Intima convinzione europea

Elisa Tasca
Virgola
Published in
6 min readMay 23, 2017

Il giornalista francese Bernard Guetta spiega come è diventato europeo

A sinistra Mario Calabresi, a destra Bernard Guetta. Foto della redazione salone del libro

Da sempre ci viene ripetuto che la storia insegna a non commettere gli stessi errori, che prendere esempio dal passato aiuta a costruire un futuro migliore. Ma noi, invece, stiamo andando pericolosamente fuori strada. Ci siamo affidati alle speranze, ci siamo crogiolati nei tempi d’oro procrastinando l’azione attiva concreta, abbandonando quella spinta propulsiva verso il miglioramento che ha guidato i nostri padri costituenti. Nell’immediato dopoguerra interi popoli provati dagli orrori del conflitto mondiale hanno capito finalmente che “l’unione fa la forza” e hanno iniziato a collaborare unendo i propri interessi.

Il progetto ambizioso era dare luce ad un’unione che potesse accogliere più nazioni sotto lo stesso tetto, con l’obiettivo di raggiungere un’unità politica basata su un patrimonio di culture e valori del Rinascimento, dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese e industriale, che hanno generato welfare e democrazia.

All’epoca si pensava che frontiere, muri, separazioni etniche e religiose fossero ormai ampiamente superate. Ma forse ci sbagliavamo. Lo ha spiegato bene il giornalista francese Bernard Guetta, ospite domenica scorsa della trentesima edizione del Salone Internazionale del libro di Torino. In occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, Intima convinzione. Come sono diventato europeo (add editore), l’autore ha dialogato con il direttore di Repubblica Mario Calabresi, ripercorrendo le tappe della creazione di un’ Europa unita, unendo memorie, incontri, testimonianze dirette, soffermandosi soprattutto sulla crisi attuale.

Guetta inizia raccontando degli aneddoti della sua infanzia: da giovane il concetto di Europa non gli interessava ma già in tenera età sua madre (alla quale dedica un intero capitolo) lo aveva abituato a rispettare il diverso. Lei, giovane ebrea sefardita perseguitata dalla furia nazista, era riuscita a salvarsi anche grazie all’aiuto di tedeschi coinvolti nel regime. Da qui la decisione di affidare il figlio ad una bambinaia tedesca, sostenendo che “non bisogna odiare la Germania, bisogna odiare i nazisti”.

La sua intima convinzione europea però è diventata più forte in età adulta: già corrispondente estero in URSS, Guetta ha assistito alla caduta del muro di Berlino e al conseguente crollo dell’Unione Sovietica. In quest’occasione ha capito che l’Europa, tesoro di civiltà e libertà, doveva essere unita, doveva basarsi su solide relazioni tra gli stati membri per evitare che il caos del mondo ne segnasse la fine, perdendo tutti i principi e valori finora conquistati.

Quella di Guetta è un’ Europa patrimonio di valori universali, rivendicati ovunque. Li abbiamo esportati, credendo ciecamente potessero essere universalmente condivisi e accettati, ma non li abbiamo difesi abbastanza, convinti che nessuno potesse intaccarli.

Ma avevamo torto. In un’analisi storica precisa, Guetta individua il corto circuito che ha dato inizio alla crisi dell’Europa, ovvero il momento in cui il suo modello sociale è stato messo in discussione. Tutto ha avuto inizio con la politica liberista di Margaret Thatcher, adottata anche oltreoceano da Ronald Reagan per poi essere rilanciata nel resto d’Europa. Le classi medie sono rimaste affascinate dal liberismo che garantiva meno regole, meno tasse, meno stato sociale. Questa mano invisibile che tanto avevano profetizzato però ha messo in crisi la stessa classe media che l’aveva fatta sua.

E qui nasce il paradosso. Guetta spiega che storicamente quelli che più hanno spinto per il liberismo sono stati gli inglesi. Gli stessi che circa vent’anni dopo, in occasione della votazione sulla Brexit, hanno preferito il leave, colpevolizzando un’Europa che avevano contribuito a forgiare, vittime di una politica di cui si sono fatti portavoce.

Il grande problema attuale, secondo il giornalista francese, sta nel fatto che in Gran Bretagna, in Francia e in molti altri paesi europei, i cittadini sono vittime inconsapevoli di un’enorme illusione, che le élite continuano ad assecondare. Si tratta di un’illusione comune data dalla nostalgia verso l’età d’oro del dopoguerra in cui il rapporto di forza era favorevole al lavoro e non al denaro, in cui il tasso di disoccupazione era molto basso, e con un’ Europa che dominava il mondo economicamente e politicamente. Ma si tratta di un enorme equivoco, un abbaglio tragico e profondo, cha la politica continua a sfruttare. Guetta si riferisce in particolare a madame Le Pen, che durante la sua campagna elettorale ha ottenuto i voti delle classi operaie promettendo un ritorno a quella parentesi incantata in cui la Francia era una nazione gloriosa. Come? Uscendo dall’Unione e dalla zona euro.

Ma quello che i sostenitori del leave in Gran Bretagna e i frontisti di Le Pen in Francia dimenticano è che quell’età d’oro si basava su presupposti totalmente diversi. Quando l’Europa viveva il suo massimo splendore, la Cina era un paese povero, senza alcuna influenza nell’economia mondiale. Di globalizzazione e di rivoluzione digitale non si era ancora sentito parlare. Quello che si tende a dimenticare è che il rapporto di forza si è rovesciato a favore del denaro e a discapito del lavoro: oggi è possibile spostare capitali da un luogo all’altro con un solo click. Le grandi aziende ormai investono all’estero, lì dove materiali e manodopera costano meno, per poi importare il prodotto finito nel mercato nazionale, sfruttando i vantaggi del lavoro a basso costo, della debolezza delle leggi sociali, di una fiscalità minore, dell’assenza di sindacalizzazione del lavoro. Nel frattempo, la disoccupazione in Europa aumenta.

L’età d’oro del secolo scorso quindi non è replicabile, il ritorno allo Stato Nazione è una follia. Non possiamo pretendere di conciliare un modello di lavoro che garantiva occupazione e qualità del prodotto, con un modello di consumo a basso costo al quale ormai siamo abituati. “Di fronte a una Cina così forte economicamente e in rapida espansione, di fronte ad un’America nazionalista, a un Medio Oriente in crisi, ad una Russia sempre più influente noi dovremmo unire le forze. Invece qual è la parola d’ordine di questi tempi? Divisione”.

Guetta afferma più volte con sicurezza che “viviamo nel paradiso. Si certo, il tasso di disoccupazione è alto, la politica è sterile, la crisi sembra non avere fine, molti problemi sono ancora irrisolti, ma rispetto agli altri continenti siamo i primi. Basti pensare al nostro sistema sanitario, libero e garantito a tutti, diversamente per esempio dagli Stati Uniti”.

Guetta auspica il rafforzamento di quest’unità attraverso la realizzazione di azioni concrete, abbandonando l’atteggiamento di rassegnazione. Si riferisce in particolare al declinismo dilagante che porta gli intellettuali francesi a credere che la Francia sia ormai un paese “fottuto”, incapace di rimettersi in piedi. L’unica soluzione secondo loro è mandare i figli a studiare all’estero, a Shanghai, a Los Angeles, per avere un futuro. “La Francia si trova in piena depressione nervosa. Abbiamo appena eletto un Presidente della Repubblica di trentanove anni che crede nell’Europa. Non so se avrà successo: ma quel che è certo è che da quindici giorni qualcosa sta cambiando in Francia. Abbiamo finalmente avuto le palle di scegliere un presidente giovane che ha avuto il coraggio di fare il suo primo discorso accompagnato dall’Inno alla gioia, ovvero l’inno dell’Europa. Non ho rimpianto il mio voto”.

Come si cura quindi questa depressione europea? Sicuramente senza dilungarsi nei soliti discorsi sulle sue istituzioni di cui nemmeno il cittadino più informato conosce il funzionamento.

Secondo Guetta l’Europa ha bisogno di una difesa europea comune, perché non ci si può più affidare all’ombrello statunitense. Deve investire sull’industria della difesa. Deve investire sull’istruzione e far sì che le ottime università diventino delle Harvard europee, delle università di eccellenza. I cittadini devono credere nelle potenzialità di un’Europa fatta di paesi con diversità linguistiche importanti, capace di relazionarsi con il resto del mondo.

Si sofferma poi sul progetto Erasmus, il programma di scambio di studenti che ha creato una vera e propria generazione di giovani europei. E termina con una battuta: “Quando il piccolo francese incontra un deliziosa italiana, cosa fanno? Dei piccoli europei! Dobbiamo puntare sull’Erasmus per lo studio, per l’apprendistato. Non costa poi tanto rispetto ai risultati che si ottengono”.

L’auspicio è che non solo le istituzioni ma anche i cittadini ricomincino a comportarsi come attori politici attivi, che difendano i diritti e i principi ottenuti fino ad ora. L’Europa esiste solo se vi è la volontà e l’interesse da parte degli stati membri. Non è uno stato di natura. Non può essere data per scontata.

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