Arthur Ashe, esempio di sport e impegno sociale

“Giorni di grazia”, la biografia di Arthur Ashe, il primo tennista di colore ad aver vinto Wimbledon, raccontata da Mauro Berruto e Giuseppe Vercelli.

Andrea Costantino Levote
Virgola
6 min readMay 23, 2017

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La sala argento del Salone Internazionale del Libro ha cambiato colore per un’ora e mezza giovedì 18 maggio. Si è dipinta di verde.

Il verde dell’erba dei campi di Wimbledon è lo stesso della copertina dell’autobiografia del tennista Arthur Ashe. Il pubblico muove lo sguardo da destra a sinistra a ritmo del passaggio di microfono tra i due protagonisti del momento, così come si fa guardando la palla gialla colpita da una parte all’altra del campo.

Da una parte c’è Mauro Berruto, ex allenatore della Nazionale italiana di pallavolo, oggi amministratore delegato della Scuola Holden, dall’altra c’è Giuseppe Vercelli, psicologo dello sport e della prestazione del lavoro. I due relatori si scambiano opinioni e riflessioni, prendendo spunto dal racconto della vita di uno dei più grandi tennisti della storia. Temi profondi come rovesci passanti che toccano le linee di fondo campo, alternate a letture di piccoli stralci del libro, delicati come una volèe sotto rete.

Arthur Ashe nasce a Richmond nel 1943. Nella storia americana Richmond ha una valenza particolare: fino ad 80 anni prima era ancora la capitale degli stati del sud nel momento della guerra di secessione. Frequenta l’Università di Los Angeles, UCLA, la stessa che aveva frequentato Jackie Robinson, il primo afroamericano che era riuscito a farcela nel baseball; Robinson è talmente importante nella storia degli USA che nel giorno del suo esordio, ogni anno i giocatori della Major League indossano la maglia con il suo numero per ricordarlo.

Ashe inizia ad attirare l’attenzione degli appassionati di tennis dopo aver vinto un premio tennistico a UCLA nel 1963; nello stesso anno diventa il primo afroamericano ad essere selezionato per giocare nella squadra statunitense in Coppa Davis. Nel 1965 Ashe vince il titolo individuale NCAA e dà un importante contributo alla vittoria di UCLA del titolo a squadre NCAA. Con questa carriera universitaria costellata di successi, Ashe riesce facilmente ad essere considerato uno dei migliori giocatori dell’intero panorama mondiale, grazie anche al suo passaggio tra i professionisti nel 1969.

Nel 1975 a Wimbledon il favorito è Jimmy Connors. È la partita più importante della carriera di Ashe che, dopo i successi universitari, vive un periodo di declino e il suo tennis sembra essere poco efficace. All’epoca Connors è considerato il tennista più forte al mondo. Praticamente invincibile. La finale sarebbe dovuta essere un massacro, con Ashe nel ruolo dell’agnello sacrificale. Connors ha un tennis completamente opposto a quello di Ashe. Ha una forza fisica fuori dal comune, con un dritto e un rovescio che non perdonano. Più violenta gli arriva la palla, più lui te la restituisce, aumentando potenza e precisione.

Ashe prepara la partita parlando al telefono con diversi amici di tattica e strategia e, giocando una partita di scacchi più che di tennis, l’intelligenza sportiva avrà la meglio sulla forza. Ashe abbassa i ritmi della partita, mette la prima di servizio sempre dentro, ma lenta e centrale, riduce la velocità degli scambi e gioca palle smorzate e precise che sorprendono Connors. “Low and slow” direbbero gli americani.

La seconda parte della strategia di Ashe è sfruttare ogni secondo di tregua nei cambi di campo, per chiudersi in uno stato di meditazione sportiva, mentre alle sue spalle Connors litiga con il pubblico. Così Ashe diventa il primo atleta di colore a vincere Wimbledon.

Nel 1979 Ashe ebbe il suo primo infarto, nel 1983 il secondo, ma la battaglia più difficile iniziò nel 1988 quando scoprì di aver contratto il virus dell’HIV per una trasfusione di sangue infetto subita durante una delle due operazione al cuore.

In quel momento storico l’associazione dell’AIDS all’omosessualità è davvero scontata ed Ashe è un uomo che ha un profondo legame con la sua reputazione, che in quel momento subisce duri colpi. Il libro si apre proprio con il tema dell’outing e della reputazione.

Se la reputazione è un valore che si possiede, fra tutte le cose che ho è la cosa che conta di più. Niente le si avvicina per importanza. Talvolta mi sono chiesto se non le dessi troppo peso, ma non tener conto di quello che la gente pensa, mi sarebbe tanto difficile quanto smettere di respirare. Qualsiasi cosa faccia, dovunque mi trovi e in qualunque momento, sento sempre gli occhi degli altri su di me e il loro giudizio.

Così Ashe inizia una nuova vita, mettendo i suoi valori morali davanti al suo valore tecnico. Diventa ambasciatore di un senso più profondo, non del gioco, ma della vita stessa. La vittoria più bella, fra le tante guadagnate fuori dal campo, la ottiene quando dopo decenni di galera Nelson Mandela fu liberato, e a chi gli chiedeva chi fosse la prima persona che desiderasse incontrare, rispose senza esitare: “Arthur Ashe”.

Arthur Ashe incontra Nelson Mandela

“Ringrazio Dio per aver vissuto abbastanza a lungo da vedere Nelson Mandela venire negli Stati Uniti ed essere accolto con una parata in suo onore. Di rado sono stato così fiero dell’America e dei miei compatrioti come quando ho assistito all’accoglienza da eroe che gli riservammo. Il successo della parata fu un segno chiaro e gratificante del fatto che molte persone, nere e bianche, ricche e povere, riconoscevano il suo sacrificio e acclamavano la capacità quasi sovraumana che aveva dimostrato nel conservare la propria dignità, l’umorismo e un inesauribile senso morale durante quasi trent’anni di prigionia. (…) È diventato uno dei miei eroi ben prima che lo conoscessi e incontrarlo fu una grande emozione.”

La lotta per l’istruzione dei neri americani, le battaglie contro l’apartheid e contro ogni forma di discriminazione ne fanno un simbolo di libertà.

Arthur Ashe è uno sportivo diverso dagli altri. Fin da giovane ha una passione smisurata per i libri e per l’arte. Finite le scuole superiori con un’ottima media, aveva pensato di fare l’insegnante, preferendo UCLA ad Harvard. Nel periodo dopo il suo ritiro dai campi da tennis, ricevette vari dottorati ad honorem, Princeton nel 1982 per esempio, e tenne diverse lezioni, la più famosa a Yale l’anno successivo.

Ashe ripeteva spesso che la comunità nera preferiva crescere ragazzi che diventassero eroi dello sport, ma la cosa più importante era garantire loro un’istruzione giusta.

Ma la vita di Ashe è angosciata da moti interiori e tormenti, perché le critiche verso di lui arrivarono anche dalla comunità nera.

Ashe morirà poche settimane dopo aver concluso l’immenso lavoro per le sue memorie, afflitto dalle complicazioni dell’AIDS, il 6 febbraio del 1993.

L’ultimo capitolo del libro è la lettera di Ashe a sua figlia, dove l’uomo sostituisce il campione e rivela, se ancora servissero dimostrazioni, la sua umanità.

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Andrea Costantino Levote
Virgola

Giornalista, scrittore e storyteller. Il giorno studio reporting alla Scuola Holden, scrivo di sport e leggo; la sera alleno una squadra di calcio.