“Cosa ho imparato dalla vita di Shireen Abu Akleh, e dalla sua morte”

Valigia Blu
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3 min readMay 16, 2022
Foto: Mohammed Abed/AFP

Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio scorso a Jenin, è stata una fonte di ispirazione per generazioni di giornalisti che si sono formate sui suoi reportage. Abbiamo tradotto il ricordo di Maram Humaid, inviata di Al Jazeera a Gaza.

La notizia della morte di Shireen Abu Akleh è stata uno shock senza precedenti. Mi ha gelato il sangue nelle vene e mi ha lasciata con le mani tremanti, mentre provavo a scorrere il cellulare in cerca di maggiori informazioni.

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Forse erano imprecise? Mi sono tornati in mente i ricordi di quando crescendo guardavo Shireen, una presenza fissa sullo schermo negli ultimi 20 anni, una giovane giornalista che portava un microfono con il logo di Al Jazeera, riferendo notizie da Gerusalemme, Jenin, Ramallah, mostrando le ripetute incursioni di Israele nella Cisgiordania occupata.

Era tutto vero. Shireen era stata crudelmente uccisa mentre faceva quello che aveva sempre fatto: la giornalista.

La prematura scomparsa di Shireen ha rivelato come sia diventata parte integrante della nostra memoria collettiva, di popolo palestinese, della nostra identità nazionale, del nostro rapporto con la terra e con l’occupante. Per chi, come me, si trova nella Striscia di Gaza, dove Israele ci divide dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, nonostante siano a sole due ore di distanza, lei ci ha connesso.

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Come giornalista palestinese, Shireen è stata un modello eccezionale.

“Shireen Abu Akleh, Al Jazeera, dalla Gerusalemme occupata” — la sua memorabile frase di chiusura, con la sua voce calma e melodiosa, ha alimentato la mia passione per il giornalismo e quella della mia generazione di giovani donne, che tenevano la spazzola davanti allo specchio e la imitavano.

Nonostante la nostra familiarità con le azioni di Israele come forza di occupazione contro il popolo palestinese nel corso degli anni, l’uccisione di Shireen risulta ancora incredibilmente tragica e dolorosa.

È stato l’ennesimo schiaffo in faccia, a sottolineare che per l’occupazione israeliana non c’è molta differenza tra un giornalista, un paramedico o un qualsiasi civile. Siamo tutti uguali, tutti potenziali bersagli.

L’esperienza di Shireen, la sua presenza costante, ci ha fatto pensare che fosse un’eccezione, che i suoi anni di professionalità, la sua fama, anche tra gli israeliani, avrebbero intercesso per lei, impedendole di essere presa di mira.

Avevamo torto.

Il proiettile che ha ucciso Shireen ha metaforicamente ucciso ogni donna giornalista palestinese. Ci ha riportato a zero, alla paura e all’ansia per questa professione problematica, alla realtà che ci vede svolgerla sotto occupazione, alla possibilità di essere prese di mira in qualsiasi momento.

Abbiamo capito che nessuno fa eccezione, nemmeno Shireen.

Anche da morta, Shireen dà lezioni al giornalismo palestinese.

Era un’eroina, fedele alla verità e al nobile messaggio del giornalismo. La sua convinzione verso questo lavoro e l’importanza che ricopre si è riversata con chiarezza nell’amore travolgente di masse di persone che sono scese in strada per rendere omaggio alla sua anima e hanno pianto per la sua memoria.

La morte di Shireen ci ha insegnato che la gente non dimentica chi dà valore alla verità e apprezza un giornalista fedele che sa trasmettere la voce e la sofferenza delle masse. Un giornalista deve essere umano prima di tutto, vicino alle persone di cui porta il messaggio.

Ed è così che Shireen è stata per tutta la sua carriera professionale, portandoci nei suoi reportage da una città all’altra, attraverso i checkpoint israeliani, e all’interno delle case palestinesi piene di storie di coloro che sono morti per la causa, dei prigionieri, dei feriti e delle loro famiglie.

La morte di Shireen ci ha insegnato che un giornalista può trasmettere una causa giusta e che la sua dedizione nel diffondere il messaggio del suo popolo non è un pregiudizio o un distacco dalla professionalità. Il prezzo che si paga per trasmettere questo messaggio, però, può essere la propria vita.

Shireen Abu Akleh, presenza costante sul nostro schermo, poteva contare su una famiglia estesa e amorevole in ogni casa palestinese.

Il suo messaggio non potrà mai morire e continuerà a diffondersi — noi giornalisti palestinesi ce ne assicureremo.

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