Il Salone dei classici

Francesca
Virgola
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6 min readMay 23, 2017

Intervista a Paolo di Paolo - scrittore, giornalista e ospite del Salone del Libro

Manifesto ufficiale della 30° edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino

La trentesima edizione del Salone del Libro di Torino si apre con un rumore assordante, che è costante ma di intensità variabile. Le luci sono così cariche da farti presto dimenticare le condizioni atmosferiche esterne. L’aria è pesante e l’odore è pungente, sembra quasi di percepire la puzza di suole consumate e cervelli bruciati.
Più che una fiera del libro, sembra un casinò. Solo che al posto delle slot machine, ci sono gli stand con i libri. Le persone, però, hanno lo stesso sguardo allucinato. Contemplano bramosamente gli editori, stritolando tra le mani sudaticce i loro manoscritti.
Il resto della folla o si trascina con indolenza tra i padiglioni o rimane impantanata in file chilometriche, aspettando invano di farsi largo fino alla chiusura delle porte.

Tra gli eventi organizzati in questa edizione ci sono le letture dei classici della letteratura, dove personaggi noti sono invitati a condividere con il pubblico brani del passato a loro piacimento. Per semplificare: scrittori vivi che leggono scrittori morti.
Lo staff del Salone ha voluto fortemente questo tipo di incontri, al punto da coniugarli nei diversi contesti urbani di Torino: sospesi in aria sul Balon o con i piedi per terra al Lingotto.
Nel corso di questa edizione ho assistito alle letture di classici dell’antichità come l’Iliade e di racconti irriverenti di Bulgakov, passando per la poesia di Ungaretti e finendo con la prosa vibrante di Eggers. Ma tra questi ce n’è uno che mi ha colpito più di tutti: Educazione sentimentale di Flaubert, letto da Paolo Di Paolo. La sua lettura, infatti, aveva un’energia diversa, perché tra le parole dello scrittore francese si intervallavano le considerazioni del suo lettore. Quest’inversione momentanea dei ruoli ha creato un’empatia generale nella sala, instillando tra i presenti il desiderio di non perdersi nemmeno una virgola.

Fotografia scattata durante la lettura sul Balon del libro “Cancroregina” di Landolfi

Intervista — Al termine dell’evento, ho rivolto alcune domande a Paolo Di Paolo sul valore dei classici e sulla sua partecipazione al Salone del Libro.

Innanzitutto mi sembra doveroso chiederti: perché leggiamo i classici?

È una bella domanda perché sembra vecchia e invece è sempre nuova. Intanto dovremmo intenderci su cosa chiamiamo “classico”. Non vorrei usare la troppo abusata espressione di Calvino, per cui si tratterebbe di libri che non hanno smesso di dire ciò che avevano da dire. Anche se è molto vera ed è difficile eliminarla.
Credo che ci siano dei momenti in cui ti accorgi che alcuni libri costruiscono la formazione di una sorta di lettore ideale. E questo lettore ideale potremmo essere noi.
Nel momento in cui cominci ad incrociare questa sequenza di libri, ti accorgi che erano classici, ma non perché l’ha detto il canone, ma perché ne hai sentito l’identità profonda, l’intensità e qualcosa che ha scavalcato il tempo, che non si è esaurita nel corso dei secoli. Poi esiste un canone, chiaramente, che è stabilito.

Quando nel tuo scaffale ideale cominci a mettere questi pezzi della letteratura, hai da un lato un conforto, perché dici come faccio a non aver letto Anna Karenina, la tradizione te lo impone. Ma se l’hai letto veramente, se non hai avuto paura di leggerlo a fondo, ti accorgi di quanto i classici siano libri che costruiscono modi di stare al mondo. Ma non perché, dopo averli letti, diventi più bravo o migliore o più nobile. Anche questa retorica nobilitante io la eliminerei. Non è che aver letto Guerra e pace o Anna Karenina fa di te una persona migliore, però intensifica, dilata la tua percezione e la tua capacità di vedere le cose. E — questo che per me è fondamentale — se uno pensa a se stesso come un lettore iper consapevole e uno scrittore, ti dà la misura di quello che significa scrivere.

Allora è necessario leggerli o possiamo farne a meno?

Oggi mi pare che il rischio sia non tanto che uno legga i classici, ma che non senta il bisogno di leggerli. Nessuno te lo impone, io sono d’accordo con I diritti del lettore di Pennac. Però esiste un momento in cui se tu non ti confronti con chi ha scritto prima di te e con chi scrive attorno a te, è la tua scrittura e la tua consapevolezza di scrittore a risentirne.
Io quando rileggo certe cose, cose che avevo letto anche male o poco, sento una sorta di scommessa che posso fare solo se tengo in considerazione il fatto che la perderò rispetto a certi libri. Penso che sia questo il potere dei classici: farti sentire che puoi scriver ancora un pezzetto ma lo devi scrivere tenendo a mente il fatto che c’hanno provato, e meglio, molti prima di te.

La scelta di Flaubert a cosa è dovuta? Perché, poi, nella produzione dello scrittore francese, hai proposto proprio Educazione sentimentale?

Potevo scegliere molti libri, effettivamente. E devo dire che l’ho scoperto tardi. Poi mi colpiva che Kafka dicesse di volerlo leggere per intero davanti ad una platea, lasciando anche che si addormentasse. E mi sorprende il fatto che è meno noto di Madame Bovary ma probabilmente è uno dei risultati più alti di Flaubert. Perché in Madame Bovary c’è la spia anche del melodramma, da certi punti di vista. Romanzo straordinario, ovviamente.
Poi è come se lui se ne liberasse, come se la scrittura perdesse anche peso, diventasse leggera e avesse qualche connotato, qualche componente che la proietta oltre il tempo in cui è stata elaborata. Cioè mi pare che la dimensione temporale del romanzo sia un aspetto di novità incredibile. La capacità di Flaubert di accorciare, di stringare i tempi, di far correre vorticosamente i minuti, di dilatare le ore o gli anni. In questo romanzo passano i minuti come secoli e gli anni come minuti.

Allora questa gestione del tempo è da narratore iper contemporaneo, posso azzardare che senza un libro come Educazione sentimentale forse è impensabile anche un libro come la Recherche. Di sicuro Proust aveva un rapporto conflittuale con Flaubert come scrittore, però è impensabile escluderne l’influenza. Come se si fosse messa in moto una macchina che poi sbarca nel ‘900. È una macchina che ha che fare con il tempo, che ha come carburante il tempo. E la dimensione temporale del romanzo di Balzac o di Zola non è la stessa dell’Educazione sentimentale e ovviamente non è la stessa del romanzo novecentesco, di Mrs. Dalloway per dire. Ma è come se lui cominciasse un lavoro che poi i narratori novecenteschi portano a compimento.

Che ne pensi della decisione di portare i classici al Salone del Libro, che dovrebbe essere una fiera dell’editoria contemporanea e non un’esposizione di testi antichi?

Ne penso bene perché il rischio dell’effetto solo promozionale delle novità, in genere crea un meccanismo per cui — e non lo dico in termini snobistici — pensi solo ai libri del presente, compri questo perché ti incuriosisce. E questo succede se limitiamo il Salone ad una fiera soltanto. Ma noi qui dovremmo allenare dei lettori o renderli più esperti, più appassionati.
Per me l’unica possibilità di contagio per la lettura vera e non per una lettura che riempia le pause, non è “Io leggo perché…”, come spesso si impostano le campagne, ma è “Io leggo cosa…”. È solo se io ti racconto l’Educazione sentimentale che a te viene voglia di leggerlo. Come mi ha detto un ragazzo ora, “Guarda non leggo tanto i classici, ma me lo compro”. Per me è tutto, sono venuto qua per questo.

Il punto è che noi facciamo sempre una retorica sulle ragioni di leggere in senso astratto. Le ragioni di leggere si devono calare nelle ragioni per leggere quel determinato libro. Che è una ragione ovviamente personale. Quando è scaldata dalla passione, questa ragione diventa contagiosa.

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