Mascara e Niqab

Viaggio in Yemen

Kullu tamam, kullu tamam. Mush mushkila”.

Il tassista continua a ripetere le stesse frasi, io non capisco già più niente, il rumore è stato forte e il pensiero va ai miei genitori.

Mush mushkila. Infajaret iṭār fi as-sayāra, infajaret iṭār. Al hamdu lillah, al hamdu lillah

Ma cosa sta dicendo questo? Eppure dovrei capire, l’ho studiato.

Forse non conosco così bene l’arabo, ma le basi, almeno quelle. Dai Michela, concentrati.

Niente, riesco solo a pensare che non può succedere anche a me, qui, in un paese straniero e così lontano da casa. La mia famiglia non sopravvivrebbe anche a questo.

Cos’è questo fumo? Lo sapevo che non dovevo partire in questo momento e per lo Yemen poi.

E tutto perché volevamo andare all’hotel Sheranton, solo per una birretta, un bikini e una piscina. Solo per ritrovare un po’ di normale occidentalità, che poi, nessuno ci ha obbligate a questo viaggio.

Ma si sa, per imparare bene una lingua devi andare in un posto dove la parlino, e qui a salvarci non c’è nemmeno l’inglese.

Maalesh, maalesh”.

Finalmente ci fermiamo. Siamo ancora vive. Sarà stato un attentato a qualche ambasciata? A un gruppo di turisti?

Anche Anna, di solito sempre spavalda e menefreghista, questa volta si è presa un bello spavento.

Non fa più tanto la saccente ed è bianca più del solito.

Scendiamo, il fumo in realtà proviene dalla macchina e la puzza di gomma bruciata ci schiarisce subito le idee.

Ecco cosa stava dicendo il tassista. Devo decisamente ripassare l’arabo, ma in fondo, sono solo al primo anno.

Siamo qui da solo una settimana e dal nostro arrivo in aeroporto in t-shirt e sigaretta alla mano, abbiamo già dovuto ridimensionare il nostro essere delle ventunenni quasi indipendenti e sicure di sé.

Siamo corse ai ripari il giorno seguente, contente di fare shopping, anche se di niqab e abaya. Per non sbagliare ne ho comprati tre che ovviamente non userò mai più una volta a casa, anche se onestamente non so come possano pensare di rendere la donna meno “interessante” dato che, come sottolinea lo sguardo il niqab, neanche eyeliner e mascara super allungante.

Di sicuro adesso sono molto utili perché non facciamo una bella impressione ad essere ferme in mezzo alla strada, senza un accompagnatore-amico-parente-marito-fidanzato o un uomo qualsiasi purché maschio, aspettando da sole un altro taxi, considerando che l’altro se n’è andato sparando scintille dal cerchione sull’asfalto. Sembra però che si noti da come camminiamo che non siamo vere yemenite sotto questo vestitone nero e informe, ma almeno così bardate eviteranno di scambiarci per prostitute.

In giro ci sono perlopiù uomini, come da prassi, e tutti rigorosamente con la djambia, il pugnale tipico dalla custodia decorata come un gioiello, portato in vita a donare prestigio al portatore e la pallina di qat nella guancia, che invece li rende un po’ meno principi del deserto e un po’ più animali che brucano erba.

Ci devo ancora prendere le misure con gli sguardi intensi,dettati più dalla curiosità verso la strana occidentale in vacanza qui, che non da una vera e propria malizia. Per non parlare del rigoroso comportamento da tenere in pubblico, che sicuramente non abbiamo interiorizzato alla lezione di diritto islamico.

Come la prima volta al suq di Sana’a, in piena Medina, col tramonto all’orizzonte, non so se da perfette incoscienti o estremamente coraggiose, dato che ci avevano espressamente detto di evitare, chiedendo indicazioni a uomini che ovviamente non ci consideravano nemmeno, alcuni per rispetto, altri per disprezzo. E come tutte le medine, anche questa non fa eccezione ed è un insieme di vicoli e vicoletti che si intersecano tra loro senza nessuna logica, almeno per noi.

“Ma sì, che problema c’è. Andiamo e torniamo, almeno ci facciamo un giro, se no stiamo sempre a studiare”. Non so perché mi faccio sempre convincere da lei, ha uno strano potere su di me.

Ho sempre pensato di essere una persona determinata, che non cambia idea facilmente, ma Anna cerca sempre di farmi fare cose sconsiderate, o forse, solo cose spensierate da normale ventenne.

Ma io ormai non sono più una normale ragazza universitaria, non posso permettermi di essere irresponsabile da ora in poi. Non devo mettermi in pericolo. “Martina, cosa fai lì? Dai alzati, tirati su”. Una frase che mia madre continuava a ripetere e che mi bombarda la testa, ancora e ancora, anche mentre sono qui, sulla terrazza della scuola, il lettore cd in mano e le cuffiette alle orecchie ascoltando le sue canzoni preferite e versando le lacrime che non ho potuto versare prima.

E’ quasi l’ora della preghiera della sera e quando le centinaia di muezzin della capitale, cento tre per la precisione, richiamano alla preghiera all’unisono, non si può ascoltare altro. Spengo il cd e mi sintonizzo sulle vibrazioni di questo canto che mi commuove anche di più.

Puoi non essere musulmano, non capire cosa dicono, ma non si può non venire totalmente rapiti dall’adhan che si insinua tra le vie di Sana’a come se andasse alla ricerca delle anime perdute per riportarle sulla retta via.

Da quassù sembra una città fantasma, o sono io che sono rimasta sola con i miei di fantasmi.

Una capitale che ha fatto da sfondo a diversi regni, che porta i segni di una delle prime civilizzazioni al mondo e che addirittura pare sia stata fondata da Sem, figlio di Noé. Una città sospesa nel tempo, che già nel nome racchiude la sua resilienza, la capacità a resistere al passaggio del tempo e degli uomini.

La città è avvolta in una nuvola di sabbia che rende ancora più soffuse le luci arancioni delle strade che si mescolano e si confondono rendendo vani I tentativi di mantenere divisa la città dentro le mura in tre quartieri, quello arabo, quello turco e l’immancabile quartiere ebraico.

Da quando sono arrivata non ho visto che cieli, strade e case color del deserto che rendono la città fragile e allo stesso tempo immortale, una città rediviva secolo dopo secolo, guerra dopo guerra. Sana’a significa proprio “forza”, “vigore”, anche se le sue case a torre, fatte di pietra e argilla, sembrano sbriciolarsi al soffio del vento e I ricami che le decorano sciogliersi al sole. Eppure eccola qui, vibrante al canto dei muezzin, testimone di quella che fu l’Arabia Felix e che ancora nasconde giardini fioriti all’interno dei loro cortili. Una città che emana mistero dalle sue pietre e non è difficile immaginare perché sia da decenni teatro di di miti e leggende, come quello della regina di Saba. Così brulicante di giorno, così immobile la sera.

Che ci faccio qui invece di essere a casa con la mia famiglia?

Non posso fare a meno di pensare che mia sorella non potrà mai ascoltare il richiamo dei muezzin, lei che non ha mai capito la mia scelta di studiare arabo, lei che non farà mai l’università, o un viaggio intercontinentale, o le cazzate da ventenne.

Chissà cosa stavano ascoltando in quella maledetta macchina quella sera.

I muezzin terminano il canto e la magia si spezza, per fortuna appena in tempo.

“Dai, vieni. Stiamo mettendo su la pasta che stasera tocca a noi. E gliela faremo vedere agli spagnoli chi è che cucina meglio”, Anna interrompe la mia tristezza riportandomi alla gioia della giornata, il momento della cena.

Dopo dieci giorni di riso, patate e pollo, anche gareggiare a suon di pasta e caffè della moka infilata in valigia dalla mamma, è un momento di svago.

E poi si sa, ogni occasione è buona per fare festa, o almeno qualcosa che ci assomigli.

In fondo abbiamo tra i venti e i venticinque anni, proveniamo da tutto il mondo, e invece di essere ad Ibiza o sulla riviera romagnola, siamo qui, in pieno luglio, per una vacanza studio.

Qualcosa per passare le serate lo dovevamo pur trovare e se il russo, di già soprannominato Psyco, tiene un corso di scacchi per principianti, i giapponesi ci insegnano a meditare, gli spagnoli si sono auto investiti del ruolo di animatori, noi italiani, com’era scontato, ci siamo improvvisati chef fuori sede con tanto di corsi storico-pratici di cucina con quello che l’importazione yemenita offre.

In realtà, riso, patate e pollo è l’alimentazione base di mezzo mondo e accontenta un po’ tutti, ma tempo di ambientarci e abbiamo trovato il nostro spacciatore di patatine fritte, un adorabile vecchietto senza denti che in un bugigattolo un po’ sotto il livello stradale, frigge a ripetizione patatine In un olio che sicuramente ha visto, lontani, tempi migliori. Non saprei dargli un’età, probabilmente è più giovane di quanto immagini o di quanto dimostri in realtà, rigorosamente vestito di bianco e senza una neanche una macchia. Ce le serve in sacchettini di nylon, qui la plastica è ancora al suo massimo fervore, con un chilo di sale che solo l’immancabile coca cola può spazzare via dalle nostre bocche.

Gli americani presenti a scuola devono mentire dichiarandosi canadesi quando escono ma il prodotto statunitense di maggior importazione non conosce razzismi o pregiudizi. E poi è il modo più veloce e dolce di impastare il qat, affinché diventi una morbida pallina da poter archiviare nella guancia.

Il vecchietto delle patatine non ha il rigonfiamento facciale tipo ascesso dentale. Probabilmente non gli fa più nessun effetto dopo anni passati a masticare, ma il fornitore di pane in fondo alla strada dello Yemen language center, che ormai ha imparato a conoscerci, ci insacchetta il pane sorridendo a 32 denti verdi.

Il qat sono foglie che devono essere masticate in continuazione e dona un senso di euforia simile a quello delle anfetamine, anche se onestamente non mi sembrano poi così attivi o eccitati, anzi, spesso hanno sguardi vitrei e assonnati. In ogni caso non smettono un attimo di masticarlo, anzi, pare sia una abitudine che riunisce addirittura le famiglie, che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, tanto che non è assolutamente considerata una droga. Ma lo è a tutti gli effetti. Oltre ad essere uno stimolante psicoattivo, riduce anche i morsi della fame, utile in un paese che ha subito guerre e carestie, e che aumenti la libido, con conseguenti danni per le donne, tanto per cambiare.

Tutti ne fanno uso, anche il ristoratore che ci fa la hadga da asporto, un misto di carne, verdure e spezie da mangiare con chili e chili di pane, e il kebabbaro del suq, il signore del negozietto di stole e quello delle spezie, insomma, tutti…gli uomini, naturalmente.

Le donne sono sempre poche in giro, in gruppo o accompagnante da uomini e, come da prassi, due metri dietro di loro. Di sicuro non masticano qat, né fumano in pubblico, parlano solo tra di loro e fanno compere per la casa e per la famiglia.

Eppure un giorno, all’entrata del suq, un paio di ragazze ci hanno fermate, incuriosite da noi e dai nostri colori.

Certo, bianche pallide come siamo, capelli (quasi) al vento, occhi verdi o azzurri, come nel caso di Anna, e per di più lei è pure bionda, insomma la classica occidentale che si porta appresso il mito della bellezza nordica e il rischio, secondo il più classico dei cliché, di essere venduta per molti cammelli. In più smesso di mettere il velo, il minimo che poteva succedere era che ci fermassero per chiederci una foto, neanche fossimo delle stars. La favola della donna europea e dai colori, a loro dire, più rappresentativi della bellezza, è ancora molto in voga qui. Eppure, benché il loro fisico non sia neanche lontanamente percepibile sotto l’abaya, non hanno nulla da invidiare. Occhi neri e profondi o verdi smeraldo che brillano sulla pelle olivastra, esaltati dal trucco e dalla triste cornice del niqab, le rendono misteriose e tremendamente sexy. Alla faccia di minigonne e scollature.

Capelli che anch’io ho dovuto legare ben stretti, troppo lunghi e maliziosi anche solo per portarli a coda di cavallo, figuriamoci sciolti, ma onestamente non ne potevo più del velo sintetico.

Il niqab l’abbiamo dismesso nel giro di due giorni, il velo abbandonato nel giro di sei giorni e l’abaya totalmente dimenticata in otto, ma non siamo così folli da non coprire in altro modo braccia e gambe.

Per fortuna Sana’a è su un altopiano a oltre 2.000 metri, la sera fa più fresco, di giorno c’è caldo ma tutto sommato con maniche e pantaloni lunghi ci si salva dalle scottature. Gli arabi ne sanno.

In ogni caso, sia che ci si trovi tra le viuzze intricate del suq o nella piazza della città vecchia, ci si nota come un faro nella nebbia.

Il mercato è il più grande della penisola arabica, chiamato Suq al-milh, che al contrario di quello che lascia intendere il nome pensando ad un inglesismo, significa invece Mercato del sale, e in realtà è una composizione di oltre quaranta suq, ognuno specializzato nella vendita di una specifica merce.

Quando si varca l’enorme entrata, anzi la porta della città vecchia, Bab al-Yaman, si entra in un mondo parallelo, cristallizzato nel tempo che non scorre. I profumi intensi delle spezie a cui non siamo abituati, misto a quello di profumi per niente delicati e troppo pungenti, creati per lasciare il segno ma che spruzzati su vestiti spesso acrilici, si scontrano con quello naturale dell’incenso, ci trasportano in quel mondo arabo che riempie i nostri libri universitari. Stoffe, gioielli, lampade e il brusio arabofono di sottofondo della marea di gente che si riversa ogni giorno all’interno di queste mure, completano l’immagine che ti aspetti, e speri, di vedere in questo fantastico paese.

Anche se io vivo in una dimensione surreale dal 30 giugno. Quella mattina non la scorderò mai, quando tutto ha iniziato a disintegrarsi, a partire dalla mia anima. Si pensa sempre che non possano accadere certe disgrazie, ma poi tocca a te e allora capisci che niente è scontato, non lo è la vita, né il tempo a tua disposizione e si può morire a 17 anni, in cinque, su una macchina e nemmeno per colpa tua..

Mi sono rifugiata in quel microcosmo, quello che quel giorno ho dovuto creare per proteggermi e dove ho deciso che dovevo vivere per due, vedere il mondo anche per lei, conoscere, imparare, esserci.

E allora sono partita, nonostante i pettegolezzi, le incertezze, il dolore.

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