Gli ottanta giorni della Estrellada

Elisa Tasca
Virgola
Published in
7 min readNov 21, 2017

Cronaca di un’indipendenza congelata

Credits: The Nutcrack

È il 27 ottobre. Durante una votazione a scrutinio segreto, la Generalitat ha approvato la dichiarazione d’indipendenza della Catalogna. Nelle città di Girona e Sabadell i manifestanti indipendentisti si riuniscono davanti ai municipi delle città e assistono, applaudendo e gioendo, alla rimozione della bandiera spagnola dall’edificio comunale. Lo slogan ripetuto all’unisono dalla folla è chiaro: “Fuera, fuera, fuera la bandera española”.

Tutto ha avuto inizio con l’approvazione da parte del Parlamento catalano della Ley del referendum de autodeterminación de Cataluña il 6 settembre scorso. In un emiciclo semi-deserto (PSC, PP e C’s hanno abbandonato l’aula) 72 voti di Junts pel Sí e di Candidatura d’Unitat Popular (le maggiori forze indipendentiste) sono bastati per emanare la normativa, che rappresentava un passo in avanti verso l’indipendenza catalana:

“Questa legge regola la celebrazione del referendum vincolante di autodeterminazione sull’indipendenza della Catalogna, le conseguenze derivanti dal risultato del referendum e la creazione del sindacato elettorale della Catalogna. (…) Il popolo della Catalogna è un soggetto politico sovrano e, come tale, esercita il diritto di decidere liberamente e democraticamente la sua condizione politica”.

La legge prevedeva la celebrazione del referendum per l’indipendenza il 1 ottobre. Il giorno seguente la sua approvazione però, il Tribunale Costituzionale spagnolo ha sospeso cautelarmente la legge, dichiarata poi incostituzionale il 17 ottobre, con l’accusa di aver invaso le competenze statali e aver violato i principi costituzionali, l’indissolubile unità dello Stato e la sovranità nazionale.

A questo punto la tensione ha iniziato ad aumentare. Fin dall’inizio, il Presidente del Governo Mariano Rajoy si è dimostrato fermo nelle sue decisioni: il referendum non deve celebrarsi perché viola la Costituzione. Il Presidente della Generalitat Carles Puidgemont si è mostrato invece molto più tentennante, conscio delle possibili conseguenze nel caso in cui avesse proceduto con il referendum.

Madrid e Barcellona hanno continuato a tirare la corda per molto, troppo tempo, e alla fine, il primo ottobre scorso, si è spezzata.

Il referendum si è celebrato in un caos assoluto. Chiunque poteva votare in qualsiasi seggio stampando la propria scheda a casa. I Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, avevano ricevuto l’ordine da un tribunale spagnolo di intervenire e di chiudere tutti i seggi attivi già alle 6 di mattina. Allo stesso tempo però, la Generalitat aveva vietato agli agenti di usare la forza: i Mossos quindi non sono intervenuti, limitandosi a constatare che c’erano già troppi elettori. Molti scrutatori e votanti infatti, avevano trascorso la notte nei seggi, per evitare che la Guardia Civil sequestrasse schede e urne.

Gli unici a intervenire sono stati gli agenti della Guardia Civil e della polizia spagnola. Poco prima delle 9, in assetto antisommossa, sono entrati nei seggi sfondando porte, spintonando gli elettori, manganellando i manifestanti che rispondevano lanciando oggetti di ogni tipo. La violenza era in atto. Ma non è servita a molto, anzi. Le urne sequestrate dalla polizia sono state una minima parte di quelle esistenti e la violenza perpetrata ai danni degli elettori in fila da ore per votare ha convinto anche gli indecisi, che si sono recati alle urne in segno di protesta contro le violenze del governo.

Quando le operazioni di voto si sono concluse, i dati parlavano chiaro.

Credits: La Vanguardia

Il post referendum

I fatti successivi al referendum sono ancora più confusi. Entro 48 ore dalla proclamazione dei risultati, la Generalitat avrebbe dovuto dichiarare l’indipendenza della Catalogna. Tuttavia gli stessi leader separatisti erano consapevoli che una dichiarazione unilaterale non avrebbe garantito alla comunità autonoma lo status di paese indipendente e sovrano.

L’indecisione regnava in attesa di una formale dichiarazione che tardava ad arrivare. Nel mentre, si sono susseguite giornate di sciopero e di protesta contro il governo centrale, che hanno visto scontrarsi separatisti e unionisti nelle vie del capoluogo catalano. Anche la reazione del Re Felipe VI è arrivata qualche giorno dopo:

“La Generalitat ha proclamato illegalmente l’indipendenza della Catalogna, ha violato tutti i principi dello Stato di diritto, ha indebolito la convivenza e l’armonia nella società catalana, che si ritrova ora fratturata, divisa. Ha disprezzato il sentimento di solidarietà che contraddistingue il popolo spagnolo, mettendo a rischio la stabilità economica e politica dell’intero paese. Ha intrapreso un inaccettabile tentativo di appropriazione delle istituzioni storiche della Catalogna, ponendosi ai margini dei principi democratici e disgregando la sovranità nazionale”.

Una presa di posizione decisa, senza alcuna denuncia verso l’eccessivo uso della forza della polizia spagnola, che ha suscitato non poche critiche. La situazione di stallo però si è finalmente sbloccata il 10 ottobre, quando Puidgemont si è rivolto al popolo catalano, con un messaggio non molto chiaro:

“Prendiamo atto dei risultati del referendum davanti a tutti voi e ai nostri cittadini. Il volere del popolo è quello che la Catalogna sia una Repubblica indipendente. Con la stessa solennità io e il governo catalano proponiamo al Parlamento di sospendere gli effetti della dichiarazione di indipendenza per permettere che si intraprenda un dialogo nelle prossime settimane”.

Al termine del suo discorso, il dubbio è sorto a tutti: la Catalogna è indipendente? Non l’aveva capito nessuno, nemmeno il governo, che ha dovuto chiedere conferma a Puidgemont: un chiarimento necessario per applicare l’ormai famoso articolo 155 della Costituzione. La risposta è arrivata il 27 ottobre quando El Parlament ha approvato la risoluzione che prevedeva la costituzione della Repubblica catalana come uno Stato indipendente e sovrano, di diritto, democratico e sociale. Interpretandola come una dichiarazione d’indipendenza, il senato spagnolo ha applicato immediatamente l’articolo 155, disponendo la destituzione del governo catalano, del maggiore dei Mossos, dei delegati dell’esecutivo a Bruxelles e a Madrid, e lo scioglimento del Parlamento.

Rajoy, consapevole del fatto che questa misura estrema (e finora mai applicata) avrebbe creato una frattura insanabile tra Madrid e Barcellona, ha giocato d’astuzia usando un asso nella manica: le elezioni anticipate. Ha scelto la via del compromesso, mandando un messaggio di distensione nel momento più cruciale della storia della Spagna contemporanea.

Credits: eldiario.es

Come prevedibile però, sono stati disposti gli arresti: i primi a finire in manette con l’accusa di sedizione sono stati Jordi Sachez (di ANC) e Jordi Cuixart (di Omnium), leader di due organizzazioni indipendentiste catalane. Con le stesse accuse sono state predisposte delle misure cautelari per Josep Trapero, capo dei Mossos. Nelle maglie dell’Audiencia Nacional è finito poi l’intero governo della Generalitat: l’ex vicepresidente Oriol Junqueras e altri sette ministri sono stati arrestati. Per Puidgemont e altri quattro ex ministri è scattato il mandato di arresto europeo durante la loro trasferta in Belgio (per incontrare i leader dei partiti indipendentisti fiamminghi) che ha assunto più i toni di una fuga. I cinque si sono costituiti presso un commissariato a Bruxelles, dove sono stati interrogati e infine rilasciati.

Anche per la Presidente del Parlamento catalano Carme Forcadell è stato disposto l’arresto ma, in seguito al pagamento della cauzione, è stata rilasciata. Le accuse sono le stesse per tutti: ribellione, sedizione e appropriazione indebita.

Il catalanismo ieri e oggi

La rivendicazione catalana non è così recente come si pensa: ha radici storico-politiche, culturali, economiche.

Nel corso degli anni, il catalanismo è sempre stato ostacolato con più o meno intransigenza dal governo centrale. Uno degli eventi scatenanti riguarda la riforma dello Statuto di Autonomia catalano. Siamo nel 2003 e il governo socialista a capo della Generalitat aveva riformato lo Statuto, introducendo delle disposizioni innovative: la definizione della Catalogna come nazione, l’obbligatorietà della conoscenza della lingua catalana e l’ampliamento delle competenze in materia finanziaria, con l’obiettivo di raggiungere il regime di piena autonomia fiscale concesso ai Paesi Baschi. Sottoposto alla votazione del Congresso (che lo modificò in molti punti) e al referendum popolare, lo Statuto venne approvato nel 2006. Tuttavia, il governo guidato dal PP fece ricorso al Tribunale Costituzionale che adottò una decisione senza precedenti: mantenne le disposizioni approvate dal referendum, ma le svuotò di valore normativo, affermando che “mancavano di efficacia giuridica i riferimenti del Preambolo dello Statuto della Catalogna alla Catalogna come nazione e alla realtà nazionale catalana”. I catalani considerarono questa decisione una vera e propria umiliazione e più di un milione di persone scesero in piazza il 10 luglio 2010 con lo slogan Som una nació. Nosaltres decidim.

Oltre agli aspetti politici, la questione linguistica e quella economica sono cruciali. La Legge di Normalizzazione Linguistica (1983) e alcune disposizioni dello Statuto di Autonomia (2006) stabilivano che il catalano fosse la lingua obbligatoria in Catalogna (alla pari del castigliano per gli spagnoli), sia in ambito scolastico, sia negli uffici amministrativi. Il Tribunale Costituzionale però non accettò queste condizioni e impose il castigliano come idioma ufficiale. Per molti catalani questo fu un vero e proprio tentativo di ispanizzare la cultura catalana, tanto che definirono coloniali le condizioni imposte dallo Stato. In ambito economico, i numerosi e vani tentativi del governo catalano di negoziare con Madrid un regime fiscale migliore (come quello vigente nei Paesi Baschi e in Navarra) e la mancanza di equità nella redistribuzione dei tributi, hanno portato ad una frustrazione generale sintetizzabile in uno degli slogan preferiti dagli indipendentisti: España nos roba.

In vista del 21-D

Le elezioni del 21 dicembre apriranno una nuova stagione politica: da una parte gli indipendentisti avranno la possibilità di creare un unico polo unito dalla richiesta d’indipendenza, dall’altra gli unionisti potranno ribaltare la situazione. Per ora si stanno formando le coalizioni e si stanno candidando i partiti che correranno alla tornata elettorale. A poco più di un mese dalle elezioni, iniziano a delinearsi i primi possibili scenari.

Credits: El País

Nel frattempo Puidgemont ha annunciato la creazione di una “struttura stabile”, un governo in esilio che opererà dal Belgio al fine di “coordinare le azioni del Govern volte a conseguire la vittoria alle elezioni e la liberazione dei detenuti politici”.

La strategia di Rajoy di celebrare le elezioni potrebbe però rivelarsi un’arma a doppio taglio: se da un lato l’applicazione dell’articolo 155 permette di mantenere stabile una situazione ormai giunta al limite, dall’altro i suoi effetti termineranno con la celebrazione delle nuove elezioni. E qualunque sia il risultato, il potere dovrà tornare alla Generalitat. Che a Madrid piaccia o no.

--

--