Dove tutto è cominciato.

Fralla
Viaggiatori d’Occidente 2023
5 min readApr 13, 2023

“Se ti fossi mossa per le vie di Santiago avresti dovuto farlo con una certa cautela. Ci sono quartieri che è preferibile evitare, la città è pericolosa nelle prime ore del giorno”.

La parlata tranquilla di Carlos, lievemente cantilenante, contrasta con il contenuto greve del discorso.

“Per girare in centro è consigliabile aspettare le dieci del mattino, quando c’è più polizia e aprono i negozi”.

Carlos a Santiago ci ha vissuto per più di vent’anni e la conosce bene.

Anche se, per l’esperienza che ho di lui, fatico ad immaginarlo confinato in un perimetro urbano senza scalpitare: l’uomo che fu adolescente selvatico fra i boschi e che ora passa interi quarti d’ora ad osservare le foglie mosse dal vento.

Lo guardo e mi chiedo chi furono i suoi antenati: la carnagione olivastra, il naso aquilino, una forza fisica impressionante.

Su suo consiglio viaggerò di notte con un bus da Valdivia per raggiungere l’aeroporto di Santiago e prendere il volo che mi riporterà in Europa.

L’amico cileno mi ha suggerito questa come la soluzione più pratica e sicura per il mio rientro.

Mentre mi parla, realizzo che sono di fronte all’ennesima descrizione di una Santiago afflitta da problemi di ordine pubblico.

Nelle passate settimane avevo conosciuto diversi cileni originari della capitale in viaggio nel sud del paese e tutti, indistintamente, avevano fatto cenno alla situazione precaria della sicurezza e al problema dei furti a danno dei turisti. Chissà se ciò era dovuto al fatto che sono una donna che viaggia sola.

Un avvertimento, in particolare, appariva sistematicamente nelle parole dei miei interlocutori: “Se decidi di andare a Santiago, quando sei in strada non tenere mai in mano il cellulare. Se proprio hai necessità di usarlo entra in un negozio e solo lì tiralo fuori”.

Di nuovo sento la voce di Carlos che mi fa raccomandazioni, questa volta scandendo bene le parole.

“Ascoltami! Quando scendi dal pullman dirigiti subito verso la corsia da dove partono i collegamenti diretti all’aeroporto. E’ dall’altro lato della stazione rispetto a quello in cui tu arrivi. Se hai dubbi fatti dare indicazioni dall’autista. Oppure chiedi a un hombre con il gilet fluorescente”.

Lo ripete più volte, come fossi una bambina.

Faccio fatica a comprendere il fondamento di tante preoccupazioni e mentre lui si prodiga in consigli io mi scopro distratta dalle persone che si muovono attorno e dalle luci abbaglianti dei locali del terminal di Valdivia.

Sono i miei ultimi momenti in Cile ed ho come l’impressione di trovarmi all’interno di un film girato in slow motion.

I suoni si fanno ovattati. Le voci prima nitide degli occupanti la sala d’aspetto si trasformano in un brusio indistinto.

La stessa figura di Carlos inizia a perdere i contorni della realtà: abbiamo condiviso alcune tappe di questo viaggio ed ora è prossimo a scomparire dal mio quotidiano.

Che situazione bizzarra.

Arriva l’autobus, uno di quei veicoli a due piani con sedili reclinabili e ampio spazio per le gambe, atti a rendere un viaggio di dieci ore il più confortevole possibile.

Carlos si incarica di imbarcare il mio zaino e con l’occasione scambia due parole con lo stewart. Lo vedo gesticolare nella mia direzione.

Quando torna da me mi spiega:

“Ho detto al tipo che sei italiana, gli ho chiesto di aiutarti a prendere il cambio per l’aeroporto quando sarete alla stazione di Santiago”.

Un ultimo gesto di cura nei miei confronti prima di separarci.

Lo abbraccio forte, ci guardiamo negli occhi: gli addii sono tutti così?

Il pullman inizia a muoversi un poco a scatti fino a guadagnare in pochi minuti un’arteria a scorrimento veloce. La sua velocità si assesta su di un ritmo costante che concilia il sonno. Le mie palpebre oppongono una resistenza di facciata prima di chiudersi.

E’ quasi l’alba quando mi sveglio. Scosto la tenda oscurante e guardo fuori: una linea orizzontale sfumata nei toni del rosso suddivide il buio della notte dal giorno che sta nascendo.

La periferia di Santiago si avvicina, il profilo della Cordigliera si fa più insistente.

Mi viene alla mente una canzone dei Rem, Day sleeper, e le immagini del video che l’accompagna si sovrappongono al panorama al di là del vetro, cancellandolo per un momento.

La città appare d’un tratto in tutta la sua estensione, avvolta da una patina di umidità.

Nella calura della mattina estiva Santiago sonnecchia placidamente: una distesa grigia ai piedi di una delle catene montuose più lunghe al mondo, con i grattacieli che si ergono a imitazione dei picchi rocciosi.

Inizio a preparare mentalmente la lista delle cose da fare di lì a breve: scomporre in piccoli pezzi l’iter del rientro assopisce un poco la malinconia per la fine di questo viaggio e mi aiuta a non piangere.

Dunque: controllare che documenti e telefono siano al sicuro nelle tasche interne, recuperare lo zaino dal bagagliaio, trovare il bus diretto all’aeroporto, fare il biglietto, arrivare al settore imbarchi, prendere un caffè.

Un caffè brodoso, bollente, che odora un poco di orzo tostato e che in Italia difficilmente berrei se non sotto tortura.

Ma, stranamente, all’estero questa bevanda ha un sapore rassicurante.

Quasi senza che me ne accorga usciamo dal raccordo autostradale per infilarci in una strada di periferia: il panorama si fa più dimesso, palazzi con serrande abbassate ed edifici graffittati si alternano appena oltre il finestrino.

Ci avviciniamo al terminal e dall’alto della mia postazione scorgo un bus con la scritta aeroporto stampata a caratteri cubitali su un fianco, che staziona esattamente nel punto indicato da Carlos.

Il piazzale delle partenze non è affollato, sono solo le otto del mattino, è ancora presto, e non devo farmi largo tra una folla per raggiungerlo.

Nonostante l’evidenza della dicitura “aeroporto”, chiedo all’uomo col gilet fluorescente lì accanto la conferma sulla destinazione del bus: mi dà riscontro positivo e aggiunge che partirà da lì a pochi minuti.

Gentilmente si offre di andare alla biglietteria a comprare il ticket per me e per un’altra coppia appena arrivata, per consentirci nel frattempo di prendere posto sul mezzo.

Nel giro di qualche minuto l’autobus parte.

Sul sedile alla mia destra è seduta una ragazza con lo zaino. Sembra giovane, poco più che ventenne e appare un po’ in ansia.

Alla prima fermata si volta verso di me e mi chiede se siamo arrivati. La guardo stupita: siamo in movimento da solo cinque minuti e ci troviamo su una strada circondata da edifici, non c’è nulla che ricordi i dintorni di un aeroporto. La tranquillizzo dicendo che il tragitto durerà una mezz’ora e le ricordo che il conducente ha promesso di darci un cenno quando sarà il momento di scendere.

Persone salgono a più riprese durante le soste intermedie: un’assistente di volo nella sua uniforme, alcuni operai, una donna pingue strizzata in un abito a fiori.

Il diradarsi delle costruzioni e la vista delle piste segnalano l’arrivo all’Arturo Merino Benitez.

Il panorama ha un’aria familiare: riconosco da un lato del piazzale il blocco delle partenze dei voli nazionali, dall’altro lato quello dei voli internazionali, in mezzo l’Holiday Inn.

Una frenata brusca.

La voce dell’autista, il cigolio delle porte, i piedi che toccano terra.

Di colpo un’emozione come uno schiaffo in pieno viso: sono di nuovo nel luogo in cui tutto è cominciato.

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