Brexit: il Regno Unito se ne va dall’Europa?

Valigia Blu
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14 min readJun 7, 2016

Aggiornamento 24 giugno 2016: Ha vinto Brexit. Il Regno Unito ha votato per l’uscita dall’Europa: Leave 52%, Remain 48%, con un affluenza al 72%. Si trattava di un referendum consultivo, quindi non legalmente vincolante. Ora il Parlamento deve decidere cosa fare.

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Il Regno Unito deve restare nell’Unione europea o deve lasciarla?

È il quesito su cui saranno chiamati a esprimersi i cittadini britannici giovedì 23 giugno 2016. Se vincesse la Brexit, il Regno Unito sarebbe il primo Paese membro a lasciare l’Unione.

“Brexit” sta per “Britain Exit”, che letteralmente significa “uscita della Gran Bretagna”. Si tratta di un referendum di tipo consultivo, che non prevede il superamento di un quorum e non è legalmente vincolante. In linea teorica, dunque, in caso di vittoria della Brexit, il Parlamento potrebbe anche approvare una legge che vada contro il risultato e impedire l’uscita dall’Ue.

via electoralcommission.org.uk

La Gran Bretagna dovrà ridiscutere tutti i trattati e concordare le condizioni per il suo ritiro. Un processo che richiederà almeno due anni di tempo, durante i quali pur facendone formalmente parte, non potrà partecipare all’elaborazione di nuove regole e leggi dell’Unione. L’esito finale è incerto, il paese arriva al voto spaccato.

In caso di uscita, sono tre i modelli di riferimento possibili per ridefinire le relazioni con l’Unione europea. Si potrebbe seguire l’esempio dell’accordo tra Ue e Norvegia: libera circolazione e beneficio di fondi comunitari per la ricerca, senza poter però intervenire sulla approvazione delle direttive e partecipare al processo legislativo. Poi c’è l’opzione Svizzera, più penalizzante: rapporti bilaterali con l’Ue e partecipazione solo all’area di libera circolazione. Infine, c’è il modello Canada: nulla più che un semplice accordo commerciale. In questo caso, gli inglesi, scrive Roberto Petrini su Repubblica, dovrebbero rinegoziare in posizione di svantaggio gli oltre 100 trattati su dazi e omologazione dei prodotti ai quali avevano aderito in virtù della rappresentanza collettiva della Ue. Nel frattempo resterebbero in vigore dazi, tariffe e regole del Wto di Ginevra.

  • Quando si comincia a parlare di Brexit

Vigilia della campagna elettorale del 2015. All’epoca, in un discorso all’agenzia Bloomberg, l’allora candidato premier del partito conservatore, David Cameron, promise che in caso di sua rielezione avrebbe indetto un referendum per la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. In questo modo, Cameron aveva accolto le richieste dell’area più euroscettica dei conservatori e, soprattutto, del leader del partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), Nigel Farage.

Un tema, quello dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Europa, ciclicamente al centro dell’agenda politica britannica e dei conservatori, in particolare (ai tempi di Margareth Thatcher, ad esempio) e, come sostenuto da Cameron nel suo discorso del gennaio 2013, nuovamente attuale per i cambiamenti vissuti dall’Europa dai tempi dell’ultima consultazione del 1975: «esaurita la sua missione iniziale (“non deve più assicurare la pace, ma prosperità”), l’Europa si trova ad affrontare le sfide per la ricchezza e il lavoro portate dalle economie emergenti intervenendo, spesso, senza consultare i Paesi membri e i cittadini dei diversi Stati europei».

Per far fronte a uno scollamento sempre più profondo tra cittadini e istituzioni europee e al conseguente calo di fiducia, Cameron proponeva di rinegoziare con l’Unione europea alcuni aspetti di politica estera ed economica riguardanti l’immigrazione, la moneta, la sovranità, il welfare. Il referendum sarebbe stato l’ultimo passo di questo percorso di cambiamento dei rapporti tra Ue e Regno Unito, un modo per coinvolgere i cittadini ed “evitare il distacco definitivo con l’Unione europea”.

Nel caso in cui l’Europa non avesse recepito le sue richieste, il premier britannico si era detto pronto a fare campagna a favore dell’uscita. Dopo la sua elezione nel 2015, l’Ue ha accolto parte delle sue proposte e così Cameron si è schierato a favore della permanenza in Europa.

  • Restare o lasciare? Le ragioni dei due schieramenti

Due sono le campagne ufficiali che si fronteggiano. Da un lato, a favore dell’uscita, c’è “Vote Leave”, dall’altro, “Britain Stronger in Europe”. Ognuna, riporta Il Post, può spendere fino a un massimo di 7 milioni di sterline. Accanto a loro, c’è l’azione di comitati spontanei, altri comitati non registrati e dei partiti politici, ciascuno dei quali con determinati limiti di spesa.

David Cameron, primo ministro britannico, contro la Brexit. via newstatesman

Insieme a Cameron, a sostegno della permanenza del Regno Unito nell’Ue, si sono schierati diversi rappresentanti del suo governo, come il ministro delle Finanze George Osborne, degli Affari Esteri Philip Hammond e dell’Interno Theresa May. Il Partito Conservatore ha ufficialmente lasciato libertà di voto ai suoi elettori, mentre i sindacati, molti industriali, il Partito Laburista, il Partito Nazionale Scozzese, il Partito del Galles e i Liberal Democratici si sono esposti contro la Brexit. A loro si sono aggiunti alcuni leader internazionali come Barack Obama, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande.

I temi centrali intorno ai quali i due schieramenti stanno dibattendo sono essenzialmente tre: l’immigrazione, la sovranità nazionale e l’accesso al mercato unico. Intorno ad essi, le due campagne hanno ipotizzato scenari diversi a seconda dell’esito del referendum: restare o lasciare l’Europa?

Chi è contro la Brexit sostiene che i benefici della permanenza nell’Ue siano superiori agli svantaggi derivanti da un’eventuale uscita, rispetto al commercio, alla salute dell’economia, alla sicurezza e all’immigrazione.

In particolare, restare in Europa garantisce una maggiore facilità di esportazioni e scambio merci; la possibilità di avere lavoratori qualificati che, tramite il pagamento delle tasse, contribuiscono al welfare state nazionale; beneficiare della partnership commerciale dell’Europa e degli accordi sul commercio con altri 50 Paesi nel mondo; coordinare le politiche di sicurezza internazionale integrandole con quelle degli altri Paesi membri; non essere isolata e marginalizzata dai mercati internazionali.

Boris Johnson, ex sindaco di Londra, favorevole alla Brexit. Via Buzzfeed

I principali sostenitori della Brexit sono lo Ukip, che fece già campagna su questo tema durante le elezioni del 2015. A favore dell’uscita dall’Ue si sono anche schierati alcuni ministri del governo guidato da Cameron, come il ministro della Giustizia, Michael Gove, e il ministro della cultura, John Whittingdale, e l’ex sindaco di Londra Boris Johnson.

Chi è a favore del ritiro del Regno Unito dall’Europa, sottolinea il carattere autocratico e poco democratico delle istituzioni europee. Essi ritengono che l’Ue imponga troppe norme in materia di mercato e che i costi di adesione siano troppo elevati rispetto ai vantaggi derivanti dall’appartenenza. Inoltre, un’eventuale uscita consentirebbe un migliore controllo dei confini e dell’immigrazione, riducendo il numero di persone che giungono in Gran Bretagna per cercare un lavoro. Membro chiave della Nato e del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il Regno Unito continuerà ad avere un ruolo internazionale importante anche in caso di uscita dall’Ue: ogni ipotesi di marginalizzazione sarebbe, pertanto, priva di fondamento.

  • Il divario generazionale nel voto

Giovani e adulti arrivano al voto su posizioni diametralmente opposte: se le persone oltre i 55 anni sono per lasciare l’Unione europea, gli elettori tra i 18 anni e i 35 anni propendono in maggioranza per restare.
Secondo le intenzioni di voto, infatti, il 60% dei giovani tra i 18 e i 25 anni voterebbe per la permanenza del Regno Unito nell’Ue.

via The Economist

Per il Sì-Brexit sarebbe, invece, il 58% degli over 60.

via The Economist

Tuttavia, scrive il Guardian, molti giovani non sono interessati ad andare a votare: circa il 30% degli under 25 non si è registrato (il 7 giugno scadono i termini) e, anche se il 65% lo ha fatto, c’è il rischio che molti di loro non siano presenti il giorno delle elezioni perché in vacanza oppure a causa della concomitanza del Glastonbury Festival, al quale partecipano ogni anno almeno 200mila ragazzi.

  • Gli effetti sulla ricerca scientifica e sul sistema accademico

Il mondo accademico del Regno Unito si è schierato in modo quasi unanime a favore della permanenza del paese nell’Unione Europea. In una lettera al Daily Telegraph dell’11 giugno scorso, diversi studiosi, ricercatori e ben 13 premi Nobel britannici (tra cui il biologo John Gurdon, il fisico Peter Higgs, il biochimico Paul Nurse) hanno segnalato come la Brexit potrebbe fortemente danneggiare il mondo della ricerca.

La scienza fiorisce in ambienti che mettono in comune l’intelligenza, riducono al minimo le barriere e sono aperti alla collaborazione e al libero scambio di idee e ricerche

Chi è per l’uscita — scrive Emi Barbiroglio in una sua recente ricerca sugli effetti di Brexit sul sistema accademico e della ricerca — è convinto che non ci sarà alcun cambiamento significativo sulla ricerca perché il Regno Unito già ospita le migliori università. Chi, invece, è per il No-Brexit sostiene che un’uscita dall’Europa implicherebbe limiti alle possibilità di collaborazione internazionale, un cambiamento su come le università e i centri di ricerca ottengono i fondi di ricerca e una probabile riduzione dei finanziamenti. La Gran Bretagna avrebbe lo stesso status dei paesi terzi (come la Norvegia, la Turchia, Israele), costretti a stringere accordi particolari per poter partecipare ai programmi di ricerca europei. Parte delle collaborazioni internazionali potrebbe andare perduta.

Nell’anno accademico 2014/2015, nelle università britanniche sono state impiegate 31.635 persone provenienti da altri paesi europei. I ricercatori stranieri provenivano prevalentemente da Germania, Italia, Stati Uniti, Cina, Irlanda, Grecia, Francia, Spagna e India, facendo della Gran Bretagna il paese con il rapporto più altro tra studiosi provenienti dall’estero e popolazione nazionale.

Per quanto riguarda i fondi europei destinati alla ricerca, scrive ancora Barbiroglio, attualmente, il Regno Unito partecipa per il 12% dell’intero ammontare e riceve il 15% dei finanziamenti, una percentuale seconda solo alla Germania. Secondo una stima recentemente pubblicata dal Governo britannico, la Brexit significherebbe una grave perdita di fondi. Nell’ultimo programma quadro, l’Unione europea ha destinato quasi 7 miliardi di euro (su un totale di 56 miliardi) a progetti presentati dai centri di ricerca britannici. Di questi il 71% è andato alle università.

  • I rischi per la Gran Bretagna secondo le istituzioni internazionali e britanniche

Lasciare l’Unione europea potrebbe causare uno shock enorme all’economia del Regno Unito e portare alla perdita di 950mila posti di lavoro e lasciare in difficoltà una famiglia con un reddito medio di 3700 sterline.

CBI, che si potrebbe definire la confindustria britannica

Un voto a favore di una Brexit potrebbe avere effetti dannosi sull’economia britannica perché potrebbe provocare un calo della crescita e degli investimenti e un incremento della disoccupazione e dell’inflazione.

BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo

Un voto per lasciare l’UE potrebbe avere effetti concreti sul tasso di scambio, sulla domanda e sulle risorse potenziali dell’economia, che potrebbero modificare lo scenario delle politiche monetarie.

Banca d’Inghilterra

Abbiamo guardato tutti i modelli possibili, calcoli, opinioni, previsioni e scenari: non abbiamo trovato un solo elemento a favore di Brexit.

Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale.

Nel caso in cui il referendum sulla Brexit dovesse chiudersi con una vittoria di chi vuole che la Gran Bretagna lasci l’Unione europea ci potrebbero essere ‘’significative ripercussioni”.

Janet Yellen, presidente della Fed, Banca centrale degli Stati Uniti.

  • Il contesto sociale: la forza dell’euroscetticismo in Europa

Il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Europa si inserisce in un contesto politico-sociale europeo in cui l’euroscetticismo è molto forte. La mappa che esce dalla ricerca della Fondazione David Hume mostra infatti che «su una scala da 1 a 5, tra il 2004 e il 2015, l’immagine (ndr dell’Unione europea) è calata in 19 paesi su 28».

Inoltre, risulta bassa anche la fiducia verso le istituzioni più federali dell’Unione: «solo il 51% degli interpellati si fida del Parlamento europeo e solo il 43% della Banca centrale europea».

  • Il contesto politico: l’avanzata delle forze “anti-sistema” in UE

Brexit è la prima di una serie di date importanti a livello politico tramite cui si capirà che aria tira tra gli elettori del vecchio Continente, scrive Marco Bresolin su La Stampa. «Ce ne sono state già diverse, in questa prima parte del 2016. Hanno mandato segnali chiari, con una forte critica al “sistema” — spiega il giornalista del quotidiano torinese –. E ce ne saranno altre nei prossimi mesi, fino a due grandi appuntamenti elettorali del 2017: si vota in Francia e Germania».

via La Stampa

Spiega infatti il Guardian — in un’analisi sullo stato di salute delle cosiddette forze “anti-sistema”, descrivendone le differenze ma anche i punti di forza in comune come immigrazione, integrazione, lavoro, economia, crisi dell’euro, terrorismo — che «i partiti tradizionali del continente sono in piena ritirata. In tutta Europa, i socialdemocratici di centro-sinistra e democristiani di centro-destra che hanno dominato la politica nazionale per 60 anni sono in declino».

via Il Sole 24 Ore

In ascesa, invece, secondo un sondaggio diffuso recentemente da Il Sole 24 Ore, le forze euroscettiche. In particolare, il Partito della Libertà (37%) nei Paesi Bassi e in Austria (34%), il Front National in Francia (30%) e la Lega Nord in Italia (14%). Marine Le Pen, leader del Front National, ha già annunciato che, nel caso in cui diventasse presidente della Francia, indirà un referendum simile a quello britannico.

  • E se vince la Brexit che succede?

Ma quali sarebbero le conseguenze finanziarie ed economiche in Europa in caso di vittoria della Brexit? Dati oggettivi non ci sono e i possibili scenari emersi sono del tutto incerti. L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ad esempio, spiega che l’uscita del Regno Unito dall’Ue porterebbe a “rinnovate turbolenze dei mercati finanziari” con il probabile risultato nell’area euro di “far aumentare i differenziali di rendimento tra titoli di Stato (ndr gli spread) e i costi di servizio del debito pubblico”.

Per Andrea Goldstein, managing director di Nomisma, inoltre, «con l’uscita tornerebbero alcune barriere tariffarie e non-tariffarie al commercio e alla mobilità del lavoro, riducendo quindi il vantaggio comparato conferito dal mercato unico». Ma in compenso, continua Goldstain, «investire nel Regno Unito potrebbe diventare più interessante se l’ambiente economico diventasse più liberale a seguito della rimozione di determinate legislazioni comunitarie. E la sterlina potrebbe indebolirsi, agevolando l’acquisto di attività britanniche».

Per quanto riguarda gli effetti sull’Italia, sempre Goldstein parte dalla considerazione che tra il nostro paese e il Regno Unito ci sono molte “interdipendenze”: 86mila italiani lavorano su suolo inglese e 67 mila in senso contrario, inoltre a fine 2014, 210mila italiani vivevano a Londra (ultimo dato disponibile da parte dell’Aire — anagrafe degli italiani residenti all’estero –. Bisogna considerare comunque che molti italiani che vivono all’estero non si iscrivono al registro). Altro “flusso in crescita” è quello delle matricole italiane nelle università britanniche, passate da 3.570 nel 2010/11 a 5.265 nel 2014/15. In sintesi, conclude il managing director di Nomisma, «i flussi economici tra Italia e Regno Unito sono sostanziosi e se la Brexit conducesse a un relativo impoverimento e all’abbandono delle quattro libertà fondamentali dell’Ue, le conseguenze per l’Italia e gli italiani potrebbero non essere irrisorie».

Nel dettaglio, Micaela Cappellini, riportando uno studio di Euler Hermes, la società di assicurazioni del credito all’estero del gruppo Allianz, scrive su Il Sole 24 Ore che i settori italiani più colpiti sarebbero i macchinari e la chimica: «Tra il 2017 e il 2019 — spiega Ana Boata, economista europea di Euler Hermes — le vendite di macchinari italiani alla Gran Bretagna potrebbero arrivare a perdere 300 milioni di euro, così come i prodotti chimici. I comparti dell’auto, del tessile e dell’agricoltura, invece, potrebbero perdere fino a 200 milioni ciascuno».

via il Sole 24 ore

Per l’Italia, inoltre, ci sarebbero anche ripercussioni negli investimenti esteri: «Il mancato afflusso di capitali inglesi potrebbe raggiungere i 600 milioni di euro — aggiunge Boata –: oggi il Regno Unito in Italia investe soprattutto nel retail, nel comparto agroalimentare e nei servizi finanziari».

In un confronto europeo, tuttavia le perdite per l’export italiano — sempre secondo lo studio Euler Hermes — sarebbero nel biennio 2017–2019, nella peggiore delle ipotesi, circa 1,9 miliardi di euro ma comunque inferiori rispetto a quelle di altri paesi come Germania (che rischierebbe perdite per 6,3 miliardi di euro), Olanda (-3,2 miliardi di euro) e Francia (-2,4 miliardi di euro). Un calo dell’importanzioni da parte del Regno Unito che sarebbe dovuto alla svalutazione della sterlina tra il 15% e il 20% (si legge in una ricerca di Goldman Sachs) e la diminuzione del Pil inglese (secondo l’Ocse, infatti, la Brexit produrrà un forte calo. Nel migliore dei casi si prevede un impatto negativo pari al 2,7% entro il 2030).

via il Sole 24 ore

Conseguenze concrete ci sarebbero anche per gli italiani che studiano e vivono in Inghilterra: uno studente universitario italiano rischierebbe di pagare più tasse universitarie, di perdere il diritto ai prestiti studenteschi e all’assistenza sanitaria, mentre per chi ci vive il diritto a possedere un futuro appartamento verrebbe pregiudicato. Salterebbe anche il riconoscimento automatico del titolo professionale.

Per gli italiani già residenti, inoltre, sostiene Pasquale Terracino, ambasciatore italiano in Gran Bretagna, «non ci sarebbero conseguenze perché un’eventuale uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe seguita da un negoziato di due anni per dirimere tutte le questioni create da una simile eventualità. E uno dei punti di tale negoziato sarebbe la salvaguardia dei diritti acquisiti. […] Riceverebbero una sorta di permesso di residenza indefinito, forse con qualche appesantimento burocratico rispetto alla situazione attuale, come dover registrare il proprio status ogni qualche anno». Infine chi stesse pianificando di lavorare nel Regno Unito a breve, dovrebbe fare domanda per un visto di lavoro.

La Banca Centrale Europea ha comunque comunicato che è pronta «ad ogni possibile evenienza». Il presidente della Bce Mario Draghi, scrive Marco Zatterin su La Stampa, riferendo alla Commissione Econ dell’Europarlamento, ha descritto uno scenario congiunturale in cui «le incertezze restano alte e i rischi di revisione al ribasso significativi per colpa della persistente fragilità dell’economia globale e degli sviluppi geopolitici». Su questo si incastona la minaccia della Brexit. Se fosse, assicura il banchiere centrale, «cercheremmo di stabilizzare i mercati fornendo liquidità».

Inoltre, un un’intervista a Repubblica, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, pur dicendosi preoccupato, ha dichiarato di non vedere rischi specifici per l’Italia: «se ci fosse un’uscita ci sarebbe un lungo processo di negoziazione, che avrebbe sicuramente conseguenze finanziarie, anche se è difficile prevedere quanto grandi. Teniamo d’occhio questo rischio giorno per giorno e tutte le banche centrali, non solo la Banca centrale europea, sono pronte a intervenire».

Più che sul piano finanziario, ha detto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a Il Sole 24 Ore, un’eventuale Brexit potrebbe avere serie ripercussioni dal punto di vista politico. «Quello che io temo di più è l’emulazione politica che potrebbe manifestarsi non tanto in alcuni paesi, quanto in alcuni partiti all’interno di tutti i paesi. Di questo sono preoccupato: con questo referendum si realizza un modello di uscita dall’Unione all’interno delle regole che altri Paesi potrebbero seguire».

  • Cosa dicono i sondaggi.

Da quando David Cameron ha annunciato la data del referendum le intenzioni di voto dei britannici hanno visto un’altalena tra i favorevoli e i contrari all’uscita della Gran Bretagna. Ai primi di giugno la percentuale dei Sì-Brexit è risultata in vantaggio.

via La Stampa

Anche gli ultimi sondaggi disponibili hanno confermato l’altalena tra i favorevoli e i contrari all’uscita.

via politicalbetting.com

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