GIOANBRERAFUCARLO

Andrea Costantino Levote
Virgola
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5 min readSep 29, 2017

Il giornalista che inventò il linguaggio del calcio.

“Gianni siamo forti!”

“Dietro ai forti ci cagano i soldati!”

È appena finito il Mondiale del 1982, l’Italia si è laureata campione del mondo. Bearzot è riuscito a ricomporre il Paese grazie ad una grande nazionale in cui non ha mai smesso di credere. Il punto è che ci credeva solo lui però. Alla fine, l’Italia divisa tra le Brigate Rosse, il terrorismo e i rapimenti, riesce a vedere qualcosa guardandosi allo specchio frammentato dell’identità nazionale.

C’è tutto questo in quel “Gianni siamo forti!” pronunciato da un doganiere al confine con la Svizzera, che non trova parole migliori quando incrocia Gianni Brera sulla sua strada. La risposta è una storia a sè. Brera è così. È uno che sceglie una posizione e si arrocca nel forte ideologico delle sue idee, soprattutto il Brera di quel periodo.

Lo ha imparato durante la Resistenza. Brera è un antifascista che gioca a fare il comunista raccontando una povertà da cui vuole scappare, ma che vede solo lui. Avrà anche un’esperienza politica con i socialisti, ma non sarà mai eletto. Ma nell’antifascismo ci crede davvero. Con il fratello ha anche partecipato ad un’azione armata alla stazione di Milano, dove dopo aver catturato un tedesco, si schiera per lasciarlo in vita.

È un guerriero del difensivismo calcistico all’italiana, dello sport conseguenza dell’antropologia.

Inizia alla rosea con l’atletica, quando Bruno Roghi rifonda la Gazzetta dello Sport dando fiducia a quattro giovani che un paio di pagine di giornalismo le scriveranno: Mario Fossati, Luigi Gianoli, Giorgio Fattori e ultimo ma non ultimo Brera. Per Gianni l’atletica è una scoperta. Uno sport nuovo che lo costringe allo studio. Sotto le sue mani passano diversi libri di medicina e li usa al meglio, studiando i meccanismi neuro-muscolari e psicologici del corpo, che uniti alla sua capacità di destreggiarsi nella lingua, creano racconti di passione e trasporto. Dalla conoscenza all’amore il passo è breve. Scopre Adolfo Consolini, un discobolo italiano, vincitore di un oro olimpico a Londra ’48 e detentore del record italiano per 17 anni. Gianni lo segue in Svezia, in quella trasferta scandinava va in nave da Stoccolma a Turku (Finlandia) sul Baltico. A bordo trova il mitico Paavo Nurmi. Cerca di intervistarlo. Nurmi, però, parla solo finlandese. Brera tra i passeggeri trova il banchiere Toivo Aro, che sa il latino. Così intervista Nurmi, sfruttando il banchiere come interprete, in latino su temi d’attualità. Un pezzo incredibile e fuori da ogni legge del tempo. “Quid cogitat Paavus de Haegi et Andersonii dequalificatione?”. Che cosa pensa della squalifica di Haegg e Andersson?. E poi: “Quod dequalificatus est Paavus ante losangelensem Olympiadem?”. Perché è stato squalificato prima dei Giochi di Los Angeles?. La risposta è degna di Cesare: “Error fuit”.

Un uomo così non passa inosservato. A 30 anni è condirettore della Gazzetta. Nel frattempo si è occupato anche della cronaca di diverse partite, ha illuminato le pagine con qualche parola nuova, che tirava fuori dalla sua conoscenza lessicale infinita e appoggiava in una frase e poi nell’altra, fino a trovare le misure perfette di ogni periodo.

“Nessuno, neanche all’estero, sa raccontare una partita come Gianni Brera”

Mario Fossati

Inutile dire che lo stile di Brera è unico. Usa una lingua che ha praticamente inventato lui. Ha impastato il dialetto, il latino, il lombardo, la trascrizione del parlato. È un cantore dello sport. Ci sono eroi e antieroi nelle sue storie, che più che nomi e cognomi, vivono con nomi da battaglia. Rivera fu ribattezzato “Abatino”, RivaRombo di tuono”, Altafini “Conileone”, Boninsegna “Bonimba”, Causio “Barone”, OrialiPiper” (e quando giocava male “Gazzosino”), Pulici “Puliciclone”, e così via.

Un mondo epico e sportivo raccontato con la letteratura, la sua, guidata dalla musa ispiratrice Eupalla, che di quel mondo ne governa gli avvenimenti.

Brera fu un uomo tanto utile allo sport quanto all’Italia. Patrimonio culturale. Penna straordinaria. Un uomo, una pipa, perché vivere senza fumare é come dormire e non sognare, due dita di whisky, un bicchiere di vino, che di solito sceglie con scrupolosa attenzione, cibo padano ma cucinato come si deve, non francese grazie, e l’Olivetti su cui picchietta freneticamente, perchè i ritmi del giornalismo ti mangiano le giornate.

È un critico. A tavola e sul campo da calcio.

Brera é unico anche perchè scioglie i nodi delle partite. La sua non è una cronaca senza vita, meccanica. Lega gli eventi con nessi causa-effetto. È tagliente, intuitivo e arrogante. Capace di guidare l’egemonia culturale del dibattito sportivo in Italia, segnando una generazione di narratori dopo di lui, dall’allievo Gianni Mura allo storyteller Federico Buffa, che a sette anni legge gli articoli di Giuan fu Carlo insieme al padre.

Ho già scritto e ribadisco che darei molto della mia vicenda giornalistica per aver scritto cinque righe come le sue. […] Era bravo, anzi bravissimo, anzi straordinario a scrivere, a raccontare. Noi vedevamo la partita con i nostri occhi, però poi andavamo a leggere come l’aveva vista e raccontata lui.”

Gian Paolo Ormezzano, I cantaglorie.

Se è vero che gli inglesi hanno inventato il gioco e che gli argentini hanno inventato l’amore per il gioco, Gianni Brera ha inventato il linguaggio del gioco. “Contropiede”, “catenaccio”, “centrocampista”, portano la sua firma e potrei continuare, ma non scriverei più un articolo ma un vocabolario da stampare per ogni giornalista sportivo.

Riesce a scrivere della meraviglia calcistica che gli ha procurato Pelè tra i versi di Leopardi. Per lui la partita perfetta deve finire 0 a 0 e il gol è solo un errore. Odia il WM il sistema di gioco degli inglesi. Non sopporta davvero nè Sacchi nè quegli olandesi che hanno sdoganato il difensivismo e giocano un calcio così spregiudicato. L’intervista che Gianni Minà gli organizza con Nereo Rocco, amico e compagno d’ideologia calcistica, è storia. Discussioni sul calcio con un paio di bottiglie di vino di casa Rocco; un danno economico notevole per la cantina di Rocco immagino.

Intervista di Gianni Brera a Nereo Rocco

Con Bearzot non si trova bene ma il giorno di quel 1982 in cui Nando Martellini ha urlato agli italiani “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”, Brera sta scrivendo “Io Triumphe, avventurata Italia”, un altro di quei pezzi da tenere in archivio.

Quella Italia di Bearzot e quel Brera unirono davvero un popolo frammentato. Per i lettori era una guida, per i colleghi un bastardo che scriveva meravigliosamente, per gli amici un generoso.

Se ne andò un giovedì sera, incidente stradale. Tornava da una delle sue famose cene del giovedì, quando invitava gli amici più cari e allontanava lo spettro della povertà in cui era cresciuto spendendo molto, se non tutto, di quello che guadagnava. In questo era molto argentino, guadagnava molto e spendeva di più. I suoi lettori divennero per sempre i senzabrera, perchè un talento del genere non lo sostituisci facilmente.

Nelle sue vacanze scriveva libri, perché alla fine lo sapeva che per uno come lui lo sport era una limitazione, anche se ti da la possibilità di sfogliare tutte le sfaccettature umane. Si vantava di averle scritte con la mano sinistra quelle opere, ma non ci credeva davvero.

Gianni Brera: uno scrittore prestato al giornalismo, un giornalista prestato alla scrittura, l’uomo che insegnò all’Italia la lingua dello sport.

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Andrea Costantino Levote
Virgola
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Giornalista, scrittore e storyteller. Il giorno studio reporting alla Scuola Holden, scrivo di sport e leggo; la sera alleno una squadra di calcio.