Uganda fuori rotta
Se arrivi in Uganda con un viaggio organizzato, Kampala non la vedi proprio: i voli internazionali atterrano a Entebbe, 45 km a sud della capitale, e da lì parte il tour che in una decina di giorni ti svelerà “il meglio del paese”. Se però in Uganda arrivi per conto tuo, magari via terra da uno dei paesi confinanti, una sosta a Kampala la metti in preventivo e il viaggio prenderà tutta un’altra direzione.
Alle sei del mattino, nonostante il sole dorma ancora, la città è già in fermento. Il bus notturno, che qualche creativo definirebbe vintage, mi deposita davanti al terminal dove una fila di taxi con il motore acceso è in attesa del primo cliente. Poche centinaia di metri mi separano dall’albergo che raggiungo a piedi sotto il cielo tinteggiato di rosa. Eccomi in una città africana come tante, penso, sporca e disordinata; ma non mi lascio intimidire. La prima impressione è spesso fuorviante, me lo conferma il giovane dietro al bancone della reception che mi accoglie con uno squillante karibu seguito dal suo nome, Josh.
Si presenta in swahili, lingua ufficiale dell’Uganda insieme all’inglese, residuo coloniale parlato fluentemente da buona parte della popolazione, soprattutto nella capitale. Josh ha lo sguardo stanco ma il suo turno non è ancora terminato. Mi offre gratis la colazione. “Non c’è gran movimento oggi, gli ospiti han fatto serata e dormono ancora tutti” mi confessa sollevato, sorseggiando la sua tazza di caffè. Memorizzo il dato e arricchisco il quadro: sporca e disordinata, Kampala, ma con una vita notturna vivace.
Alla stregua di Roma, Lisbona e forse altre città sparse in giro per il mondo, Kampala è l’unica del continente adagiata su sette colli. Josh insiste per farmi chiamare un Uber per raggiungere in sicurezza le attrattive principali. Non mi stupisce: nelle grandi metropoli, africane e non, la microcriminalità rappresenta un tasto dolente e chi opera nel turismo spesso è sin troppo protettivo nei confronti dello straniero. A volte però vale la pena di correre qualche rischio.
Alle dieci del mattino di un qualsiasi giorno infrasettimanale, Kampala si manifesta come un girone infernale e non per la temperatura, che resta sotto i trenta gradi, ma per il via vai di moto, macchine, minivan, biciclette e persone che rendono faticoso persino camminare. Il marciapiede è poco più di una sottile striscia rossa in terra battuta su cui si concentrano le attività degli ambulanti. Le donne, avvolte nei loro tessuti variopinti, commerciano frutta e chapati, ma si vende di tutto: dai cd contraffatti ai giornali, dagli occhiali da sole alle scarpe usate. Persino i negozi espongono la loro merce sulla strada. I venditori urlano a squarciagola per attirare l’attenzione dei passanti, sopraffatti dal rumore dei mezzi di trasporto che ruggiscono e strombazzano all’unisono, vanificando qualsiasi tentativo di comunicare. Spazzatura ovunque, senza nessun ritegno: è difficile sottrarsi all’odore forte e opprimente della povertà.
Il breve tratto di strada che mi separa da downtown mi basta e avanza come esperienza sul campo. Fermo al volo un moto-taxi e gli chiedo di portarmi alle Kasubi Tombs. Il suo inglese poco fluido mi suggerisce che anche lui a Kampala è un ospite. Durante il tragitto mi racconta che proviene da un villaggio dell’interno di nome Sipi, ai margini del Mount Eigon National Park, e come tanti si è trasferito in capitale per lavorare con il boda-boda, un taxi su due ruote. Cambia nome di stato in stato, ma è un mezzo di trasporto comune in tutta l’Africa e nelle città, spesso congestionate dal traffico, rappresenta il modo più economico per spostarsi velocemente da un luogo all’altro, rigorosamente senza casco; l’alternativa è il minivan raffazzonato e stipato di gente che sta in piedi per miracolo.
Godfrey, così si presenta, conduce con prudenza, attento a evitare le buche che rendono il manto stradale più tormentato di un percorso ad ostacoli. Il traffico persiste, seppur moderato, fino all’inizio della salita verso le tombe dei re Buganda: i mausolei dalla forma circolare, costruiti in paglia, legno, argilla e sovrastati dalla cupola di stoppia, rappresentano il classico esempio di architettura tradizionale e ospitano le spoglie degli ultimi sovrani che governarono il paese prima della colonizzazione britannica.
A detta di Godfrey, non c’è granché da vedere a Kampala e la nostalgia con cui mi parla della sua terra, mi induce a inserirla nel mio itinerario.
Sipi è poco più di un gruppo di case che si affaccia sulla strada serpeggiante lungo la vallata silenziosa. L’assenza quasi totale di macchine accresce la sensazione di pace che ti avvolge non appena scendi dal minivan e respiri a pieni polmoni l’aria secca e fresca, ben diversa da quella di Kampala pregna di umidità. La frenesia della capitale dista solo 270 km, ma ci sono volute cinque ore di tragitto, e vari cambi di mezzo, per liberarmene.
Di visitatori in giro se ne vedono pochi. Qualche lodge solitario, nascosto nella vegetazione, accoglie il ceto benestante della capitale in cerca di tranquillità mentre i backpackers si ritrovano al Crow’s Nest, modesta guesthouse a conduzione familiare con una vista panoramica su Sipi Falls degna della copertina di Traveller.
Il percorso per raggiungere le cascate si snoda attraverso campi di banani e piantagioni di caffè che rappresentano la fonte di reddito principale della zona. Giulia, la sorella di Godfrey, mi rivela che a Sipi si produce una delle qualità migliori di Bugisu Arabica a livello mondiale e mi accompagna dallo zio, che ha una piccola farm a conduzione familiare, dove i chicchi già essiccati vengono tostati e macinati al momento per regalarmi il piacere di un buon caffè.
Siamo totalmente fuori rotta rispetto ai circuiti dell’Uganda convenzionale e il paesaggio funge da contorno a quadri di vita quotidiana dove nonostante il duro lavoro, la gente non si lesina nel darti il benvenuto.
Diana Facile