E se la fantasia anticipasse la realtà?

Benedetta Petroni
Virgola
Published in
4 min readSep 30, 2017

Che succede dopo la Banda della Magliana? Come è cambiata la criminalità romana? Il giornalista Carlo Bonini con il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo provano ad immaginarlo nel romanzo “Suburra”. Il romanzo, edito da Einaudi, è uscito nelle librerie nel 2013 e racconta l’evoluzione della criminalità nella capitale attraverso le storie del Samurai, del tenente Marco Malastesta, dell’onorevole Malgradi e del personaggio soprannominato Numero Otto. Due bande si scontrano, una vecchia e una nuova, ed entrambe non vogliono altro che gestire gli affari della capitale.

Bonini scrive il romanzo con De Cataldo, autore di ”Romanzo criminale”, provando a quattro mani a raccontare la mafia a Roma. Il termine “Mafia” può essere usato solo dopo gli arresti del 2014, prima di allora si credeva che a Roma la mafia non esistesse, come racconta lo stesso Bonini in un’intervista.

I due autori creano il personaggio del Samurai ispirandosi a Massimo Carminati, partecipante della banda della Magliana e successivamente arrestato nel dicembre 2014, nell’inchiesta Mafia Capitale.

Il romanzo anticipa, con strabiliante precisione, di un anno molte cose che a Roma si sarebbero verificate, lasciando sorpresi gli stessi autori. Ad esempio, nella casa di Carminati verrà trovato un “katana”, la spada rituale dei samurai, uguale a quella descritta nel romanzo. Altra cosa simile è il luogo di ritrovo dei gruppi, un distributore di benzina, posto che permette alla banda di non essere considerata tale, in caso di processo. Una banda che non ha una sede non è una banda.

L’idea venne, come racconta De Cataldo, ispirandosi alla vicenda della Magliana, infatti questo è il ragionamento che fecero i giudici in sede processuale, e dato che Carminati faceva parte del gruppo qualcosa doveva averla imparata.

Ecco, dunque, che da un attento esame della realtà si può addirittura arrivare a prevederla. “Suburra”, proprio grazie a quest’attenzione si può quasi arrivare a definirlo come “romanzo profetico” e dimostra che tante cose si potrebbero evitare, o smascherare con molto anticipo, se solo ci fosse da parte di chi dovrebbe una maggiore attenzione alla realtà.

Copertina del romanzo

Carlo Bonini attualmente collabora con “ la Repubblica” e si occupato prevalentemente di cronaca giudiziaria, di giornalismo d’inchiesta ed è, attualmente, inviato e editorialista per quotidiano romano. Ha pubblicato anche vari libri tra cui: “ACAB all cops are bastard”, “La notte di Roma”, la biografia di Renato Valanzasca e l’ultimo “il corpo del reato”.

In un’intervista alla domanda sul perché dopo la prima Tangentopoli le cose in Italia non sono cambiate, Bonini risponde in questo modo, dando la colpa alla sovrapposizione del piano pubblico e del piano giudiziario:

“Il lavoro d’inchiesta in Italia c’è stato, il problema è che ha fatto comodo a una parte del Paese e a una parte alla classe dirigente del Paese, spostare il piano della responsabilità pubblica, quello che l’inchiesta giornalistica denuncia o svela, sull’accertamento dei fatti sul piano penale. In questi vent’anni la frase più ricorrente, davanti alle denunce della stampa, è stata “Ma io non sono indagato, io non ho ricevuto avvisi di garanzia”. C’è l’idea che il dibattito pubblico debba seguire i tempi e i modi del processo penale. Ma la responsabilità penale è una cosa, la responsabilità pubblica è un’altra. Il lavoro di svelamento giornalistico è stato schiacciato su un piano giudiziario penale e questo ha portato alla caduta del vuoto del lavoro di denuncia dei giornali.”

Questo è il ruolo difficile del giornalismo d’inchiesta: seguire il passo della magistratura, senza anticiparla e senza saltare a conclusioni affrettate, ma continuando a svolgere un ruolo di denuncia autonomo. L’autonomia è fondamentale, altrimenti che senso avrebbe il lavoro del giornalista d’inchiesta? Sarebbe più comodo seguire solamente l’inchiesta giudiziaria, se non fosse per il fatto che spesso la verità esposta da quest’ultima non coincida con la verità reale. Ecco che la coesistenza di entrambi si rivela fondamentale.

Il compito del giornalista non è pretendere di raccontare a tutti i costi la verità, che è un concetto difficile e spaventoso, ma il suo dovere è non censurare e non piegare i fatti alle proprie convinzioni. Deve avere la forza e il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, che può sembrare una banalità invece in un Paese come il nostro può diventare rivoluzionario.

La cultura della post verità, post fattuale, ha come presupposto l’arretramento, la timidezza del giornalismo timido rispetto a chiamare le cose con il loro nome e questo, con il tempo, ha portato alla cultura delle fake news, dove i fatti non vengono più considerati come tali ma sono delle opinioni, punti di vista e allora tutto diventa possibile”.

Dare il nome giusto alle cose, ecco l’idea di giornalismo di Carlo Bonini, che unisce alla sua particolare attenzione per la realtà. Nomi giusti, esatti, che portino a un giornalismo di qualità, dove non sono ammessi giri di parole. Questo dovrebbe essere l’idea che tutti dovremmo tenere a mente, chi va tutte le mattine in edicola e chi scrive, ma soprattutto chi vuole fare questo mestiere, soprattutto io che sto studiando per farlo.

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