Il Forte di Andre

Una pila frontale.

Aveva provato ad accenderla. Funzionava ancora.

L’aveva trovata in soffitta, si era arrampicato fino all’ultimo scaffale, quello dei vestiti per le uscite in montagna, dei guanti e dei maglioni a collo alto che pizzicano un po’, quello di quando ancora andava quasi tutto bene.

A quattordici anni, slanciato al massimo sulla punta dei piedi sopra la sedia più alta, Andre si era ritrovato a chiedersi se la felicità non fosse un po’ così. Che te ne accorgi solo quando è andata via.

Perché lui quelle gite non è che le odiasse, ma nemmeno poteva dire di divertirsi per davvero.

C’erano sempre degli intoppi e poi sua madre che ripeteva la lista delle cose da portare e suo padre che la zittiva e le diceva che non era scemo.

Dalla finestra si intravedeva l’orologio del campanile. Le otto e trentacinque. A breve sarebbe stato buio del tutto.

Nello zainetto che avrebbe nascosto nel borsone da calcio doveva trovare spazio anche per una torcia. La pila frontale per quello che aveva in mente non era abbastanza.

Aveva dovuto prendere un respiro più profondo.

Elenca le cose che ti fanno più paura, Andre. Dille ad alta voce. Scrivile su un foglio, ripiegalo e portalo con te.

In quel momento era riuscito persino a pensare che avrebbe voluto avere un fratello più grande.

Avrebbe potuto chiedergli come si affronta qualcosa che ti stringe lo stomaco, ti blocca il ritmo del respiro.

Quel foglio l’aveva scarabocchiato, poi stropicciato e maltrattato per un po’. Una delle due parole che ci aveva scritto sopra in blu si intravedeva ancora: BUIO.

Dalla cucina sentiva la voce di sua madre. Era ancora al telefono.

Suo padre lunedì per la prima volta non aveva preso il volo per il rientro da Edimburgo come faceva ogni mese ormai da un anno per lavoro.

L’indomani Andre avrebbe parlato del suo piano con l’unico amico su cui ora pensava di poter contare.

Aveva detto a sua madre che dopo l’allenamento di calcio si sarebbe fermato a dormire da lui, era già successo.

Avrebbe abbandonato il borsone in un punto concordato e con lo zaino fucsia e due pacchi di biscotti al cioccolato al seguito sarebbe arrivato al forte di Ospedaletto prima del buio.

L’aveva scelto perché si poteva partire dal paese prendendo una via dove non avrebbe dato nell’occhio: anche dopo il tramonto non era raro trovare qualcuno che si incamminava verso il laghetto Minisini.

In mezzora lo aveva già oltrepassato ed era al bivio. Non aveva incontrato nessuno.

Quando tre giorni prima suo padre gli aveva promesso che se fosse rimasto con lui avrebbe potuto scegliere la miglior scuola di disegno a Edimburgo, l’unica cosa che era riuscito a pensare era che aveva bisogno di superarla subito, la paura del buio.

Si era convinto che se avesse vinto qualcosa di cui aveva terrore, sarebbe stato in grado di affrontare anche quella scelta, la più difficile di sempre.

Così aveva deciso: avrebbe passato la notte al Forte, all’interno della galleria della Prima guerra mondiale. Alle prime luci dell’alba nella trincea la sua decisione avrebbe dovuto essere presa. Senza possibilità d’essere più cambiata. Definitiva.

Aveva letto che quella fortificazione, iniziata già nel 1904 per il controllo della Sella Foredor, aveva avuto un destino incompiuto.

Non era stata infatti utilizzata dopo la ritirata di Caporetto per fermare l’avanzata nemica: i suoi cannoni erano stati trasferiti sul Tagliamento e dopo solo due giorni l’ordine finale era strato quello di farla esplodere in modo che non diventasse una struttura militare austriaca.

Per arrivare dal paese a quelle costruzioni diroccate il percorso era breve e semplice: una camminata per bambini.

Anche d’inverno con la neve ci era andato più volte con i suoi genitori.

La galleria che portava in cima al monte d’Ercole era stata murata ed era impraticabile: lì un tempo c’era la batteria permanente, formata da quattro cannoni.

Andre sarebbe salito invece all’interno della lunga galleria della fucileria, che circondava quasi tutto il monte.

Sapeva, perché c’era già stato con il favore del giorno, che si trattava di una galleria coperta e blindata ma c’erano tantissime feritoie da cui filtrava la luce ed a ogni angolo c’era uno spazio ampio, che serviva un tempo per sostenere una mitragliatrice pesante.

Di notte però di luce non ne sarebbe filtrata comunque.

La pila frontale aveva iniziato a essere utile poco prima del tabellone con le illustrazioni della Grande Guerra. Poco distante, a Sella Sant’Agnese, proprio sopra Gemona del Friuli, erano state girate anche alcune scene del famoso film di Mario Monicelli; l’aveva letto talmente tante volte quel nome sulle insegne per i turisti che ormai gli sembrava quasi di conoscerlo di persona.

Quanto avrebbe voluto in quel momento non essere solo.

Si era portato il cellulare ma doveva stare attento a non scaricarlo troppo: un’unica persona sapeva dov’era e non lo avrebbe detto a nessuno.

Ormai era completamente buio.

Aveva preso dallo zaino anche la torcia per cercare un punto all’interno della galleria dove sedersi e mangiare qualcosa. La fucileria era tutta per lui. Infinita nel suo ritmo sempre uguale.

A istinto avrebbe scelto una postazione vicino a una feritoia, ma senza luce la prospettiva cambiava. Forse era più sicuro starsene al chiuso che accanto a un’apertura dalla quale poteva farsi vivo qualche animale.

La torcia faceva bene il suo lavoro: l’aveva appoggiata davanti a sé oltre il bordo dell’asciugamano in modo da poter sedersi nel suo fascio di luce; dietro la schiena aveva il muro compatto della galleria.

Se non mi muovo neanche di un millimetro non dovrei aver paura, pensava.

Una scuola di disegno a Edimburgo. Chissà se ci sono anche corsi per fumettisti, si era ritrovato a pensare.

Quello era il suo sogno da sempre, ma si vergognava anche solo a dirlo. In verità più cresceva e più gli sembrava irrealizzabile.

Non era poi così bravo, non così tanto.

L’unico che ci aveva invece sempre creduto era sempre stato suo padre.

Qualcosa fuori si era mosso. Forse un gatto o un grosso topo, aveva deglutito stringendo più forte il pacco con gli ultimi biscotti. Ne aveva ancora uno.

Aveva iniziato a tremare, come se la percezione di un rumore esterno avesse risvegliato in lui ancora di più i rimanenti sensi. E se si fosse spenta la torcia?

Ora faticava anche a respirare. Sapeva che era impossibile, aveva portato le batterie di scorta e poi aveva ancora la pila frontale e anche la torcia del cellulare se fosse servita.

Doveva tenere a bada il suo cervello. Doveva farcela perché non aveva altre soluzioni.

Sua madre non lo avrebbe mai incoraggiato a seguire la sua passione per il disegno, di questo era certo. Anzi, era sembrata soddisfatta quando si era iscritto all’istituto tecnico industriale e non all’istituto d’arte a Udine.

Ma allora perché il solo pensiero di partire gli faceva mancare il fiato?

Aveva freddo, nonostante fosse inizio giugno. Due giorni prima aveva piovuto, nella galleria l’umidità si sentiva eccome. Si era avvolto nell’asciugamano ripiegandoselo sopra e si era rannicchiato, la torcia sempre a poca distanza. Aveva fatto appello a tutte le sue forze nel muovere con vigore mani e piedi per scaldarsi e mantenere il calore all’interno, come faceva da bambino quando non riusciva a addormentarsi sotto il piumone ancora freddo.

Poi si doveva esser spostato nella galleria, perché vedeva in fondo una macchia verde scuro, forse era l’uscita nella vegetazione, quella con la vista dall’alto, quella dove respirava sempre più forte quando usciva.

Non era più verde, era diventata quasi fucsia ma quello era il suo zaino e quella macchia non poteva aver quel colore, doveva essere uno sbaglio della retina al buio, che si ricordava l’ultima cosa che le era rimasta impressa da vicino.

No, lo zaino era sotto la sua testa, l’aveva usato come cuscino.

Era chiaro ormai che stava sognando e che questo significava solo una cosa: si era addormentato.

La torcia era ancora accesa. Aveva guardato l’ora.

Mancavano dieci minuti all’alba.

Andre, devi decidere, devi farcela.

Aveva guardato verso la feritoia più in alto a destra: forse da quella parte avrebbe fatto capolino prima il sole.

A Ospedaletto, poco più in basso, c’era sua nonna, che non sapeva niente del disegno o di suo padre ma quando lo vedeva ombroso gli diceva sempre che aveva tanto tempo e tante scarpe ancora da consumare.

C’era sua madre che lo aveva ritirato dalla classe nuova di catechismo quella volta che era ritornato a casa scuro in volto perchè lo avevano preso in giro.

Le scarpe da ginnastica avevano un blu più definito adesso, luminoso. La torcia era rivolta dalla parte opposta.

Si era sbagliato, la luce era arrivata prima dalla feritoia poco più in basso, un fascio leggero.

Presto si sarebbe espansa, ma non contava.

Aveva preso dalla tasca della giacca il foglio tutto stropicciato e aveva iniziato a scrivere.

“2 Giugno 2022, Forte Monte Ercole, ore 5.20.

A volte quando si supera una paura poi non succede proprio niente”

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