Harraga, storie di viaggi sporchi e maleodoranti

Elisa Bellino
Virgola
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5 min readMay 23, 2017

Giulio Piscitelli per raccontare il suo book fotografico “Harraga” dice di essere di parte. Dopo oggi credo di esserlo anch’io.

[Shoora è una donna sudanese di 28 anni. Vive in Libia in una palazzina diroccata dove lavora come badante, in attesa di guadagnare il denaro sufficiente per ritentare la traversata mediterranea. Un paio di anni fa tentò di raggiungere l’Italia clandestinamente, ma la barca, con centinaia di corpi ammassati a bordo, è stata intercettata dalla guarda costiera libica. Shoora è stata ripetutamente violentata sotto gli occhi del marito dai contrabbandieri prima del grande giorno; la bambina è nata durante questo primo tentativo d’imbarco. Appena riportate sulla terra ferma, le forze di sicurezza libiche hanno trattenuto madre e neonata per mesi nel carcere per immigrati clandestini di Abu Salim. “Mia figlia è un dono di Dio, ma qui non sappiamo come sopravvivere”. Shoora legge un libro in attesa di qualcosa, o forse in attesa e basta. La bambina ai suoi piedi sorride].

Shoora, 28 anni, senegalese

Una ragazza si lascia accarezzare dal vento sulla cima di un libro rosso, che scavalca senza piegarsi un muro di pietra fortificato dal filo spinato. Dall’altro lato della muraglia una landa verdeggiante l’attende. Questa è l’immagine dell’edizione numero trenta del Salone internazionale del Libro di Torino. Certamente una rappresentazione che non stupisce, ma allo stesso tempo neanche colpisce. Abbiamo posto, nel corso degli anni, una semplice ideologia umana di confine a discapito della cultura, ignorando che quest’ultima è il solo passaporto internazionale capace di unire anziché dividere.

Oltre il confine”, così battezza Nicola Lagioia, il direttore, l’evento torinese dell’anno.

Il mio Salone ha rappresentato un andare oltre agli stereotipi e preconcetti. Sono stati quattro giorni sporchi e maleodoranti, dove ho tentato in prima persona di oltrepassare quel confine, analizzando e scavando a fondo ciò che mi suggeriva la superficie.

Si è parlato di immigrazione, abbiamo ascoltato storie di accoglienza e inclusione, di frontiere come luoghi di nessuno, di Lampedusa e Lesbo, crocevia dell’umanità, ma anche della Jihad, dei califfati dell’Isis…Ma è un evento che voglio raccontarvi, un evento in sala rossa a cui ho assistito sedendomi a terra accanto alle casse, a seguito di un’interminabile fila di occhi stanchi e sudore.

Giulio Piscitelli è un photoreporter napoletano che non conoscevo, empatico nella sua semplicità e visibile stanchezza; avrei potuto tranquillamente innamorarmi di lui dopo la prima fotografia mostrata al display.

Il giornalista, da più di sette anni a questa parte, ha fatto una scelta da cui deriva la mia totale ammirazione. Ha scelto di sporcarsi le mani cercando il cuore di un fenomeno variegato dalle mille sfaccettature. Ha deciso di oltrepassare il confine della semplice news mediatica per poter offrire più punti di vista possibili del fenomeno migratorio.

Nel suo libro “Harraga” troviamo corpi in movimento ma anche in attesa, desideri, speranze e sogni di bambini. Persone che intendono bruciare le frontiere per poter ottenere un futuro che meritano. Ci sono sguardi, capelli al vento e oggetti abbandonati sulla sabbia.

Assistiamo ogni giorno a grappoli di corpi che perdono la vita diventando una semplice macchietta nera nel nostro Mediterraneo. Questi decessi infiniti vengono semplificati dai media con la dicitura “200 corpi recuperati”, riducendo la morte ad un semplice numero.

Lavoratori stagionali africani lavorano clandestinamente vivendo in condizioni disumane.

E’ questo che manca all’Europa, l’umanità di poter distinguere una cifra da un essere umano, che possiede un volto, un colore un odore e una personalità simile o totalmente differente dalla nostra.

Il problema dell’Europa, così come dice Piscitelli, non è tanto l’accoglienza e l’integrazione, quanto un’erronea interpretazione del fenomeno. Tendiamo a identificare i flussi migratori come un processo statico senza una visione d’insieme. Non si tratta unicamente di sfollati che invadono le nostre preziose coste; a monte ci sono società totalmente distrutte, popolazioni allo sbando, guerre e guerriglie di ogni tipo che violano ogni diritto umano. E noi occidentali, mondo globalizzato, non possiamo chiudere un occhio su questi dettagli, e focalizzarci unicamente su un’invasione sporca e maleodorante. Non è lecito lavarsi le coscienze e uccidere innocenti a grappoli, facendo esplodere case e territori che non ci appartengono, con la scusa del “male maggiore”. La verità è che l’immigrazione è un processo intenso e complesso, nato a seguito di una serie di sfaceli che si sono perpetrati negli ultimi quattro/cinquecento anni. Prima o poi avremmo dovuto pagarne il pegno.

Melilla, Spagna 2014. Immigrati subsahariani tentano di scavalcare la rete di confine tra Spagna e Marocco.

Giulio Piscitelli racconta sette anni del suo lavoro racchiusi in “Harraga” , ammettendo di aver sentito la necessità di avvicinarsi a questi uomini, il desiderio di conoscerli, uno per uno, distinguerli dal colore dei capelli o dal timbro della voce. Voleva poterli chiamare per nome.

Per questo, anche, ha deciso di imbarcarsi con loro. Per poter vivere con il proprio corpo la realtà dei traffici umani, dei contrabbandieri, della violenza e anche della gioia di essere salvi insieme.

“Harraga” racconta un fenomeno non gestito se non innalzando barriere e costruendo muri.

Si parla di viaggi di aspettative e di speranza, che sono l’estrema antitesi del mondo moderno che scorre liquido sempre più veloce.

Quale modo migliore per cogliere la noia e la frustrazione derivate da tempi di attesa apocalittici, se non la fotografia accompagnata dalla parola?

“Harraga” è questo, e molto altro. E’ una storia di scoperte, amicizie e sorrisi; di violenze mai denunciate, stupri e barbarie di ogni tipo. E’ un racconto fotografico sporco e maleodorante, come solo la miseria umana sa essere. Ma è anche la narrazione di un popolo che non si arrende e ricerca, dopo alla sopravvivenza, una normalità rassicurante.

Hassan, 32 anni, senegalese

[E’ la vita di Hassan, un omone gigantesco grande quanto un armadio a quattro ante, che vive in Libia come clandestino da ormai un paio di anni. Il sudanese di 32 anni manda avanti l’alimentari di un campo profughi, con il sorriso e la speranza di chi non non si vuole arrendere mai. Ha una figlia di pochi mesi nata probabilmente da ripetute violenze subite dalla moglie. M lui preferisce non chiederselo: “Mia figlia è un dono di Dio, ma qui non sappiamo come sopravvivere”. Aspetta di guadagnare il denaro sufficiente per poter raggiungere l’Italia, insieme alla sua famiglia. Fuma sigarette in attesa di qualcosa, con speranza, guardando oltre al confine, in attesa d’imbarcarsi con sua moglie Shoora e la loro piccola].

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Elisa Bellino
Virgola
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Visual designer, storyteller, creative. (Believer of stupid things).