20 giorni a Mariupol: il team che ha documentato l’agonia di una città

Valigia Blu
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10 min readMar 22, 2022
Il fotografo di Associated Press Evgeniy Maloletka indica la colonna di fumo dopo il bombardamento della clinica ostetrica di Mariupol, in Ucraina — 9 marzo 2022 (AP Photo/Mstyslav Chernov)

Mstyslav Chernov è un giornalista dell’Associated Press. Questo è un resoconto dall’assedio di Mariupol, come documentato assieme al fotografo Evgeniy Maloletka e raccontato alla corrispondente Lori Hinnant. Abbiamo tradotto l’articolo originale, pubblicato sul sito di Associated Press perché lo riteniamo una testimonianza fondamentale per capire cosa sta succedendo in Ucraina e quanto sia diventato strategico per le forze russe fin da subito ostacolare il lavoro dei giornalisti, favorendo così propaganda e disinformazione.

I russi ci davano la caccia. Avevano una lista di nomi, compreso il nostro, ed erano sempre più vicini.

Eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti nella città ucraina di Mariupol, da più di due settimane stavamo coprendo l’assedio delle truppe russe. Ci trovavamo dentro l’ospedale quando alcuni uomini armati hanno iniziato a perlustrare i corridoi. I chirurghi ci hanno dato dei camici bianchi da indossare come travestimento.

Di colpo, all’alba, una dozzina di soldati ha fatto irruzione: “Dove cazzo sono i giornalisti?”.

Ho guardato le loro fasce, blu per l’Ucraina, calcolando mentalmente le probabilità che fossero russi travestiti. Poi ho fatto un passo avanti per identificarmi. “Siamo qui per tirarti fuori”, hanno detto.

Attorno a noi, i muri dell’ambulatorio tremavano per il fuoco dell’artiglieria e delle mitragliatrici all’esterno, perciò rimanere dentro sembrava più sicuro. Ma i soldati ucraini avevano l’ordine di portarci con loro.

Siamo corsi in strada, abbandonando i medici che ci avevano protetto, le donne incinte che erano state bombardate, le persone che dormivano nei corridoi perché non avevano dove andare. Mi sono sentito malissimo a lasciarli tutti indietro.

Nove, forse dieci minuti, un’eternità attraverso strade e palazzi bombardati. Non appena le granate esplodevano nei paraggi, ci buttavamo a terra. Il tempo era scandito da una granata all’altra, i nostri corpi tesi, il respiro trattenuto. Onda d’urto dopo onda d’urto il petto sobbalzava, le mie mani diventavano fredde.

Abbiamo raggiunto un ingresso e delle auto blindate ci hanno portato in un seminterrato buio. Solo allora abbiamo saputo da un poliziotto il motivo per cui gli ucraini avevano messo a rischio la vita di quei soldati per tirarci fuori dall’ospedale.

“Se vi catturano, vi riprenderanno mentre dite che tutto quello che avete filmato è una bugia”, ha detto. “Tutti i vostri sforzi e tutto quello che avete documentato a Mariupol risulteranno vani”.

L’ufficiale che una volta ci aveva implorato di mostrare al mondo la sua città morente ora ci supplicava di andare via. Così ci ha spinto verso le migliaia di auto malconce in procinto di lasciare Mariupol.

Era il 15 marzo. Non sapevamo se ne saremmo usciti vivi.

Da adolescente cresciuto in Ucraina nella città di Charkiv, a soli 30 chilometri dal confine russo, ho imparato a maneggiare una pistola come parte del programma scolastico. Allora mi sembrò inutile. L’Ucraina, pensavo, era circondata da amici.

Da allora ho coperto le guerre in Iraq, Afghanistan e nel territorio conteso del Nagorno Karabakh, cercando di mostrare al mondo la devastazione vista di persona. Ma quando lo scorso inverno gli americani e poi gli europei hanno evacuato il personale delle loro ambasciate da Kyiv, e quando ho esaminato le mappe delle truppe russe raccolte proprio di fronte alla mia città natale, ho avuto un unico pensiero: “Il mio povero paese”.

Nei primi giorni di guerra, i russi hanno bombardato l’enorme Piazza della Libertà a Charkiv, dove giravo con gli amici quando ero giovane.

Sapevo che l’esercito russo avrebbe considerato la città portuale orientale di Mariupol come un vantaggio strategico, a causa della posizione sul Mar d’Azov. Così la sera del 23 febbraio insieme al mio collega di lunga data Evgeniy Maloletka, un fotografo ucraino di Associated Press, siamo saliti sul suo furgone Volkswagen bianco e ci siamo diretti a Mariupol.

Lungo la strada, abbiamo iniziato a preoccuparci delle gomme di scorta, e abbiamo trovato online un uomo nei paraggi disposto a venderle nel cuore della notte. Abbiamo spiegato a lui e a una cassiera del negozio, un alimentari aperto tutta la notte, che ci stavamo preparando per la guerra. Ci hanno guardato come se fossimo pazzi.

Abbiamo raggiunto Mariupol alle 3:30 del mattino. La guerra è scoppiata un’ora dopo.

Circa un quarto dei 430.000 abitanti di Mariupol se ne è andato nei primi giorni, mentre ancora poteva. In pochi credevano che potesse arrivare una guerra, e quando la maggior parte si è resa conto dell’errore, ormai era troppo tardi.

Una bomba alla volta, i russi hanno tagliato l’elettricità, l’acqua, i rifornimenti di cibo e, ancora peggio, le torri di cellulari, radio e televisione. I pochi giornalisti in città se ne sono andati prima che si instaurasse un blocco totale delle comunicazioni.

L’assenza di informazioni in un blocco realizza due obiettivi.

Il primo è il caos. La gente non sa cosa accade, va nel panico. All’inizio non capivo perché Mariupol fosse caduta così velocemente. Ora so che è dipeso dalla mancanza di comunicazioni.

Il secondo obiettivo è l’impunità. Se non escono informazioni da una città, se non ci sono immagini di edifici distrutti o bambini morenti, le forze russe possono fare ciò che vogliono. Se non fosse per noi, non ci sarebbe alcuna documentazione.

Ecco perché abbiamo corso simili rischi per poter inviare al mondo ciò che abbiamo visto, ed ecco perché questo ha fatto infuriare i russi al punto da metterli sulle nostre tracce.

Non ho mai, mai sentito così intensamente l’importanza di rompere il silenzio.

Le morti sono arrivate rapidamente. Il 27 febbraio, abbiamo assistito a un medico che cercava di salvare una bambina colpita da un proiettile di artiglieria. Non ce l’ha fatta.

Poi è morto un secondo bambino, e dopo di lui un terzo. Le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti perché la gente non poteva chiamarli senza segnale, né poteva attraversare le strade bombardate.

I medici ci hanno supplicato di filmare le famiglie che portavano morti e feriti, mettendo persino a disposizione delle nostre telecamere la scarsa potenza offerta dal loro generatore. Nessuno sa cosa sta succedendo in città, ci dicevano.

I bombardamenti hanno colpito l’ospedale e le case nei dintorni. Hanno frantumato i vetri del nostro furgone, facendo un buco nella fiancata e forando una gomma. A volte uscivamo di corsa per filmare una casa in fiamme, poi fuggivamo indietro in mezzo alle esplosioni.

C’era ancora un posto in città che garantiva una connessione stabile, fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue. Una volta al giorno andavamo lì e ci accovacciavamo sotto le scale per caricare foto e video da spedire in giro per il mondo. Le scale non offrivano una grande protezione, ma ci sentivamo più al sicuro che all’aperto.

Il 3 marzo il segnale è svanito. Abbiamo provato a inviare il video girato dalle finestre del settimo piano dell’ospedale. Da lì abbiamo visto andare in fumo le ultime tracce di Mariupol, una solida città della classe media.

Il negozio di Port City era stato saccheggiato, così ci siamo diretti in quella direzione, in mezzo ai colpi di artiglieria e alle raffiche di mitragliatrice. Decine di persone correvano tutto attorno, spingendo carrelli della spesa carichi di elettronica, cibo, vestiti.

Una granata è esplosa sul tetto del negozio, gettandomi a terra all’esterno. Ero inquieto, aspettavo il secondo colpo e intanto mi maledivo perché la mia macchina fotografica era spenta e non poteva registrare nulla.

E poi eccola, una granata che sfreccia contro il palazzo vicino. Mi sono rannicchiato dietro un angolo in cerca di riparo.

Un adolescente è passato spingendo una sedia da ufficio carica di apparecchi elettronici, con le scatole che cadevano dai lati. “I miei amici erano lì, la granata ha colpito a 10 metri da noi”, mi ha detto. “Non so cosa ne è stato di loro”.

Siamo tornati di corsa all’ospedale. Nel giro di 20 minuti sono arrivati i feriti, alcuni di loro raccolti con i carrelli della spesa.

Per diversi giorni, l’unico nostro collegamento con il mondo esterno è stato il telefono satellitare. E l’unico posto in cui funzionava era all’aperto, proprio accanto a un cratere aperto dalle granate. Mi sedevo, mi facevo piccolo e cercavo la connessione.

Tutti chiedevano: per favore, dicci quando finirà la guerra. Non sapevo cosa rispondere.

Ogni giorno c’era qualche voce sull’esercito ucraino che sarebbe venuto a rompere l’assedio. Ma non arrivava nessuno.

Arrivati a questo punto avevo assistito a morti all’ospedale, cadaveri per le strade, decine di corpi buttati in una fossa comune. Avevo visto così tanta morte che mentre filmavo quasi mi scivolava addosso.

Il 9 marzo, due attacchi aerei in simultanea hanno fatto saltare via i teli di plastica attaccati sui finestrini del furgone. Ho visto la palla di fuoco a un battito di cuore di distanza dal dolore lacerante all’orecchio interno, alla pelle, al viso.

Abbiamo visto il fumo levarsi da una clinica ostetrica. Quando siamo arrivati, i soccorritori stavano tirando fuori dalle rovine donne incinte ricoperte di sangue.

Le nostre batterie erano quasi scariche, non avevamo una connessione per inviare le immagini. Mancavano pochi minuti al coprifuoco. Un ufficiale di polizia ci ha sentito parlare di come far uscire la notizia dell’attacco all’ospedale.

“Questo cambierà il corso della guerra”, ha detto. Ci ha scortati fino a una fonte di energia e a una connessione internet.

Avevamo registrato una fila infinita di cadaveri e bambini morti. Non capivo perché pensasse che altri morti potessero cambiare qualcosa.

Mi sbagliavo.

Mentre eravamo al buio abbiamo inviato le immagini allineando tre cellulari, con il file video diviso in tre parti per accelerare la procedura. Ci sono volute ore, ben oltre il coprifuoco. Il bombardamento continuava, ma gli ufficiali che ci stavano scortando attraverso la città aspettavano pazientemente.

Poi il nostro collegamento con il mondo fuori da Mariupol è stato nuovamente interrotto.

Siamo tornati nel seminterrato vuoto di un hotel con un acquario pieno di pesci rossi morti. In quell’isolamento, ignoravamo che i russi stessero montando una campagna di disinformazione per screditare il nostro lavoro.

L’ambasciata russa a Londra ha pubblicato due tweet per denunciare come false le foto dell’Associated Press, affermando che la donna incinta fosse in realtà un’attrice. L’ambasciatore russo ha portato con sé copie delle foto durante una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e ha ripetuto bugie sull’attacco alla clinica ostetrica.

Nel frattempo, a Mariupol siamo stati sommersi da persone che chiedevano le ultime notizie sulla guerra. Una marea di persone è venuta da me, dicendo: “Per favore filmami, così la mia famiglia fuori città saprà che sono vivo”.

A quel punto, in città non funzionava alcun segnale radio o televisivo ucraino. L’unica radio che prendeva trasmetteva le menzogne della propaganda russa — gli ucraini tengono Mariupol in ostaggio, sparano sugli edifici, sviluppano armi chimiche. La propaganda era così incessante che alcune persone con cui abbiamo parlato ci credevano, nonostante le controprove fossero di fronte ai loro stessi occhi.

Il messaggio era costantemente ripetuto, in perfetto stile sovietico: “Mariupol è circondata. Consegnate le armi”.

L’11 marzo, in una breve telefonata senza dettagli, il nostro direttore ha chiesto se potevamo trovare le donne sopravvissute all’attacco aereo sulla clinica ostetrica per dimostrare la loro esistenza. Ho capito che le immagini erano state così potenti da provocare una risposta da parte del governo russo.

Le abbiamo trovate in un ospedale in prima linea, alcune con i neonati e altre in travaglio. Abbiamo anche saputo che una delle donne era morta dopo aver perso il bambino.

Siamo saliti fino al settimo piano per inviare il video tramite una debole connessione internet. Da lassù, guardavo i carri armati avvicinarsi uno dopo l’altro all’ospedale, ogni carro contrassegnato dalla lettera “Z”, diventata l’emblema di guerra russo.

Eravamo circondati. Decine di medici, centinaia di pazienti e noi.

I soldati ucraini che avevano protetto l’ospedale erano scomparsi. E il percorso verso il nostro furgone, dove avevamo, acqua e attrezzature, era sotto il tiro di un cecchino russo che aveva già colpito un medico avventuratosi all’esterno.

Le ore passavano nell’oscurità, mentre ascoltavamo le esplosioni all’esterno. È stato allora che i soldati sono venuti a prenderci, gridando in ucraino.

Non sembrava un salvataggio. Sembrava invece che ci stessero trasferendo da un pericolo all’altro. Giunti a quel punto, nessun posto a Mariupol era al sicuro e non c’era da provare sollievo. Si poteva morire in qualsiasi momento.

Mi sentivo immensamente grato ai soldati, ma anche stordito. Mi vergognavo perché me ne stavo andando.

Ci siamo stretti dentro una Hyundai con una famiglia di tre persone e ci siamo infilati in un ingorgo di 5 chilometri fuori dalla città. Circa 30.000 persone sono uscite da Mariupol quel giorno — così tante che i soldati russi non hanno avuto il tempo per guardare da vicino i finestrini delle auto coperti da fogli di plastica svolazzanti.

La gente era nervosa. Litigavano, si urlavano addosso. Ogni minuto c’era un aereo o un attacco aereo. La terra tremava.

Abbiamo attraversato 15 posti di blocco russi. Ogni volta che ne raggiungevamo uno, la madre seduta davanti alla nostra auto pregava furiosamente, così forte che riuscivamo a sentirla.

Mentre li attraversavamo — il terzo, il decimo, il quindicesimo, tutti presidiati da soldati con armi pesanti — svanivano le mie speranze che Mariupol riuscisse a sopravvivere. Mi rendevo conto che, anche solo per raggiungere la città, l’esercito ucraino avrebbe dovuto conquistare troppo terreno. E non sarebbe successo.

Al tramonto, siamo arrivati a un ponte che gli ucraini avevano distrutto per fermare l’avanzata russa. Un convoglio della Croce Rossa di circa 20 auto era bloccato sul posto. Ci siamo diretti tutti attraverso i campi e le strade secondarie.

Le guardie al posto di blocco n. 15 parlavano russo con un ruvido accento caucasico. Hanno ordinato all’intero convoglio di spegnere i fari per nascondere le armi e l’equipaggiamento parcheggiati lungo il bordo della strada. Riuscivo a malapena a distinguere la “Z” bianca dipinta sui veicoli.

Arrivati al sedicesimo posto di blocco abbiamo udito delle voci. Voci ucraine. Provai un sollievo travolgente. La madre nell’auto davanti alla nostra scoppiò in lacrime. Eravamo fuori.

Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Ora non ce ne sono più.

Siamo ancora inondati da messaggi di persone che vogliono conoscere il destino dei loro cari, che hanno visto nelle foto o nei filmati. Ci scrivono disperatamente e intimamente, come se non fossimo estranei e potessimo aiutarli.

Quando, alla fine della settimana scorsa, un attacco aereo russo ha colpito un teatro con dentro centinaia di persone rifugiate, ho individuare subito dove saremmo dovuti andare per ricevere informazioni sui sopravvissuti, per sentire in prima persona cosa significava essere intrappolati per ore interminabili sotto cumuli di macerie. Conosco quell’edificio e le case distrutte intorno. Conosco le persone che sono intrappolate lì sotto.

E poi, domenica, le autorità ucraine hanno detto che la Russia ha bombardato una scuola d’arte con circa 400 persone a Mariupol.

Ma non possiamo più andare sul posto.

(Questo resoconto è stato raccontato da Chernov all’inviata dell’Associated Press Lori Hinnant, che ha scritto da Parigi. Vasylisa Stepanenko ha contribuito al resoconto)

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