Ai confini della realtà: Nevada, Area 51

Il sudore beffardo gronda tra la stanghetta degli occhiali da sole e la pelle, la suola delle scarpe da ginnastica sembra volersi incollare all’asfalto bollente e la coordinazione rallenta sotto il sole di mezzogiorno nel deserto, impedendomi di centrare il serbatoio per ben due volte di fila. Mentre armeggio con la pompa e attendo che Clementina, piccola Nissan da città del tutto inadatta a quella traversata, si riempa di benzina, guardo torva l’insegna con la scritta un tempo rossa e ora rosa sbiadito, a causa del vento carico di sabbia. E l’annosa domanda si ripropone con insistenza: — Ma che diavolo ci siamo venuti a fare qui in mezzo al nulla?

Il silenzio improvviso della pompa mi riporta al presente, finisco di armeggiare con la stazione di servizio e parcheggio il bolide un tempo grigio metallizzato e ora color polvere accanto ad altre auto della stessa scala cromatica ma dalle dimensioni ben più consistenti, Clementina non si mimetizza affatto tra SUV e Pick Up. Mirko e Francesca, compagni di questa vacanza on the road, mi attendono all’ingresso dell’area di servizio, sotto il faccione verde dallo sguardo inquietante che ammicca dall’insegna.

- Speriamo che almeno il cibo sia buono — commenta Mirko, arrivato a Londra come lavapiatti e ora chef di professione, guardando sconsolato il tripudio di tavolini in formica e seggiole in finta pelle rossa che ci si para davanti appena varcata la soglia. Sembrano uscite direttamente dagli anni 60 o da una puntata di Happy Days e han tutta l’aria di essere del tipo che ti si appiccica alla pelle sudata e che al solo pensare di muoverti producono rumori imbarazzanti. Intorno a noi i faccioni verdi si sono moltiplicati e mentre addento l’ hamburger che ho ordinato, sono lì a migliaia a fissarci da portachiavi, poster, statuette, cartoline e ogni sorta di paccottiglia rigorosamente made in China. E la domanda torna prepotente a bussare al cervello. Quella non è la strada più veloce per tornare alla villa vista oceano che abbiamo barattato per una paio di settimane con la mia casettina nel Monferrato, eppure siamo qui, per sbaglio ma non per caso. Appena abbiamo visto la mappa e quanto questo mito geografico fosse vicino, abbiamo voluto arrivare qui, progettato e pensato di pranzare in questo luogo ameno.

Amargosa Valley non è che un’accozzaglia di case spalmate lungo la US 95, luogo di passaggio di turisti frettolosi che si spostano tra la Valle della Morte e la Città del Peccato o di curiosi, come noi. Chi ha tempo e ama il panorama sale al Jubelee Pass, ma noi quella strada sinuosa l’avevamo già percorsa e in fondo in fondo, proprio alle spalle di questa pompa di benzina persa nel nulla, c’è il luogo che ci ha calamitati fin qui. Comprata una sobria calamita con un bel KEEP OUT scritto a caratteri cubitali ( ma senza inquietanti faccioni verdi), abbandoniamo la polare temperatura interna dell’Alien Travel Center per recuperare Clementina e proseguire lungo la striscia d’asfalto che separa, da un lato il deserto di Armagosa e dall’altro lato, nascosta tra le montagne, uno dei luoghi più misteriosi e inaccessibili del pianeta: Il Nevada Test site che ha ospitato ben 739 test nucleari sui 928 compiuti dal dipartimento dell’energia americano e poco oltre, nel cratere che fu il lago salato di Groom Lake, la mitica Area 51.

La cosa divertente è che Mirko, Francesca e io (e con buona probabilità anche Clementina) non siamo appassionati di Ufo, e tanto meno di teorie complottiste. Quello che ci ha portati qui è qualcosa di ben diverso e più ancestrale: il fascino del proibito e dell’esplorazione. Quella cosa che sempre scatta quando si vede un cartello di divieto, un muro, una recinzione, un limite. Subito il pensiero e la fantasia vanno oltre quell’ostacolo e si chiedono cosa ci sarà dall’altra parte. Qualcuno la chiama curiosità e ci abbina una poco gloriosa fine dei gatti, che però si sa, hanno sette vite. A me piace pensare che il responsabile sia il gene DRD4–7R, quella parte di DNA che gli studiosi identificano come la fonte della continua ricerca di nuovi luoghi ed esperienze. Perché non tutti di fronte a un limite invalicabile si chiedono cosa ci sia dietro e sentono nascere in loro il gusto della scoperta, di curiosità e fantasia che iniziano ad andare a braccetto. Ci sono quelli che vedono un muro, un ostacolo, un divieto e non si fanno domande, ci girano semplicemente attorno. Ecco, noi tre, invece, non abbiamo potuto resistere alla tentazione di deviare dal nostro percorso, di comprare una tanica e riempirla di benzina, perché non si sa mai, e di inoltrarci nel deserto del Nevada per dare almeno una sbirciatina a questo posto, magari anche solo per poter essere certi che esiste davvero e che un po’ della sabbia di quel luogo misterioso rimanesse attaccata alle nostre scarpe rendendo tutto più tangibile. Il primo impatto è stato deludente, e dopo essere ripartiti in auto direzione Las Vegas ci mettiamo un po’ a riprenderci, ma non ci vogliamo rassegnare al fatto che tutto si riduca a una pacchiana area di servizio piena di souvenir scadenti. La prima a lanciare l’idea è Francesca, anche lei ligure trapiantata a Londra a studiare Filosofia. Mirko si lancia subito sulla cartina e inizia a far conti: chilometri e ore di viaggio si mescolano alle note dei Red Hot Chili Peppers che tuonano dalla radio. Io guido, come sempre nel deserto, mentre il povero Mirko è abbonato all’ora di punta a Los Angeles, e cerco di star dietro a questo consiglio di guerra improvvisato. Così, poco a poco, nasce il nostro piano B. Decidiamo di riprovarci al ritorno, allungando ancora la strada che ci riporterà da Las Vegas alla villa di San Clemente. E un paio di giorni dopo siamo di nuovo a bordo della nostra City Car a sfidare il deserto, ma stavolta andiamo a Nord, sulla US 93 fino ad Ash Springs, dove riempiamo auto e tanica. Da lì in poi non ci sono tracce di pompe di benzina sulla mappa, e a guardar bene, nemmeno di troppa civiltà. Dopo un piccolo tratto sulla NV-318, raggiungiamo finalmente la NSR-375, che dal 1996, in onore al film Indipendence Day ha anche un altro nome, ben più folcloristico. Ci accoglie infatti un cartello verde con tanto di ufo che ci avvisa che siamo sulla Extraterrestrial Highway e di li a poco ce lo conferma un alieno di metallo alto 3 metri che sovrasta una specie di hangar di lamiera dal nome assai pretenzioso: l’Alien Research Center. In pratica, un altro mix tra negozio e museo di paccottiglia varia e di dubbia provenienza. Risaliamo in auto ridendo e chiacchierando rilassati. Sembra tutto un po’ una buffonata e il clima e allegro mentre fuori dal finestrino scorrono immagini di lande brulle e deserte con qualche pianta di Yucca a punteggiarle e una mucca qua e la a ricordarci che la vita è presente. La prima ad accorgersene è Francesca. Il GPS del navigatore è fuori uso, la frecciolina naviga nel nulla cosmico. Mirko tira fuori il cellulare, zero campo. Prova a chiamare il mio numero, ma non succede niente. Siamo in mezzo al deserto, diretti verso una delle basi militari più segrete al mondo, senza strumenti elettronici e senza poter chiedere aiuto. Da quando abbiamo imboccato questa lingua di asfalto dritta e infinita non abbiamo incrociato nessun mezzo. Nessuno ha più voglia di ridere o scherzare e le 40 miglia che ci portano a Rachel passano in un silenzio teso, visto che non funziona nemmeno più l’autoradio. E in quel silenzio torna di nuovo a galla la fatidica domanda: — Ma come diavolo ci siamo finiti in questo posto?

E con essa emerge anche una vocina, flebile flebile, che mi dice che in fondo lo so come ci siamo finiti. Non è per questo che siamo partiti da Italia e Inghilterra per trovarci dall’altro lato del globo? Per provare questa adrenalina, questo senso di attesa, di precarietà, di sconosciuto. Per mettere alla prova certezze, conoscenze e forse anche la nostra amicizia, nata a Venezia qualche anno prima, mentre giocavamo a fare Sherlock Holmes e proseguita a distanza, con qualche messaggio ogni tanto e un folle progetto comune. Due anni a progettare la vacanza dei nostri sogni e cinque minuti per stravolgere tutti i piani e gli itinerari. Ma in fondo la voglia di avventura, di scoperta, di gioco, era quello che ci aveva fatto incontrare, che ci aveva fatto partire e che ora ci dirigeva verso un paesino di un’ottantina di abitanti a un passo dall’ignoto. Ci apparve come un miraggio, e lo sguardo si focalizzo sul disco volante appeso al carro attrezzi. Solo dopo scivolò sul piccolo complesso del Little Ale Inn. Sembrava l’ennesimo negozio con ristorante pieno di souvenir alieni, ma se non altro un paio di auto erano nel parcheggio del Motel a testimoniare che non eravamo i soli visitatori. Tra un’anatra e una birra i gestori , per pochi dollari, ci misero tra le mani un foglio A4 con fotocopiata sopra una mappa coi punti di accesso all’Area 51. Aneddoti e avvistamenti vari ci colpivano poco, molto di più ci interessavano i racconti sulla fine dei turisti incauti che avevano oltrepassato i cancelli. Qui sentimmo parlare per la prima volta dei Cammo Dudes, un servizio di sicurezza privato che ha il compito di intercettare chi oltrepassa il perimetro e di consegnarlo allo Sceriffo della Contea. Multe di qualche migliaio di dollari e da qualche giorno a 6 mesi di galera le pene per sconfinamenti di anche solo qualche millimetro. Inutile dirlo, i racconti ci han riportato al clima teso che aleggiava in auto qualche oretta prima. Ci guardiamo negli occhi: Mirko è determinato, Francesca ha quel luccichio nello sguardo che ormai ho imparato a riconoscere come un segno di entusiasmo e io ho sempre pensato che quando si fa trenta, non ha senso non fare trentuno. Ed eccoci di nuovo in auto a seguire una mappa col solito faccione inquietante, alla ricerca di uno sterrato che ci porti al Back Gate. Il brutto, o forse anche il bello dello sterrato, è che per tutte le otto miglia, il polverone sollevato da Clementina era tale che anche se ci avesse inseguito tutta la Polizia della Contea, non avremmo visto un tubo. Poi di fronte a noi lo sterrato diventa asfalto, proprio in prossimità di due grandi cartelli con scritte che vanno dal WARNING al KEEP OUT. Accostiamo Clementina (non che ci sia tutto questo traffico), e sto per recuperare la mia reflex quando sento il — Cazzo, cazzo cazzo — di Mirko. Lui e Francesca stanno guardando a destra, verso una collinetta e quando la vedo inizio a sudare freddo anche io. Una Jeep beige, col muso girato proprio nella nostra direzione e un tizio armato, col berretto in testa, appoggiato alla portiera, che sembra guardare verso di noi. L’istinto di girare Clementina e di sfrecciare via coperti dalla polvere è forte, ma ormai siamo arrivati fino a lì e in fondo non vogliamo far nulla di male. Un paio di foto davanti ai cartelli, magari col cellulare, che la reflex a questo punto potrebbe sembrare un po’ sospetta visto il super tele montato sopra. Francesca è la prima a scendere, incoscienza o ingenuità della giovinezza, e noi subito dietro. Certe cose o si fanno in compagnia o non si fanno. Ci fingiamo assorti nel leggere ad adeguata distanza i cartelli e facciamo qualche foto di rito. Ci siamo accorti solo ora delle telecamere e del basso e continuo ronzio meccanico che stona col silenzio del deserto. Dopo qualche minuto che sembra un’eternità rientriamo in auto e lentamente ci allontaniamo dal Back Gate dell’Area 51, per poi accelerare appena fuori dallo sguardo dei Cammo Dudes. Tornati sulla strada principale decidiamo che ormai il peggio è passato e il nostro incontro ravvicinato, anche se non del terzo tipo, lo abbiamo già avuto. Così dopo una piccola sosta alla Black Mail Box, che in realtà sono due e bianche, piene di scritte che soffocano il nome di Steve Meolin che le aveva ideate, una per lui e una per gli alieni, ci dirigiamo al Front Gate. Qui lo sterrato prosegue per una ventina di miglia e c’è tutto il tempo per mille ripensamenti e per la solita insidiosa domanda, più asfissiante e appiccicosa di un tafano. Per farci un po’ di coraggio mettiamo la playlist che Francesca ha scaricato sul cellulare prima di partire da Londra e canticchiamo stonando come campane rotte, ma non ci importa. La cosa funziona e quando in lontananza vediamo il recinto metallico, la sbarra abbassata col grosso stop al centro, i cartelli intimidatori, nugoli di telecamere e qualche piccola costruzione non meglio definita, siamo molto più tranquilli. Niente Cammo Dudes in vista, ma non ci sentiamo meno osservati, Stavolta però conosciamo già il copione. Una scorsa ai cartelli e qualche foto veloce, poi di nuovo in auto, nascosti dalla polvere, molto più sollevati, a cantare a squarciagola le canzoni del Boss. Tornare sull’asfalto ci fa riemergere da una dimensione quasi onirica. Ci siamo stati davvero, ne abbiamo saggiato i confini, respirato l’aria di sicurezza estrema e il mistero che la circonda. La sera al Motel guardo quelle quattro foto in croce e mi chiedo se è valsa la pena fare tutta quella strada in più per qualche cartello impolverato. Poi penso ai Cammo Dudes, al brivido lungo la schiena, al ronzio, il GPS fuori uso. Con un qualsiasi documentario o video su youtube avremmo visto di più: foto, vecchie immagini satellitari, interviste a chi nella base ci aveva lavorato, eppure mai avremmo provato le stesse sensazioni di quel giorno. Ripenso al Back Gate, niente barriere, niente sbarra, un limite e li sulla collinetta le possibili conseguenze. Una scelta: incoscienza o autoconservazione. E mi accorgo che a volte il bello di un limite arriva anche senza oltrepassarlo, ma fermandosi al bordo, saggiandone il confine, Non tutti i confini si possono oltrepassare, ma tutti si possono guardare negli occhi. Tutte le volte che apro il frigorifero della mia casa e vedo quel Keep Out sulla calamita, penso ai confini. Ma non a quelli di una base segreta, penso a quei confini e ai limiti che porto dentro e trovo il coraggio di guardare anche quelli negli occhi.

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Patrizia Trinchero
Viaggiatori d’Occidente Master Class 2022

Prof, scrittrice, fotografa, iconografa. Viaggiare con spirito: di adattamento, avventura, Spirito di luoghi, popoli, religioni, culture. Questo amo raccontare.