Il viaggio dell’abito

Il profilo della giovane donna si specchiava nel finestrino del treno, senza perdersi nel paesaggio mutevole che si defilava veloce in quel lungo viaggio da nord a sud.

Al collo una collana di perle preziose, regalo della sua maggiore età, che le dita accarezzavano indugiando sugli strati lisci di madreperla. Ogni perla un pensiero, una riflessione, un timore, un sussulto.

Davanti a lei una valigia di cuoio, quella usata da sua madre nel viaggio di nozze degli anni 50, sedeva immobile e composta, un parallelepipedo con una dignità quasi umana. Il contenuto prezioso rendeva d’obbligo il costante controllo visivo. Temeva l’arrivo di un passeggero che ne reclamasse il posto.

Gli occhi ritornano al finestrino a quel paesaggio padano fatto di ampie distese intervallate dai filari di platano che delimitano gli ampi appezzamenti, indicando il tragitto dei canali lunghi e stretti. Reticolati di forma irregolare, senza una geometria precisa. Qua e là emergono i vecchi silos di cemento, grigi e in perenne agonia, torri a guardia di cascine abbandonate. I filari dei frutteti perfettamente allineati nascondono tra le foglie i frutti oramai maturi. I mezzi per la raccolta si muovono a scatti, sostenendo figure umane con le braccia protese verso il cielo. Il treno si avvicina alla prima meta del viaggio: Bologna la dotta, la grassa, la rossa.

“Signorina, scusi, posso?”

“Prego, i posti sono liberi”

Magro, scarno e rugoso nel volto, di bassa statura, i capelli corvini attraversati da fili bianchi. Così si presenta l’uomo con la valigia che aprendo la porta a vetri dello scompartimento, con discrezione si siede. I rumori, il respiro ansimante e un odore acre distraggono il filo di pensieri che la giovane donna rincorre. Gli occhi al finestrino osservano quel pullulare di gente che si muove, che attende e si saluta.

Il treno riprende la corsa, si affacciano le prime colline e il santuario svetta nel cielo terso. Lo sguardo rivolto al paesaggio e ai ricordi. Vede il decoro che l’anziana ricamatrice di Canda, piccolo paese veneto tra villa Mocenigo ed il Tartaro, ha tessuto sul crepe georgette di seta. Che fatica cercare in tutto il nord Italia, da Venezia a Torino, le perle di varia foggia necessarie a disegnare quei cerchi concentrici che adornano il morbido corpetto dell’abito. Le perline bianche miracolosamente recuperate in uno scatolone, dimenticato sugli scaffali alti di una storica merceria del centro di Milano.

Ricorda il giorno nel quale Maria Grazia, l’artista che frequentava la sua casa, le aveva dato il foglio su cui a matita aveva tratteggiato il disegno del ricamo. A margine le note che descrivevano le caratteristiche di ogni perla. Un particolare importante: le barrette lunghe e sottili che chiamava cannolicchi, come i molluschi di mare.

“Signorina permettete… vi posso offrire qualcosa?”

Dice l’uomo e allunga un cartoccio.

“Vi ringrazio, ma ora proprio no, non me la sento di mangiare, grazie”

I suoi denti affondano nel panino con carne impanata e la bocca si muove nel tramestio di una lenta masticazione. Odori di frittura si disperdono nello scompartimento. La giovane donna ritorna con gli occhi al finestrino e tra le dita accarezza una perla. Sono scomparse le ampie distese ed ora sinuose colline verdi, vigneti, filari di cipressi, case padronali e cascine si confondono tra i campi di girasoli. E’ bello il paesaggio toscano, armonioso come la fusciacca dell’abito che cingerà la vita della giovane donna quando si modellerà sul suo corpo. Povera sarta, che ancora giace nel letto, sofferente per una schiena usurata che non ha retto lo sforzo finale! Ha cucito l’orlo dell’abito coricata con le lacrime agli occhi per il dolore. Ma il vestito è stato consegnato nei tempi attesi.

Un impegno a cui non poteva sottrarsi. Sua era stata l’idea di copiare l’abito da Vogue, quando ad aprile la donna si era recata a Fratta Polesine con la madre. Quando in un pomeriggio di primavera, nella casa della sarta, quattro donne, anche le sorelle, stavano raccolte attorno ad un tavolo a discutere di lunghezze, ampiezze, scolli e plissettature. La giovane stava in silenzio ad ascoltare quel ribollire di parole che la riguardavano. In verità, la sarta non era solo un’abile artigiana, ma anche un’acuta osservatrice delle sue clienti. Sapeva disegnare e cucire un modello d’abito che calzava con il profilo psicologico della donna da vestire. Il suo silenzio era un riconoscimento a tanta cura.

Firenze, stridere di ruote di un treno in frenata. Il consueto affollarsi di persone e la porta dello scompartimento si riapre. Sbuffante, sudato, scarmigliato un tipo si siede con la sua valigia di cuoio. Affianca la donna, non saluta ed impreca.

“Signorì, ma nu goccia di cafè na potiti rifiutare!”

“ Grazie, ma … ma sì, non posso dirle di no. Troppo gentile.”

L’uomo allunga la mano grossa e nodosa con il bicchierino: il caffè scende in gola e la scalda. E’ buono, ha aromi di miele d’arancia. L’invadente a fianco sembra scocciato, si agita sulla poltrona del treno, articola qualcosa e si alza per fumare una sigaretta nel corridoio.

Gli occhi tornano al finestrino inondato dalla luce del giorno. Il paesaggio toscano lascia lo spazio a quello umbro e laziale. Si alternano momenti di luce a momenti di buio improvviso quando il treno entra nelle lunghe gallerie. La coda dell’occhio cattura pezzi di paesi arroccati sulle alture ora più aspre ed irregolari. Una natura rigogliosa tratteggia ampi spazi boschivi e se l’occhio si allunga verso la linea dell’orizzonte si intravvedono specchi d’acqua.

La schiena duole, le gambe sono anchilosate, forse è meglio fare due passi lungo il corridoio, pensa la giovane donna. E’ preoccupata per la valigia e il suo carico prezioso, ma farà una breve camminata avanti e indietro senza mai perdere di vista lo scompartimento. Lascia la sua fusciacca colorata ad occupare il posto.

Un giovane intrigante l’osserva camminare lungo il corridoio e non si trattiene dal chiederle dove è diretta. Lei risponde seriosa con una sintetica frase. Calabria: questa parola rimane sospesa nell’aria mentre gli occhi della giovane inquadrano dal finestrino un grande borgo che si adagia sulla collina.

“Viaggio di lavoro o di piacere?”

“Di piacere”

“Il mare di Calabria è limpido e profondo. Vi piace prendere il sole?”

“Sì”

“Anch’io. Quando posso, amo trascorrere ore disteso sulla spiaggia”

“Io preferisco nuotare”

Silenzio, pausa, il pensiero corre alla valigia.

“Salve”

“Salve!”

Il corpo si gira, la mano tira la porta dello scompartimento e gli occhi si fiondano sulla valigia che non c’è più. Il posto è occupato dall’invadente personaggio.

“Dov’è la mia valigia?, chi l’ha presa?”

“ Statevi calma, sta lassù sulla cappelliera, quello è il posto suo”

La donna chiude con energia la porta dello scompartimento che produce un colpo sordo, urta le gambe dell’uomo dalle mani nodose e con movimenti stizziti torna a sedersi sul suo sedile. Decide di leggere, apre il libro, ma non riesce a concentrarsi anche perché il tipo di Firenze allunga le sue gambe senza alcun rispetto e a lei non rimane che accartocciare le sue contro il bordo di pelle della poltrona.

“Ma guarda un po’ questo cafone!”

Pensa tra sé la giovane donna.

Non manca molto all’arrivo nella capitale, Orte e i suoi fragili dirupi sono alle spalle, l’appennino declina verso la campagna romana. Si affollano le abitazioni, la periferia della città con il suo muro squadrato di palazzacci bianchi su fondo creta. In lontananza il raccordo anulare che cinge la città.

Ha fame, è decisa a consumare il suo modesto pranzo, ma quel personaggio le ha tolto l’appetito. Beve dal thermos un sorso di the. Il liquido caldo scende in gola scaldando l’umore quando una frenata brusca del treno scaraventa le valige tra i passeggeri. Grida di sorpresa e disappunto, occhi spalancati, tutti dimenano le braccia nel veder spargere qua e là il contenuto delle valigie drammaticamente aperte agli sguardi di improvvisati curiosi. In un parapiglia disordinato le mani raccolgono intimità, sogni, quotidianità, speranze nei relativi contenitori, mentre si affaccia il capotreno scusandosi per l’accaduto. Un trattore attraversava le rotaie ed il macchinista con prontezza aveva attivato il freno d’emergenza.

Gli occhi della giovane si alzano ad osservare il capotreno, si distraggono dal contenuto raffazzonato della valigia, indugiano su quel personaggio e sul passeggero dal volto scarno e rugoso, che le sorride e le sussurra parole d’intesa.

“ Signorì, ma chistu vestitu è propriu bellu. Signorì… c’è cui vi aspetta!”

Il treno prosegue verso Tiburtina, quando gli occhi della donna ritornano verso il basso e ritrovano le valigie già richiuse e l’antipatico soggetto intento a riporne una sulla cappelliera, l’altra la prende per la maniglia e salutando con un insignificante:

“Buon proseguimento”

esce e scompare agli occhi della donna che tiene fra le mani il bracciale prezioso, dono della madre per fasciare un braccio sottile che la manica dell’abito non coprirà.

Attimi per recuperare nuovamente la valigia e prepararsi a scendere. A Termini bisogna cambiare treno. Un tempo breve a disposizione, l’apprensione di cercare sul tabellone il binario con destinazione Reggio Calabria, lo sgomitare tra le persone, il peso della valigia e il nuovo scompartimento da cercare.

Eccolo il numero 15. Ora è lei ad aprire la pesante porta di vetro, varcare la soglia ed osservare la figura di una donna di mezza età vestita di nero. Tutto di lei parla di dolore e perdita. Come il ciondolo d’oro con l’immagine di un viso maschile che pende al centro del petto. Accenna un sorriso di circostanza. La giovane donna si risiede e il treno parte per Napoli . Lo stomaco duole. Ora è meglio ingoiare qualcosa mentre il giorno si avvicina al tramonto. In lontananza i colli dei castelli romani e poi il paesaggio campano con le sue pianure e l’affollamento dei nuovi agglomerati urbani che già si sono mangiati anche i ruderi delle case rurali. Le irregolarità dell’appennino e Salerno compare all’orizzonte.

“ U maritu meu, quando jia a Roma, sempi mi portava nu rosariu novu. Chistu è di petalo di rosa russu e chistu chi portu o collu è di culuri virdi.

Vi piace u crocifissu?”

Le parole della donna rompono il silenzio e si confondono con il rumore del treno che incessante corre sulle rotaie.

Bacia il Cristo e con gli occhi ritorna al finestrino, si perde nei suoi ricordi mentre le palpebre si abbassano e le dita si soffermano su un Pater nostro di un grano rosa rosso.

La sera si avvicina e con essa il pensiero di una notte seduta su uno scomodo sedile di scompartimento. La giovane donna spera che nessun altro passeggero entri così sarà possibile allungarsi sulle poltrone libere. Il mare di Paola si intravvede tra le luci della costa e il santuario di San Francesco si erge sopra a tutto. Ora il treno penetrerà tra le montagne impervie della Calabria. Le luci si abbassano, la donna in lutto inizia il suo lieve rantolo notturno e la donna ritorna con il pensiero all’abito. Il sonno sopraggiunge, l’inquietudine si materializza in un incubo. Viene assalita da un fantasma che indossa il vestito e poi un secondo fantasma lo strappa e disperde i frammenti in un buco nero impenetrabile. Si sveglia, inspira e ricorda che l’abito è su nella cappelliera, nella valigia di cuoio con le scarpe e la sottoveste setosa e trasparente. Riposa ancora per qualche ora, ma è un sonno smozzicato, disturbato. A Cosenza un tramestio di voci umane, di un dialetto calabrese chiuso scorre lungo il corridoio. Il corpo indolenzito si gira e rigira alla ricerca di una postura riposante. Un presagio indefinito la inquieta.

Si fa l’alba e i primi bagliori del giorno si insinuano nello scompartimento. Catanzaro, il mare, la palla rossa del sole riemerge, le lampare immobili sono ancora al largo e punteggiano la calma distesa lievemente increspata da residui di brezza notturna che si attarda. Jonio, il mare che il fidanzato declama come il più bello e profondo del mondo. Un trambusto nel corridoio di pendolari che si recano a Reggio.

“Buongiorno!”,

dice uno di loro entrando ed impreca contro le ferrovie dello stato che viaggiano con un ritardo di 60 minuti.

“ E che schifiu! Mai na vota chi stu treno arriva in orario!”

La donna in lutto sempre immobile nella sua posizione si fa il segno della croce inserisce la mano nella borsa nera e ne estrae un’arancia avvizzita che impregna con i suoi aromi lo spazio circostante.

La giovane apre con fatica il finestrino, allunga un braccio fuori e chiama l’uomo del carrello

“ Un caffè, per favore un caffè”

L’uomo si avvicina con fare lento. Il treno accenna un minimo spostamento, il sogno della bevanda sembra svanire, ma ecco che il tipo decide di darsi una mossa. Allunga il caffè e si piglia la moneta.

Il peso del viaggio comincia farsi insopportabile. La donna riprende le sue litanie.

L’uomo fuma nervosamente una sigaretta dopo l’altra. Il caffè e gli ultimi frammenti di biscotti sono un breve conforto nel lungo viaggio. Un sollievo la visione del mare, ora di un azzurro intenso. A breve potrà immergersi felice e spensierata in quelle acque cristalline, dopo aver salutato con tutti i dovuti convenevoli la lunga fila di parenti e di chiassosi nipoti. E magari dopo aver consumato il luculliano pranzo che l’attende. Ne era certa, prima del tramonto il mare sarebbe stato tutto suo.

Riace, Caulonia, Roccella Jonica. Le ultime fermate allungano all’infinito l’attesa dell’arrivo. Gioiosa Jonica e poi, se Dio vuole, Siderno.

La giovane è già davanti alla porta quando il treno si ferma e con l’energia di Ercole la mano riesce ad abbassare la maniglia e ad aprire lo sportello. Il fidanzato l’ ha vista e le corre incontro. Un lungo bacio e poi via verso casa. Bisogna aprire subito la valigia e riporre l’abito che sarà tutto sgualcito.

La valigia sul letto, il rumore metallico dei ganci che si aprono, e poi un grido disperato.

“no, no, no…dov ‘è l’abito. Non c’è più”

Il pianto trattenuto da un nodo alla gola. I parenti accorrono, le donne si disperano. Invocano la Madonna. Il maleficio aveva compiuto la sua dannata opera. Un fato avverso si era abbattuto su quella casa. Il fidanzato ha uno sguardo smarrito.

La disperazione collettiva è interrotta dall’arrivo del più vecchio dei nipoti che chiama la madre e la trascina fuori dalla stanza.

“Venite , venite” urla la donna.

Tutti si precipitano giù dalle scale per ritrovarsi all’entrata del palazzo. Un uomo sulla quarantina, dai capelli bruni, elegantemente vestito ha tra le mani un pacco ben confezionato. E’ sceso da una macchina scura lunga e dai vetri oscurati impenetrabili. Muove pochi passi nell’atrio.

“Chistu è pa signurina chi veni du nord”

La giovane donna si scosta dal gruppo di femmine, allunga le braccia e raccoglie tra le mani il pacco. Lo appoggia sul tavolo e con il respiro sospeso lo apre. L’abito, l’abito bianco di seta, finemente ricamato, è davanti ai suoi occhi. Al centro una busta. L’apre, c’è un biglietto con una parola: Onorato e poi la foto di un bambino, la foto che viaggiava con lei insieme all’abito. E’ quella del suo fidanzato che avrebbe dovuto riportare alla cognata con una scritta sul retro.

- A don Peppe, A. A. Siderno 1952 -

Incredulità, sorpresa, sollievo. Il pensiero corre all’ingombrante individuo che aveva viaggiato con lei da Firenze a Roma. Possibile? Sì tutto è possibile in questa terra di famiglia, di fichi d’india e di impenetrabili montagne stritolate tra due mari.

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