L’incessante fascinazione del mondo di Richard Kapuscinski

Natalia Pazzaglia
Virgola
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6 min readSep 22, 2017

Ebano fu il libro che, alla fine del primo anno di università, mi convinse a sfidare tutte le raccomandazioni e a partire per la Costa d’Avorio, il primo di vari viaggi in paesi in via di sviluppo. Quattro anni dopo, Autoritratto di un Reporter risvegliò in me quella passione per la narrazione che l’anno scorso mi ha spinto a cambiare vita e iscrivermi alla Scuola Holden.

Ebano fa vedere l’Africa con gli occhi di Kapuscinski. Autoritratto di un Reporter racconta chi c’è dietro a quello sguardo, un uomo costantemente “in uscita”, animato da un “incessante fascinazione del mondo”. La sua era una curiosità immensa, che, dal primo reportage fatto a ventiquattro anni, in India nel 1956, lo spinse, nel suo lavoro di corrispondente estero per l’agenzia polacca PAP, in Asia, Africa e America Latina, prima di fargli rivolgere di nuovo lo sguardo alla sua terra natale, la Polonia degli anni ’80, che attraversava una fondamentale transizione politica derivata dalla crescente influenza del movimento di Solidarność.

Richard Kapuscinski, Varsavia 1962. Foto: Janusz Sobolewski,Forum

Morto nel 2007 dopo esser stato riconosciuto come uno dei più grandi reporter del secolo scorso e aver più volte sfiorato il Nobel, i libri di Richard Kapuscinski furono però ignorati fino alla metà degli anni settanta. Eppure, il reporter polacco continuò a scrivere con ostinazione e fede, convinto di star facendo qualcosa di importante. “Il mio primo libro uscì nel 1962, mentre vivevo e lavoravo in Africa. Quando tornavo in Polonia vedevo le pile invendute nelle librerie. Mi dicevano che dovevo scrivere storie più avventurose, ma io rifiutavo. Volevo scrivere a modo mio, convinto che alla fine i lettori avrebbero capito e apprezzato”.

Ebbe un’infanzia molto povera, segnata dal freddo e dalla fame, dalla quale nacque il seme per quella capacità di empatia che lo contraddistinse per tutta la vita, dandogli una grande apertura verso genti e culture diverse. Un’apertura dalla quale ricavò la materia prima per i suoi reportage, che lui stesso considerava una sorta di lavoro collettivo, riportato sulla pagina da un reporter “schiavo degli altri”, di quello che le persone che incontrava accettavano di condividere con lui.

Queste ed altre riflessioni sono il nucleo di Autoritratto di un Reporter, libro nato da una serie di interviste e lezioni, estratto da una mole di 1500 pagine nelle quali si delineava cosa fosse per Kapuscinski la professione del reporter. Un libro che è anche una raccolta di osservazioni sugli strumenti e le difficoltà del proprio lavoro. Vi si trova anche un elenco di quelle che, secondo Kapuscinski, erano le qualità fondamentali per il corrispondente estero: salute fisica, resistenza psichica, curiosità, conoscenza delle lingue, apertura verso genti e culture diverse, capacità di viaggiare, passione, capacità di pensare. Un lavoro duro, quello del reporter, fatto di concentrazione e solitudine, uno sforzo costante dove non è mai permesso riposo, perché da ogni situazione possono nascere nuovi incontri e nuove conoscenze. Una professione che per Kapuscinski era una vera e propria missione. Secondo lui, infatti, dal rendersi conto dell’enorme diversità di condizioni di vita in parti diverse del mondo, derivava l’obbligo morale di parlarne e la necessità di impegnarsi per favorire un’intesa tra culture diverse. “Il vero giornalismo è intenzionale: si prefigge uno scopo e cerca di produrre un qualche cambiamento. Cambiare direttamente le cose no, influire sugli uomini politici, dare una mano, questo sì”, si legge in Autoritratto di un Reporter.

Kapuscinski era un uomo che amava vivere le cose, che voleva vedere i fatti di persona, non dietro un vetro o dentro la camera di un Hilton. Lui doveva essere lì, diventando parte del mondo che voleva narrare. Così per raccontare l’Africa si trova a dormire nei sobborghi, cerca passaggi in camion e si fa ospitare nella Savana tropicale.

Ne nasce Ebano, un libro che, secondo lo stesso autore, non parla dell’Africa, ma delle persone che vi ha incontrato. Kapuscinski non voleva, infatti, descrivere solo le ribellioni e le guerre che infiammavano il continente. Voleva raccontare anche quello che c’era dietro, la vita quotidiana, l’ordinarietà.

Così in Ebano non si parla solo del colpo di stato nigeriano del 1966 o della lunga guerra sudanese, si racconta anche di un buco su una strada nigeriana, che non venne riparato perché dava lavoro alle squadre di soccorso e alle proprietarie di cucine portatili; oppure di come le ragazze senegalesi andavano a prendere l’acqua, con catinelle metalliche sulla testa e larghi vestiti addosso. Si parla di bambini che dividono tutto l’uno con l’altro e di mendicanti che, stretti con i loro moncherini di fronte alle chiese rupestri di Lalibela, sembravano “un mostro che sporgeva verso l’alto bocche in attesa di qualcosa da ficcarci dentro”.

Per parlare dei problemi dell’Africa Kapuscinski non guarda solo alle questioni politiche affrontate nelle tavole rotonde dei potenti. Guarda alle città e ai villaggi, descrivendo “un mondo di gente che non discetta sulla trascendenza dell’anima, sul senso della vita e sulla natura delle cose, ma dove l’uomo striscia nel fango alla ricerca di un chicco di grano per sopravvivere fino al giorno dopo”. Un mondo dove “lavarsi la faccia richiede la stessa concentrazione che pregare: neppure una goccia, come nessuna parola divina, può andare sprecata”. Un mondo dove è necessario andare molto più in profondità dei meri fatti, cercando le ragioni culturali e storiche che possono aver portato a determinate vicende, come nel caso della tratta degli schiavi, legata alle mire politiche dei paesi occidentali ma anche al complesso di inferiorità dei popoli africani; o al problema della fame, derivato non tanto dalla mancanza di cibo quanto da nascosti giochi politici.

Kapuscinski, Varsavia 1981. Foto: Krzysztof Wójcik, Forum

Reporter e narratore, Kapuscinski era un uomo animato dalla passione per i viaggi, consapevole di scrivere una tipo di reportage diverso rispetto a quelli visti fino ad allora. Il suo era uno stile unico, che lui stesso ammetteva di non sapere — e non volere — necessariamente definire reportage puro, saggio o narrativa. Diversamente dallo standard giornalistico dell’epoca, non gli interessava narrare solo gli avvenimenti. Lui voleva raccontare il contesto: il clima, la natura, l’atmosfera, le persone. I suoi erano articoli che fondevano il giornalismo con la letteratura, in una commistione di generi che sarebbe stata soprannominata New Journalism, un modo di raccontare la realtà con degli strumenti propri della narrativa, secondo lo stile reso famoso da Truman Capote nel suo A Sangue Freddo (1966).

In un momento storico in cui l’unica cosa che sembrava interessare erano i fatti, Kapuscinski in Ebano guarda dentro gli autobus, i palazzi e i villaggi, descrivendo la struttura dei clan africani e la vita dei signori della guerra, sbirciando nei mondi spirituali e nei patti sociali che regolano la vita delle popolazioni locali. I suoi reportage sono in realtà veri e propri viaggi etnografici e antropologici, intrapresi per conoscere meglio il mondo, così da poter trasmettere agli altri le conoscenze acquisite.

C’è chi ha parlato di lui descrivendolo come “un reporter missionario” e chi ha puntato il dito sulla non provata veridicità di molti suoi testi, ricordando come il reporter polacco non fosse particolarmente interessato al controllo delle fonti. Forte della sua bravura nel parlare con chiunque e ovunque, certe volte prendeva pettegolezzi e gossip per realtà. Così, in un periodo storico in cui l’ideologia permeava la letteratura, i critici di Kapuscinski hanno sottolineato come fosse bravo a scegliere storie, anche non verificate, che suffragavano la sua visione del mondo.

Qualunque sia la verità, resta innegabile la fascinazione trasmessa dai racconti di questo reporter animato da una profonda vocazione giornalistica unita ad un’ instancabile voglia di immergersi nella realtà. Un giornalista diviso tra viaggi e scrittura, due fasi diverse della sua vocazione di reporter, che fece della propria vita un continuo viaggio di ricerca nel mondo.

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Natalia Pazzaglia
Virgola

Reporter, traveller and storyteller, with a passion for social and gender issues