Il giornalismo secondo Giuseppe D’Avanzo

Francesca
Virgola
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8 min readSep 25, 2017

Breve ricostruzione delle inchieste del cronista napoletano

Giuseppe D’Avanzo

Ancora oggi, qualcuno fa confusione tra il rugby e il football americano. Ancora oggi, qualcuno non riesce a distinguere un reportage da un’inchiesta. Ma di sicuro questo non era il caso di Giuseppe D’Avanzo, che padroneggiava con maestria sia il pallone ovale che la penna.
Forse quel giudizio sempre acuto e vivace gliel’ha fornito la laurea in filosofia o, forse, si trattava di una dote innata, che si è affinata con l’esperienza fino a diventare metodo per i suoi colleghi e lettori. La tenacia, però, l’ha imparata sul campo, a contatto con la realtà dei fatti che raccontava.
Quando mi interrogo su chi fosse D’Avanzo, sorrido ripensando a quegli aneddoti che mia mamma raccontava su di lui, su quel suo compagno di scuola così appassionato e così sgangherato. “Lo vedevo uscire dal Vittorio Emanuele sempre in compagnia di Corrado, tutti e due con i vestiti perennemente stracciati. Se le davano con i Fascisti però ridevano sempre”. Già prima di laurearsi, D’Avanzo ha cominciato a percorrere il cursus honorum del buon giornalista. Ha collaborato prima con le redazioni partenopee de La Voce della Campania e Paese Sera poi con Repubblica Napoli finché Scalfari non l’ha voluto come cronista a Roma, nella sede centrale del quotidiano. Dal 1997 al 2000 c’è stata la breve parentesi di D’Avanzo al Corriere della Sera, conclusasi con il ritorno a Repubblica in qualità di editorialista e vicedirettore.

Ripercorrere le inchieste realizzate dal cronista partenopeo, rappresenta un modo di rileggere le vicende che hanno segnato l’Italia dal 1985 al 2011. La prima è proprio quella del Rapido 904, dove D’Avanzo attribuì la responsabilità della strage di quel “Natale di sangue” al clan camorristico guidato dai Misso, che causò la morte di undici passeggeri del treno proveniente da Napoli e diretto a Milano del 23 dicembre 1984. In quell’occasione, il giornalista napoletano fu interrogato dal pubblico ministero Pier Luigi Vigna e arrestato e incarcerato per sette giorni per reticenza e falsa testimonianza, dal momento che non aveva voluto rivelare al magistrato chi gli avesse fornito le notizie sulla strage. Già all’epoca era evidente quanto fosse essenziale per lui la tutela delle fonti, tale da fargli mettere a rischio anche la libertà.

Nel 1986 è cominciato il suo lavoro sulla mafia e su Cosa Nostra, che lo ha portato a seguire da vicino Falcone, al punto tale da stringere con il magistrato un profondo rapporto d’amicizia. È stato proprio in occasione della sua morte nel 1992 che D’Avanzo, dopo aver pubblicato il pezzo “Vergogna, vergogna assassini!”, decise di allontanarsi dal giornalismo per un po’, come riporta Vittorio Zambardino nel suo libro Peppe. Giuseppe D’Avanzo come io l’ho conosciuto. Nel dicembre dello stesso anno, il giornalista, insieme a Eugenio Scalfari, riuscì ad assicurarsi uno scoop incredibile: l’intervista al boss Tommaso Buscetta, mafioso pentito, che per per la prima volta svelò alla stampa i segreti della sua organizzazione criminale e delineò il profilo di Totò Riina, che di lì a poco sarebbe stato catturato dopo una lunga latitanza. Furono proprio queste dichiarazioni che lo portarono poi a scrivere nel 1993, con Attilio Bolzoni, il libro Il capo dei capi. Vita e carriera criminale di Totò Riina.

Solo pochi anni prima, l’attenzione di D’Avanzo era stata catturata dal caso Gladio. Proprio nel 1990, il presidente del consiglio, Giulio Andreotti, rivelò per la prima volta alla Camera dei Deputati l’esistenza di un’organizzazione paramilitare clandestina, sorta in Italia nel dopoguerra e guidata, attraverso la NATO, dalla CIA. L’intento ufficiale era quello di intervenire in caso di invasione sovietica, Repubblica, però, riuscì a scoprire il coinvolgimento dell’organizzazione segreta nel tentato colpo di Stato, il celebre Piano Solo, del 1964 e la relazione tra i “gladiatori” e gli esponenti della loggia P2. Nel 1991 D’Avanzo, insieme a Giovanni Maria Bellu, firmò un articolo in cui denunciava la collaborazione tra l’organizzazione dei Servizi Segreti e la loggia di Gelli.

Il giornalista napoletano seguì anche l’inchiesta di Mani pulite e contribuì allo smascheramento di Tangentopoli attraverso l’intervista al ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, condannato poi per associazione a delinquere e corruzione elettorale. D’Avanzo lo incontrò nel novembre del 1992 e chiese all’onorevole del PLI del suo coinvolgimento nella “banda dei quattro” e delle accuse che gli erano state rivolte dalla magistratura.

Il passaggio al Corriere della Sera ha significato un salto in avanti, offrendo al cronista la possibilità di concentrarsi sulle più grandi vicende internazionali degli anni ’90: a cominciare con la guerra del Kosovo, su cui realizzò un reportage dal fronte; poi le inchieste su Boris Eltsin, presidente della Federazione Russa, sospettato di aver accettato tangenti dall’imprenditore Behgjet Pacolli; infine le indagini sul riciclaggio di denaro da parte del Fondo monetario internazionale attraverso la Bank of New York.

Nel 2000 D’Avanzo tornò a collaborare con Repubblica e approfittò dell’esperienza in Kosovo per realizzare con Carlo Bonini un’inchiesta sull’Affare Telekom Serbia. Nel 1997 Telecom Italia (controllata per il 61% dal Ministero del tesoro) acquistò il 29% della compagnia serba di telefonia fissa per 893 milioni di marchi (più di 450 milioni di euro). Nel 2003 la stessa quota venne rivenduta ai Serbi per 193 milioni di euro, una cifra irrisoria rispetto a quella di sei anni prima. D’Avanzo e Bonini spiegarono questa svalutazione di prezzo attraverso la rivelazione delle tangenti pagate da Milosevic ai funzionari italiani che aveva favorito l’acquisizione nel ’97. In seguito fu istituita una commissione parlamentare, voluta fortemente da Silvio Berlusconi, che aveva il compito di investigare su una presunta connivenza del governo Prodi, in carica al momento dei fatti. I lavori della commissione vennero intralciati dalle dichiarazioni ingannevoli di Igor Marini, che affermava di aver personalmente consegnato tangenti da parte di Milosevic nelle mani di Prodi, Fassino e Dini, a cui poi si sarebbero aggiunti anche i nomi di Veltroni, Rutelli e Mastella. D’Avanzo e Bonini hanno collaborato per smascherare le menzogne pronunciate da Marini, denunciando la realizzazione di una proto “macchina del fango”, manovrata dalla coalizione di centrodestra al potere per screditare la parte avversaria.

Negli anni successivi, i due giornalisti di Repubblica hanno continuato a scrivere insieme, occupandosi di vicende internazionali, come la successione di Vladimir Putin in qualità di secondo Presidente della Federazione Russa, dopo le dimissioni nel 1999 di Boris Eltsin, o l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, con un’attenta analisi delle conseguenze che investirono l’intelligence e la stampa americani.

Poi è stato il momento del Nigergate, nel 2005, alimentato dalla war on terror e dal conflitto scoppiato tra gli USA e l’Iraq nel 2001. A seguito dell’inizio della guerra, l’amministrazione Bush sosteneva che Saddam Hussein avesse acquisito grandi quantità di uranio grezzo (yellowcake) nel Niger, accrescendo così i sospetti sulla creazione di armi di distruzione di massa da parte del governo iracheno. Alcuni documenti diffusi dal SISMI (i servizi segreti italiani) confermarono le supposizioni della CIA e portarono gli USA e il Regno Unito a riconoscere ufficialmente la violazione dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite all’Iraq, che sarebbe entrato in possesso di materiali necessari alla costruzione di bombe nucleari. D’Avanzo e Bonini rivelarono su Repubblica la falsità delle notizie fornite dal SISMI e resero pubblico il nome di Rocco Martino, il presunto doppiogiochista che vendeva informazioni top-secret alle varie agenzie di intelligence europee, tra cui anche il dossier sul yellowcake all’MI6. Alla fine la guerra scoppiò e la faccenda della fuga di notizie si concluse in uno scarica barile generale, in cui il governo statunitense affermò di non aver mai ricevuto alcuna informazione dall’Italia e il Presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, smentì la partecipazione italiana al caso e attribuì la responsabilità della vicenda all’intelligence inglese.

Nel 2005 Bonini, D’Avanzo e Sansa realizzarono un’inchiesta sul caso del sequestro dell’imam egiziano Hassan Mustafa Osama Nasr, detto Abu Omar, avvenuto a Milano nel febbraio del 2003. All’epoca dei fatti, l’uomo venne prelevato in pieno centro città da alcuni agenti della CIA. Poi di Abu Omar se ne persero le tracce fino al ritrovamento, due anni dopo, in un carcere egiziano, dove è stato recluso e torturato. I tre giornalisti italiani denunciarono l’avvenimento su Repubblica, riconoscendo nel sequestro dell’egiziano un’operazione di rendition (un atto clandestino di cattura, deportazione e detenzione di un soggetto ritenuto sospetto), attuata dalla CIA e favorita dal SISMI, nonostante si trattasse di una violazione della nostra Costituzione. Il processo istituito poco dopo dal Tribunale di Milano portò alla condanna in contumacia nel 2009 dei ventitré agenti americani coinvolti, mentre i funzionari del SISMI vennero assolti nel 2014 per l’esistenza del segreto di Stato sull’operazione.

L’interesse di D’Avanzo per le operazioni illecite svolte dall’intelligence militare italiana non si è mai estinto. Lo testimoniano le inchieste pubblicate su Repubblica tra il 2006 e gli anni successivi, inerenti una allo scandalo Telecom-SISMI, con la scoperta di un gruppo di esperti che intercettavano e spiavano membri di spicco della società italiana; l’altra sulle attività del direttore del SISMI, Pollari, che alimentava campagne diffamatorie fasulle contro gli avversari di Berlusconi.

D’altra parte D’Avanzo non ha mai scordato la sua terra e ha sempre seguito attivamente le vicende della camorra, denunciando gli appalti del clan dei Nuvoletta o le violenze inflitte ai Nigeriani a Castel Volturno. Negli anni, il giornalista napoletano ha realizzato un affresco antropologico delle diverse tipologie di camorristi che popolano la Campania, tra i lazzari dei quartieri popolari e i boss nelle ville della provincia. D’Avanzo non si è tirato indietro nemmeno davanti allo scandalo dei rifiuti, di cui ha reso pubblici gli interessi della malavita e dei politici arroccati sulle proprie poltrone, a scapito di chi era assediato quotidianamente dalla munnezza e dalla morte.

Il 2009, poi, è stato un anno di svolta, non solo per la carriera del giornalista ma soprattutto per la storia politica dell’Italia. Era il 28 aprile, quando Silvio Berlusconi si presentò alla festa dei diciotto anni di una ragazzina di Casoria, Noemi Letizia. Ragazzina che aveva l’abitudine di chiamare “Papi” il Presidente del Consiglio, come dichiara in alcune interviste. Allora l’ex moglie di Berlusconi, Veronica Lario, chiarì di voler chiedere il divorziare, rendendo pubblica la relazione del marito con delle minorenni. Pochi giorni dopo, il 14 maggio, D’Avanzo pubblicò per la prima volta su Repubblica le sue dieci domande rivolte al Presidente del Consiglio, con l’intento non di accaparrarsi la sovranità dello scoop del momento ma di indagare sulle radici di una devianza del sistema politico, che sceglie come criterio di elezione l’aspetto piacente e la confidenza con Berlusconi. La richiesta di risarcimento avanzata dal Presidente del Consiglio contro Repubblica è stata respinta dal Tribunale di Roma nel 2011 con questo giudizio: “Le dieci domande costituiscono legittimo esercizio del diritto di critica e lecita manifestazione della libertà di pensiero e di opinione garantita dall’articolo 21 della Costituzione”.
Le dieci domande sono state solo l’inizio di una lunga trafila di inchieste contro Berlusconi, culminata nel 2011 con l’elenco delle dieci bugie pronunciate dal Cavaliere nel caso del Rubygate.

Illustrazione di Francesca Tavassi

Giuseppe D’Avanzo è venuto a mancare il 30 luglio del 2011, stroncato da un infarto mentre percorreva una salita di Calcata con la bicicletta. La morte del giornalista ha messo fine a quel suo modo di aggredire la vita con caparbietà e a quel suo furioso darsi da fare per una notizia. Quello che ci resta, però, sarà il suo profondo senso critico, caratterizzato dalla ricerca continua della qualità e il rispetto delle fonti. Di D’Avanzo sopravviverà quella passione per il giornalismo, quell’arteteca del raccontare che riesce a rendere vivido, davanti agli occhi curiosi del lettore, ogni inchiesta sul potere, ogni reportage di guerra, ogni cronaca della realtà.

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