Mès que un club, lo strano caso del Barcellona

di Andrea Costantino Levote e Gabriele Gentile

Andrea Costantino Levote
Virgola
5 min readNov 22, 2017

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“Sul lato sinistro del campo si schiera la squadra blaugrana. Sul lato destro i blancos”.

Per qualcuno è solo una partita di calcio, per le televisioni è il clasìco, per i catalani è una guerra. È la traslazione sportiva di principi morali, politici e storici, che si rubano palla nel campo della Storia e si affrontano a suon di tunnel e tackle a gamba tesa.

Il Barcellona schiera la sua filosofia, il vivaio, l’identità. La maggior parte dei giocatori è cresciuta nella Masia, seguendo i principi del gioco e studiando insieme agli altri ragazzi. La collettività dà la forza, e la forza difende l’identità. Di contro il Real Madrid. I Galacticos, la superiorità, l’attrazione fatale dei grandi campioni, il voler vincere sempre e comunque per dimostrare di essere eccellenza.

Indipendentismo contro centralismo.

Questa però non è una partita come le altre, non si gioca soltanto in campo, e non dura solo 90 minuti. Soprattutto a Barcellona.

Per questa ragione sulle Ramblas, subito dopo l’attentato di qualche mese fa, insieme alle bandiere giallorosse della Catalogna sventolavano quelle del popolo blaugrana.

Il Barcellona è una corda vocale che vibra per far sentire la voce del popolo catalano, la stessa voce che al minuto 17.14 di ogni partita si alza per invocare all’unisono il coro “Independencia”, colorando lo stadio di giallo e rosso, i colori della señera.

L’11 settembre 1714, al volgere della guerra di successione spagnola , la città di Barcellona fu riconquistata, dopo quattordici mesi di assedio, dalle truppe spagnole del duca di Berwick ; con la vittoria di Filippo V , la Catalogna perse una buona parte di potere a vantaggio di un accentramento verso la corona di Castiglia.

Al minuto 17.14, il calcio lascia spazio alla storia di un popolo, alla sua identità, confinata all’estremità nord-orientale della penisola iberica, ma con un occhio rivolto al mondo. Ed è proprio questo aspetto che lega in maniera indissolubile il club, fondato nel 1899 dall’elvetico Hans Gamper, all’ideale catalano. La sintesi di questo sentimento è rappresentata da quattro parole che ne rivelano l’animo: Més que un club.

Mai nessun club calcistico si era schierato in modo così forte e deciso nelle questioni politiche, come oggi sta facendo il Barcellona.

Domenica 1 Ottobre, il giorno del referendum, mentre Madrid alzava i livelli di repressione, Piquè incoraggiava il suo popolo al voto per esprimere il proprio diritto all’autodeterminazione.

Guardiola lo aveva fatto poco tempo prima, dichiarando più volte la giustezza storica, politica e sociale, dell’indipendenza catalana.

discorso di Guardiola

Tuttavia, queste non sono iniziative singole o sporadiche, ma conseguenza della formazione di un club che rivendica la proprio storia. Non tarda ad arrivare, infatti, anche la voce ufficiale del F.C. Barcellona. Giocatori, allenatori, dirigenza e tifosi. Questa è la vera forza del club: la compattezza.

Lo spettro del franchismo, nel seno di una città da sempre anarchica e ostile al potere centrale, riecheggia nelle parole della gente, e il Barça è probabilmente l’entità catalana più illustre e riconosciuta del mondo. Dall’altro lato, però, c’è da ricordare che chi è a capo del club blaugrana è quasi sempre un rappresentante dell’alta borghesia locale, che di nazionalista ha sempre avuto poco.

Il Barcellona, infatti, mette sul tavolo delle trattative per l’indipendenza non solo la sua storia e la sua filosofia, ma anche il suo bilancio e la sua influenza economica negli introiti della città.

Nella passata stagione, in un report effettuato da Deloitte , l’impatto economico del club sull’indotto cittadino, in termini di Pil, è stato del 1.5% con un fatturato di oltre 900 milioni di euro, ed un incremento di quasi il 20% rispetto alla stagione 2013/2014.

Uno studio precedente del Círculo de economía (20 maggio 2015) aveva pronosticato un’esponenziale crescita di fatturato con l’inizio del progetto Espai Barça, prevedendo un fatturato di circa 826 milioni per la stagione 2015–2016, e garantendo circa 17.000 posti di lavoro (per la stagione); la previsione è stata ampiamente superata, e senza contare l’impatto di Espai Barça. A ciò bisogna aggiungere l’impatto turistico generato dal club che, secondo l’analisi di Deloitte, è riscontrabile in un 6% totale. Il club blaugrana, nella stagione considerata, ha mobilitato circa due milioni e mezzo di fans, e accolto quasi un milione e mezzo, tra tifosi e curiosi, di ospiti per il Camp Nou experience museum.

Tuttavia, il ruolo sociale del Barça risulta essere piuttosto ambiguo, in quanto la società blaugrana non può considerarsi un’entità strettamente catalana, o vincolata solamente alla sua regione di appartenenza. Nei tempi della globalizzazione, avviene che per le grandi squadre — come Barcellona, Real Madrid, Juventus, Manchester United — la maggior parte dei loro tifosi risieda fuori dalla città di origine, nonostante gli stadi siano sempre pieni.

Fatta questa premessa, c’è da dire che la questione del referendum per il processo d’indipendenza catalana, già di per sé delicata, non dovrebbe ostruire più di tanto lo sviluppo del Barça. Questo perché la sua ispirazione internazionale lo ha già portato molto fuori dai confini non solo catalani ma anche spagnoli. Ma il ventaglio delle possibilità è molto più ampio.

Secondo Javier Tebas, presidente della Liga, la possibilità di escludere i club catalani dal campionato spagnolo non sarebbe così remota, e sarebbe un disgrazia. A restare fuori sarebbe il Fc.Barcelona, in quanto sostenitore del processo indipendentista, ma non l’Español (contro le posizioni secessioniste).

Tebas sa benissimo che una soluzione del genere provocherebbe, per l’intero movimento calcistico spagnolo un duro colpo, tanto a livello d’interesse generato intorno alla Liga (da tv e giocatori) quanto a livello di squadre nazionali.

In termini di Liga, tanto per menzionare qualche dato, l’ultimo Clasico (23.04.2017) è stato seguito da oltre 650 milioni di spettatori nel mondo, in 185 Paesi. Uno degli spettacoli sportivi più seguiti di sempre.

Anche la compagine blaugrana rischierebbe di subire il colpo. La costituzione di una federazione calcistica catalana (necessaria) non potrebbe garantire un campionato competitivo come quello spagnolo. Gli introiti derivanti dai diritti televisivi subirebbero un crollo netto, e anche la U.E.F.A. dovrebbe trovare una soluzione per garantire un posto in Champions League ad una delle squadre più titolate d’Europa; infine, lo stesso Barça sarebbe costretto a ridimensionare i propri obiettivi, tanto sportivi quanto economici. Una soluzione potrebbe essere il trasferimento della squadra in uno dei maggiori campionati europei, sulla falsa riga del As.Monaco.Fc, nella Ligue1 francese. (https://calcio.fanpage.it/il-barcellona-in-serie-a-e-difficile-ma-possibile-ecco-perche/).

Ipotesi. Suggestioni. Rivalità vecchie o nuove?

Questa, però, non è una partita come le altre, non dura solo 90 minuti. È noi contro loro. I dissidenti contro la Corona. L’eterno ritorno. Dopotutto senza Boris Spassky, Bobby Fisher sarebbe stato un noioso campione di scacchi, e senza John McEnroe, Bjorn Borg non sarebbe mai entrato nella storia di Wimbledon.

E senza il Real, il Barça non sarebbe “més que un club”.

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Andrea Costantino Levote
Virgola

Giornalista, scrittore e storyteller. Il giorno studio reporting alla Scuola Holden, scrivo di sport e leggo; la sera alleno una squadra di calcio.