Le Vallette: dentro e fuori dal carcere

Nicolò Fagone La Zita
Virgola
Published in
10 min readOct 1, 2017

Sofferenza, speranze e voglia di riscatto

Illustrazione a cura di Davide Saraceno

La palla rotola, il bambino la insegue, non fa in tempo a raggiungerla. Termina tra i piedi di Giovanni, 45 anni, 20 di questi in carcere, omicidio. L’uomo accarezza il pallone con la punta del piede, se la alza, palleggia con il ginocchio e al volo la ripassa al bambino che, sorpreso, torna a giocare con gli amici.

Accade questo in piazza Montale, alle Vallette. Un tentativo di osmosi, della durata di tre giorni, tra chi sconta la pena in carcere e i giovani e gli adulti liberi del quartiere. Lo stesso che ospita il penitenziario, e che per anni è stato considerato un’unità territoriale degradata, con la conseguente generazione di una sorta di etichetta, per cui ai soggetti vengono attribuite caratteristiche proprie di quella zona.

Nei quartieri più poveri come questo sono più elevati gli insuccessi scolastici, i tassi di mortalità e morbilità, perché chi ha meno risorse ha meno opportunità di controllare la propria vita.

Liberazioni è stato un caso unico, eccezionale, il primo festival nazionale di cinema, fotografia e scrittura con sezioni di concorso aperte a detenuti e ragazzi liberi sotto i 35 anni. Si è svolto dal 7 al 9 settembre presso le Officine Caos, la Casa di Quartiere delle Vallette. Un progetto finanziato dal bando Sillumina della SIAE e promosso dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema in collaborazione con molteplici realtà del territorio (Antigone Piemonte, Cooperativa Etabeta, SaperePlurale, Stalker Teatro-Officine Caos, Videocommunity, Museo della memoria Carceraria di Saluzzo, SocietàINformazione, Witti Kiwi, ManàManà, Direzione CC Lorusso e Cutugno).

I temi affrontati hanno riguardato la reclusione, la pena, la libertà e la relazione dentro-fuori.

Le opere vincitrici hanno ricevuto tre premi in denaro per ogni sezione, per un ammontare complessivo di 7.500 euro. Questi sono stati decretati da giurie interne ed esterne al carcere, con la partecipazione di professionisti dei settori di competenza, detenuti e giovani del quartiere.

Scatto intitolato “La vita dentro” con il quale Francesca Fascione si è aggiudicata il Premio Diritti Globali Fotografia

Per tre giornate mostre, filmati, premiazioni e incontri hanno invitato il pubblico a riflettere sulla condizione di chi vive dietro le sbarre. Investendo sulla creatività artistica giovanile, una risorsa culturale e di animazione sociale. Un tentativo di ponte, a livello di dialogo e azioni, tra l’interno e l’esterno del carcere.

“Le Vallette sono una zona estremamente periferica, come sanno i torinesi. Questo ha fatto sì che tutto il quartiere si sentisse un po’ come un carcere, ma anche che nella zona emergesse un fermento sotterraneo. Vogliamo che questo Festival sia un’occasione di riqualificazione, crediamo che il carcere possa essere una sfida, un vettore di creatività, e non solo un’istituzione opprimente. L’attività espressiva e la creatività vanno promosse nell’ottica di una funzione rieducativa spesso carente. Si tratta di dar vita ad iniziative che oltre a contribuire alla crescita culturale dei partecipanti avranno la caratteristica di far luce sul buio dei penitenziari, attraverso evasioni legali creative, espressive ed inclusive” ha dichiarato Valentina Noya, una delle organizzatrici dell’evento.

Tra i protagonisti anche Ascanio Celestini, presentato al pubblico da Sergio Segio, del direttivo di Nessuno tocchi Caino. L’autore ha inscenato una performance teatrale sui temi della reclusione e della giustizia, e ha letto alcuni degli scritti dei giovani carcerati partecipanti alla sezione del concorso. Ha rappresentato la sua idea di carcere, o meglio di abolizione dell’istituzione carceraria, di detenzione, di esclusione. Deciso e senza sfumature ha esposto il suo giudizio sulle istituzioni totali: penitenziari, ospedali psichiatrici, scuola compresa, con quella cattedra e quei banchi a suggerire posizioni di potere. L’autore non si è risparmiato, ha dato sfogo a tutto il suo repertorio, raccogliendo diversi applausi. Al termine dello spettacolo ha salutato il pubblico con una vena di imbarazzo, quasi a chiedere scusa per la sua intromissione, una vera incursione da combattente sociale qual è.

Ascanio Celestini al festival Liberazioni

“Dopo il nome e il cognome ti chiedono se vuoi suicidarti. Tu rispondi “no, grazie”, perché non ti va di finire in manicomio criminale coi matti. Non basta che glielo dici a parole, gli serve pure la dichiarazione scritta e firmata. Sembra una stupidaggine di burocrazia, ma nel caso che ti impicchi loro c’hanno quel pezzo di carta che gli salva il culo.

Non c’è un elenco ufficiale emanato con apposita circolare ministeriale. Se l’anno prima qualcuno s’è impiccato coi lacci delle scarpe, ti levano i lacci, ma magari ti lasciano una catenina che non vale niente. Se dieci anni prima qualcuno ha corrotto una guardia con una catenina, ti levano quella, ma i lacci te li lasciano. A me hanno strappato la copertina rigida di un taccuino. Gli ho chiesto il perché e manco lo sapevano. Era una consuetudine, pare. Forse ai tempi di Giulio Cesare qualche detenutus aveva dato un tomo in testa al secondinus”. (Ascanio Celestini)

Alcune delle opere più emozionanti

Blocco E, IV piano” di Sergio Bertani, in concorso nella sezione Cinema. Un reportage che racconta in prima persona la degenza “volontaria” in un reparto di psichiatria, in seguito ad un tentativo di suicidio. Un racconto descrittivo e introspettivo che presenta la tragedia della solitudine, dell’impotenza, del rapporto con un contesto di reclusione che lascia spiazzati. Nessuno vuole realmente curarti, il tutto si limita a una mera custodia ottenuta con i giusti sedativi. Il pensiero e la noia sono i nemici e gli unici compagni. Il punto di vista vero e originale di una persona in grado di raccontare che cosa accade, di analizzarlo e riportarlo. Il tutto narrato dalla voce di Dario Penne, doppiatore tra gli altri di Anthony Hopkins.

Un scatto del corto Blocco E, IV piano

Paganini non ripete” di Giacomo Costa rappresenta una dichiarazione d’intenti di ciò che dovrebbe essere il significato della detenzione. Non un trattamento punitivo, ma un percorso riabilitativo e restituivo. Costruire un violino è compito arduo, da eseguire in un tempo estremamente dilatato, fondamentale ai fini della perfetta realizzazione dello strumento. Un lavoro minuzioso che sorge da uno stato dell’anima: significa plasmare la propria indole alla pazienza, un allenamento costante alla ricerca della giusta calma necessaria al ripetersi costante del gesto. Paganini non ripete è una storia di riscatto all’interno del penitenziario, lo stesso che si concede al legno grezzo trasformandolo in uno strumento unico e speciale. Il violino diviene libertà, la voce di persone che, pur vivendo in uno stato di costrizione, sono capaci di infondere nel mondo una sublime bellezza. Le interviste, intervallate da momenti di operosità, raccontano la vita precedente, la detenzione, gli affetti, i sogni e le speranze di riscatto con una leggerezza dalla quale traspaiono episodi personali profondi e ancora dolorosi. L’atmosfera che avvolge i due protagonisti non sottolinea il loro dramma esistenziale, che rimane fuori, evocato, come nella tragedia greca. “Vivrò finché esisteranno i miei strumenti”, racconta Ismail, “daranno gioia a chi li suonerà e a chi li ascolterà”.

Un’immagine del corto Paganini non ripete

“Spes contra spem” di Ambrogio Crespi è un docufilm lontano dalla gerarchia delle cose urgenti, lontano dalla vita quotidiana di ogni persona, una testimonianza di sofferenza e verità. Criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi ci accompagnano in un viaggio inimmaginabile, dentro anime oscure, nel buio profondo attraversato da squarci di luce che accecano chi guarda. Le testimonianze dei detenuti intervistati offrono spaccati fortissimi e mostrano un livello di consapevolezza elevato. I maestri di vita divengono coloro che hanno sbagliato, a partire dalla propria esperienza. Si affrontano temi come illusione, male, vita, speranza, autodistruzione e arricchimento. Si discute anche di ergastolo, degradante e disumano, una pena di morte mascherata, ma anche di come il carcere possa essere una strana occasione per conoscersi e arricchirsi.

“Il gusto della libertà” di Raffaele Palazzo. All’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno a Torino un ex detenuto, ora chef di professione, ha invitato alcuni vecchi amici ex detenuti, a cena presso Liberamensa, un ristorante pubblico sito all’interno del carcere. Durante la cena gli invitati avranno modo di apprezzare il cibo cucinato per loro e di rivivere sensazioni raccontando aneddoti ed esperienze di vita vissuta in carcere. Il cibo come strumento di socialità e di sopravvivenza. Un altro modo di raccontare la cucina e il cibo, e di assaporare il rinnovato gusto della libertà.

“A che punto è la notte — Le confessioni di tre giovani attori” di Vincenzo Ardito. Il cortometraggio è il risultato di un percorso condotto all’interno dell’Istituto Penale Minorile “Nicola Fornelli” di Bari, dove tre giovani attori detenuti sotto la guida del regista teatrale “Lello Tedeschi” hanno portato in scena il Macbeth di Shakespeare: un viaggio denso e allucinatorio alle radici del bene e del male, tra le pulsioni più intime e profonde dell’animo umano. Pulsioni che si abbattono come una scure tra i protagonisti della storia. Storia di assassini, sangue, streghe, fantasmi e sensi di colpa. E d’amore, grande, con una spontaneità immediata e sincera, espressa con termini e locuzioni dialettali.

“Foo Dekk” di Serena Vittorini
Istantanea di Patrick Travaglini “Recludere esplode”

Il rapporto di Antigone

L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere, più di Francia, Germania o Spagna, paesi in cui peraltro il numero dei detenuti è maggiore. Ma il dato più grave è che ben il 90,1% di questi agenti è semplice personale di custodia (la media europea è del 68,6%). Criminologi e psicologi sono da noi lo 0,1%, contro una media europea del 2,2%, mentre il personale medico e paramedico è lo 0,2%, contro il 4,3% europeo.
Questo significa che da noi l’idea della pena è ancora relegata a una dimensione di custodia, nonostante una legislazione avanzata ed un ordinamento penitenziario fortemente orientato al reinserimento sociale.

In Italia la recidiva all’interno dei penitenziari è molto elevata, sfiora il 70%, ma per chi lavora in carcere questo numero si abbatte in maniera clamorosa, fino al di sotto del 20%.

Peccato che l’80% dei detenuti non possieda un’occupazione significativa.

La detenzione può anche risultare insopportabile, e chi si porta dentro un disagio profondo può esserne schiacciato. Come è successo pochi giorni fa a un giovane rom di nome Thomas, suicidatosi in carcere a Torino. Nei penitenziari italiani sovraffollamento e degrado portano a un aumento di casi di autolesionismo e suicidio E quando crescono i numeri il carcere peggiora sotto tutti i punti di vista (più 1524 detenuti in sei mesi, al 30 aprile 2017, una tendenza che appare in progressiva accelerazione).

Questo mentre dal Consiglio d’Europa arriva un nuovo monito sul sovraffollamento dei penitenziari d’Italia.

Un momento del dibattito con Sergio Segio, Elisabetta Zamparutti, Giacinto Siciliano, Bruno Mellano

Considerazioni finali

Non possiamo chiuderci dentro al rifiuto di conoscere. Ci sono degli esseri umani anche all’interno dei carceri, con sentimenti, vocazioni, speranze, orizzonti. Esseri umani che magari sono in grado di impartire anche lezioni etiche, pur dalla loro condizione, considerata tendenzialmente non degna di rispetto. A loro va data una possibilità di esprimersi, poiché la funzione del carcere è rieducare. La qualità della vita di un penitenziario rispecchia con coerenza la qualità etica di una società.

Finché si considererà il carcere un luogo utile a sbarazzarsi di un problema, sarà evidente la paura che si addentra nel nostro stato, che non si misura, non si confronta. Questo festival è servito a compiere una riflessione profonda, una rimessa in questione di ciò che si considerava acquisito ma che invece è aperto. Un progetto socioculturale di grande importanza per l’edificazione di una società di giustizia, che mira a far emergere i valori intrinseci dell’uomo, a ridargli una dignità personale, qualunque sia la sua colpa.

Un festival così, cimentando anche i detenuti a scrivere di sé, a dar la loro visione del mondo attraverso la capacità di esprimerla con degli scritti, fotografie o immagini in movimento, porta alla luce la cosa più importante in una società: la centralità dell’essere umano, la sua complessità, in qualsiasi condizione si trovi. E tutto questo assume ancor più rilevanza se si esprime all’interno di una periferia, perché è dalla sua qualità antropologica, culturale, abitativa, che si giudica una società. Le iniziative culturali possono trasformare la qualità di vita nelle periferie.

Risulta necessaria una contro narrazione, contro il populismo e una corrente sociale vendicativa. Non puoi giudicare il tuo prossimo, e se ti viene la voglia di farlo, devi aspettare di essere nella sua condizione, e quando questo accade, la voglia di farlo ti passa. Tutti dovremmo riflettere al fatto che questo potrebbe capitare anche a noi, per ragioni molteplici, compreso anche un equivoco.

Piazza Montale, entrata del Festival Liberazioni

Giovanni esce dalla porta principale, il festival è terminato, ma per lui è solo l’inizio di una nuova vita, lontano dalle sbarre. “Chiedo scusa a tutti” aveva detto poco prima sul palco. “Sono nato a Catania, ma mi sono trasferito a Torino quando avevo solo tre anni e ho fatto del male a questa città. Ho perso mio padre quando avevo diciassette anni, è stato ucciso per errore, per uno scambio di persona. Mi sono vendicato con i suoi assassini e con il mondo, tutti dovevano provare la mia stessa sofferenza. Tornassi indietro non lo rifarei. Sono pronto a raccontare la mia esperienza, sperando che qualcuno possa imparare dai miei errori”.

Una domanda sporge spontanea: quanti avrebbero avuto la forza, a diciassette anni, di reagire diversamente a quell’odio viscerale?

Una foto scattata da Salvatore Parisi intitolata “Alla fine del tunnel”
Un’istantanea di Giovanni Antona intitolata “Attraverso loro”

--

--