia la sua avventura che lo porterà nel paese dei mostri selvaggi. Anche noi, come designer, abbiamo i nostri mostri: quelli che abitano l’ambiente professionale in cui operiamo e che dobbiamo affrontare ogni giorno: ad esempio il potere, la complessità, il profitto. E poi ci sono i nostri mostri interiori, per esempio quel senso di inadeguatezza che accompagna gli animi più sensibili e che a volte ci troviamo ad affrontare. Ecco, quello che faremo è affidare al piccolo Max, con il suo animo giocoso e la sua psicologia così ricca e seducente, il compito di interpretare il mestiere del designer e le sue difficoltà ad abitare il paese dei mostri selvaggi.

Questo signore un po’ inquietante (in foto) è Maurice Sendak, l’autore del libro. Sendak fu uno scrittore americano, nato da genitori ebrei polacchi e morto nel 2012. Egli fu un innovatore, perché ridefinì il canone dei libri per ragazzi nell’epoca in cui viveva. La foto è di Annie Leibovitz, ed è sfogliando il suo “Portraits, 2005–2016” che mi è venuto in mente di usare i mostri di Sendak per parlare di design. In un’intervista rilasciata a Dave Eggers nel 2011, l’anno prima di morire, dichiarava: “My work is not great, but it’s respectable. I have no false illusions”. Sendak era una persona umile e con la dote della semplicità, ma anche abbastanza intelligente da temere che gli altri potessero confendere la semplicità con la banalità. Nell’intervista racconta:

A woman came up to me the other day and said, ‘You’re the kiddie-book man!’ I wanted to kill her.

Secondo Eggers:

No one has been more in touch with the chiaroscuro subconscious of a child”.

Credo sia bello farci ispirare da un animo così sensibile, creativo e autentico come quello di Sendak, un grande indagatore dei bisogni e dei desideri più profondi dell’essere umano. Ho diviso il suo “Il Paese nei mostri selvaggi” arbitrariamente in tre atti: la seduzione, la conquista, la scelta. Iniziamo allora il viaggio di Max — il bambino protagonista del libro — , il viaggio di un designer nel paese dei mostri selvaggi.

PARTE I
La seduzione

Ovvero, come il designer può conquistare un posto di rilievo nella vita di un’organizzazione

“Li domò con il trucco magico di fissargli negli occhi gialli”. Anche i designer hanno un trucco magico, sono i prototipi.

La storia inizia con Max che gioca in casa, indossa un costume da lupo, costruisce una tenda, insegue il cane, viene sgridato e poi punito dalla mamma che lo manda in camera, e qui tutto solo inizia a immaginare, e la sua stanza si riempie di vegetazione e diventa un bosco selvaggio. Qui inizia il viaggio di Max, che ben presto troviamo al comando di una nave, costretto a sfidare un drago in mare aperto fino ad approdare su un’isola, dove trova i mostri. Ed è qui che Max supera se stesso:

“Li domò con il trucco magico di fissarli negli occhi gialli”.

Le virtù del designer: ideare, creare, sorprendere (usando trucchi magici)

Qualcuno ha scritto che il gioco è un modo per simulare la vita. Se è così, fare il designer è un po’ come giocare. Non siamo poi così diversi da Max, anche noi abbiamo il nostro trucco magico, che è l’arte di realizzare prototipi, manufatti che simulano la realtà e nel farlo iniziano a definirla. Essi hanno il potere di rendere semplice ciò che è complesso, sgrovigliare la matassa, suggerire un futuro intellegibile lì dove fino a poco tempo prima regnava il caos. È un potere molto grande, ed è ancora più grande quando la trasformazione tecnologica è intensa e soffia “Il vento del cambiamento”. Il design è un ponte tra tecnologia e persone, è la disciplina che più di altre può aiutare a esplorare le possibilità della rivoluzione digitale e tradurle in soluzioni concrete.

Sedurre le aziende con i poteri magici del design: questa, diciamolo, è la parte che ci riesce meglio. Ma ora viene il difficile.

PARTE II
La convivenza

Ovvero, quanto è difficile vivere in azienda. I limiti del designer

Un designer a un party aziendale

Max vive insieme ai mostri, si arrampica sugli alberi con entusiasmo e festeggia alla luce della luna. Max è ora il re dei mostri, ma è re in una terra straniera. Max è vestito da lupo e potrebbe anche lui sembrare un mostro, ma lo è davvero? Si ferma a pensare, passa la notte insonne e sembra infelice. La fase successiva alla seduzione e alla conquista non è facile e neppure felice per noi designer, per almeno tre motivi.

Il primo è che noi designer non siamo sicuri di voler vivere dentro le aziende. L’altro giorno mi sono imbattuto in un annuncio di lavoro in cui un’azienda automobilistica cercava un service designer esperto di connected cars.

La cosa mi ha fatto riflettere: in primo luogo, ho pensato che oggi il modo in cui si cerca un service designer sta diventando simile a quello di un project manager. Stiamo parlando di figure professionali da assegnare a un progetto, con responsabilità di gestione e non solo di progettazione, pienamente organiche rispetto ai processi aziendali in cui devono essere inserite. Ma così il designer diventa un project manager un po’ meno esperto di tecnologia e un po’ più esperto di persone e di servizi! Poi ho pensato che si stanno cercando non tanto competenze specifiche, quanto esperienze professionali in specifici settori fino a spingersi appunto nella richiesta di un designer esperto di connected cars. Questa impostazione, di per sé legittima, rischia di annacquare il potenziale del design: si può continuare a essere creativi se si gestisce di fatto un prodotto, oltre che idearlo? Si può essere efficaci se il nostro orizzonte di esperienze di designer finisce per essere limitato a un settore specifico?

Tutto ciò ci porta direttamente al secondo tema: le aziende non conoscono a sufficienza il design e i designer, e questo non aiuta la convivenza. Penso che un indicatore efficace di questo fenomeno sia la diffusione di libri sul design nelle business school, le scuole che formano i direttori generali delle aziende di mezzo mondo. Usando i dati di Josh Kaufman (The personal MBA) scopriamo che tra i cento libri più utilizzati nelle business school più importanti del mondo (da Stanford alla Insead) solo due sono dedicati al design (La caffettiera del masochista e Principi universali del design), e salgono a tre (si aggiunge un manuale di product design) se si considerano anche le classifiche degli anni precedenti. Obiettivamente, non è un gran risultato. La “domanda di design” nelle aziende è in crescita, ma ai miei occhi è un processo scomposto e spesso poco efficace, pieno di contraddizioni. Quanti designer occupano posizioni di prima linea in azienda? Quanti ruoli di direttore del design esistono? Quanti designer hanno le legittima ambizione di diventare managing director o CEO dell’azienda in cui lavorano? Se vogliamo creare le condizioni affinché il design diventi più rilevante nelle aziende, dobbiamo lavorare per costruire una competenza diffusa sul design.

Le aziende non conoscono il design, i designer non conoscono le aziende. E’ questo il terzo aspetto che vorrei affrontare. Quanti di voi hanno esperienza di financial accounting? Credo molto pochi: eppure, dalla lettura di un bilancio aziendale possiamo derivare molte informazioni sulla strategia di prodotto e di innovazione di un’azienda. Quanti di voi hanno studiato corporate finance? Credo anche in questo caso pochi: eppure il concetto di valutazione d’azienda è un concetto rilevante se vogliamo lavorare con una start-up o fondarne una. Quanti saprebbero organizzare un piano strategico o anche “solo” un piano di marketing? Eppure capita spesso che i reparti di design siano inseriti all’interno di divisioni commerciali o divisioni marketing. E così via. Non puoi stare in azienda se non hai una cassetta degli attrezzi che ti permette di dialogare con le altre funzioni aziendali ed inserirti nei processi di business. Senza queste conoscenze di base è difficile diventare un manager di prima linea, perché non potrai relazionarti in modo produttivo con i tuoi colleghi esperti di marketing o di finanza. Ed è impossibile diventare direttore generale, perché non sarai credibile. E finora abbiamo considerato le hard skill, ma un discorso analogo si potrebbe fare con le soft skill, necessarie per “sopravvivere” in azienda, per esempio gestire le emozioni negative di un ambiente spesso pieno di contraddizioni, avere la perseveranza di affrontare e superare le difficoltà e i giudizi negativi e i conflitti interni, avere una capacità di teamwork senza dover essere per forza rivendicare ogni volta un ruolo al centro della scena. Max indossa un costume e sembra un mostro, ma non è un mostro. Il suo è solo un costume.

PARTE III
La scelta

Ovvero, le strade da seguire per creare impatto nelle organizzazioni e nella società

Nella società in cui viviamo, e nella forma che la trasformazione digitale ha preso nei paesi occidentali, abitare le aziende è la strada maestra che noi designer dobbiamo provare a percorre per creare un impatto sociale significativo. Tutto questo tratteggia una evoluzione nel ruolo del designer che ai miei occhi ancora non ha preso una forma precisa ma potrebbe seguire alcune prospettive, non necessariamente alternative tra loro. Una di queste è anche quella del nostro Max.

LEADERSHIP CULTURALE

Essere leader culturali di un’organizzazione non significa imporre la nostra identità, significa all’opposto diventare i paladini del team work. Dobbiamo quindi diventare responsabili del personale o della comunicazione? Forse dobbiamo continuare a fare i designer, indirizzando però la nostra capacità di ascolto e la nostra sensibilità non solo in direzione dei clienti, ma anche dei nostri colleghi. Dobbiamo essere inclusivi, dobbiamo favorire la partecipazione e la collaborazione, dobbiamo fare in modo che il design thinking sia un collante per il top management. Dobbiamo fare design organizzativo, che oggi non è solo lavorare sul layout degli uffici ma è soprattutto design delle conversazioni che avvengono in azienda. Le tecnologie digitali — e in particolare i collaboration tool e i digital workplaces stanno cambiando in modo decisivo le aziende e il modo in cui lavorano. Il nostro compito è progettare e dare personalità a questi ambienti, favorirne la diffusione in azienda. Questo non dovrebbe sorprenderci, era chiaro già nella visione dei padri “La nostra comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile…per dare a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quella efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori (Adriano Olivetti, Il Cammino della comunità, 1959). Ed è lo stesso concetto che troviamo nei padri della cultura digitale. Nel Cluetrain Manifesto leggiamo:

«Ci sono due conversazioni in corso. Una all’interno dell’azienda, l’altra con il mercato…. queste due conversazioni vogliono parlare l’una con l’altra. Parlano lo stesso linguaggio. Si riconoscono l’un l’altra dalla voce».

Come designer, dobbiamo avere un impatto decisivo sul linguaggio che le nostre aziende parlano ogni giorno. Il nostro design system è il tool che più di altri può aiutarci a costruire significati e identità.

LEADERSHIP DEL SISTEMA DI PRODOTTO - SERVIZIO

Questa seconda prospettiva sottolinea il crescente contributo del design alla definizione del sistema di prodotto/servizio di un’azienda, sempre più complesso e interdipendente per via della digitalizzazione che connette tra loro i servizi, e i servizi alle persone.

Avere una leadership sul prodotto non può significare limitarsi a progettarlo, ma sempre di più significa gestirlo, che vuol dire affrontare giorno dopo giorno il modo in cui il nostro progetto si attualizza. Dobbiamo chiederci: in quanto progettisti quanto dobbiamo essere coinvolti nella realizzazione, evoluzione e gestione di ciò che progettiamo? Questo ci porta alla necessità di comprendere e di governare i processi di produzione e di evoluzione del prodotto, compresi gli effetti economici di ciò che facciamo: business model, lean start-up, design thinking e movimento agile tendono a convergere e contaminarsi tra loro. Infine, oggi i prodotti sono sempre più spesso funzione di ecosistemi che bisogna sapere comprendere e influenzare, se si vuole progettare un buon servizio. Un buon designer deve saper pensare anche in termini di ecosistemi.

LEADERSHIP DELL’INNOVAZIONE

A mio parere noi designer usiamo il concetto di innovazione con troppa leggerezza. E ce ne appropriamo in modo un po’ sbrigativo. Nelle aziende c’è una visione più articolata dell’innovazione: l’innovazione è spesso collegata a discipline come il marketing, l’ingegneria e anche l’organizzazione e c’è una disciplina, che si chiama innovation management, che abbraccia tutti questi aspetti (design compreso). Dobbiamo padroneggiare concetti e teorie legate all’innovazione, anche se apparentemente lontane dal design: per esempio dobbiamo conoscere il significato di disruptive o quello di open innovation.

Per spiegare questo tema ho creato una mappa, che è la semplificazione e la rielaborazione del lavoro di una studiosa di Harvard che si chiama Dorothy Leonard-Burton che mi ha fatto scoprire il mio insegnante di innovazione Andrea Prencipe.

Questa mappa incrocia prospettiva di mercato (esistente o nuovo) e tipo di tecnologia utilizzata (nuova o matura). In relazione a questa mappa è possibile definire cinque tipi di strategia (intuizione sviluppatore, creazione mercati, indagine etnografica, analisi di mercato, trasferimento tecnologico) e tre profili di innovazione: quella che potremmo chiamare “innovazione di marketing” e che opera in mercati esistenti e nel quadro di tecnologie mature;

quella che potremmo definire “disruption tecnologica” (nuove tecnologie che creano nuovi mercati) e infine un’area che possiamo assegnare al design, come veicolo di esplorazione di opportunità tecnologiche e di bisogni “profondi” dei clienti.

Io penso che il design, e in particolare il design partecipativo, possa aspirare ad essere un framework di supporto a diversi processi di innovazione. Ma il primo passo è capire l’innovazione, e capire che ci sono diversi tipi di innovazione in relazione al tipo di mercato e di azienda che la sta realizzando. Altrimenti, come designer, rischiamo di pensare che le stesse ricette (le nostre ricette) siano buone per tutti i tipi di problemi, e tradire un po’ il senso del nostro lavoro.

IL DESIGNER COME DESIGNER

E’ tempo di tornare ai mostri selvaggi della storia di Sendak e scoprire quel è la scelta di Max, rispetto alla difficoltà di abitare il paese dei mostri selvaggi.

Max non è felice, prova nostalgia e decide che è tempo per lui di tornare a casa. I mostri si sono abituati a lui e cercano di trattenerlo: “Noi ti amiamo, per questo ti vogliamo mangiare!” Ma Max non può restare, potrebbe sembrare ma no, lui non è un mostro; è un bambino che sente nostalgia di casa e vuole tornare nella sua cameretta. E così parte, per lui è tempo di tornare a fare ciò che gli riesce meglio: ideare, creare, sorprendere.

La decisione di Max, applicata alle vicende di noi designer, corrisponde all’idea che il design e la creatività siano beni preziosi, da proteggere e da usare con cautela, forse da tenere al riparo dal logorio quotidiano della vita d’azienda. In questa scelta — senz’altro quella meno avventurosa e rischiosa — c’è un’affermazione forte di unicità e di differenza. Essa appare ai miei occhi come la presa di coscienza del limite, e vorrei dire che non necessariamente è la strada meno efficace per raggiungere il nostro obiettivo, che è creare un impatto significativo nella società e nelle persone. Il senso del limite può essere una virtù: anche dalla «cameretta», credo, è possibile produrre cose belle per il mondo in cui viviamo.

EPILOGO

Ci stiamo avvicinando alla conclusione di questo viaggio del designer nel paese dei mostri selvaggi. Qui potete vedere uno schema che riassume il viaggio di Max: siamo partiti dagli obiettivi del design e dalle virtù dei designer (poteri magici compresi) e ci siamo soffermati sulle opportunità della trasformazione digitale che possono mettere i designer al centro della scena.

Dalla fase della seduzione siamo passati a quella, più difficile, della convivenza: designer che non conoscono le aziende, aziende che non conoscono il design e poi l’insanabile contraddizione tra creatività e vita d’azienda. E poi l’epilogo: quello di Max è il ritorno nella sua cameretta a fare ciò che ama di più, ideare, creare, sorprendere. Chi invece è alla ricerca di un orizzonte diverso può scegliere di affrontare nuove sfide, che a mio parere tratteggiano un’evoluzione nel ruolo del design: diventare leader dei processi di innovazione, diventare leader del cambiamento culturale, diventare leader del sistema di prodotto-servizi delle aziende in cui lavoriamo.

Ed è tutto.
Spero di non avervi spaventato troppo! 😉

Mentre tenevo il mio discorso a Genova, Riccardo Moreschi ha realizzato uno schema migliore del mio :)
Storie di design, esseri umani e interazioni.

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Lorenzo Fabbri
UX Tales

Le parole sono importanti. Digital startups — Digital transformation. Executive MBA at Luiss Business School