Maledetta Champions

Ho sentito tremare la terra due volte: la prima quando Mario Mandzukic si è inventato il gol del pareggio in rovesciata, la seconda quando la felicità di quel gol era già un ricordo lontano.

Andrea Costantino Levote
Virgola
6 min readJun 4, 2017

--

È da quando mi sono trasferito a Torino che i miei amici sperano che la Juventus arrivi in finale di Champions League, sia per il tifo che li accompagna fin da bambini, sia per sfruttare l’occasione di vivere un momento di festa insieme a me. Sono venuti da ogni parte d’Italia e anche dall’estero.

Siamo in Piazza San Carlo dalle 18.00. Vogliamo assicurarci un posto privilegiato per essere sicuri di vedere la partita anche se in punta di piedi. Entriamo superando un controllo di polizia, non abbiamo niente con noi se non cellulari e sigarette, ma dopo pochissimi metri riceviamo offerte di birre in bottiglia da almeno un paio di ambulanti, nonostante sia proibita la vendita in vetro. Riusciamo ad arrivare ad una quindicina di metri dal maxi schermo, saltando zaini e bottiglie vuote che già alle 18.00 vengono calciate in piazza da chi cerca di conquistare posizione. Le bandiere e le maglie juventine dipingono di bianco e nero la piazza e i cori dei tifosi più eccitati si alternano ai commenti prepartita che trasmettono sul maxischermo. Ad ogni chiamata dallo studio televisivo la piazza risponde con un “chi non salta non ci crede”, che dà una scarica di adrenalina degna delle grandi occasioni. Nelle due ore d’attesa la piazza si riempie in modo inverosimile, la gente supera l’orizzonte del mio sguardo. Quando l’inno della Champions inizia, mi rendo conto che il suono in questi casi può dare molte più emozioni degli occhi.

Al fischio d’inizio la Juve pressa alto, gioca con cattiveria e raddoppia su ogni pallone. In piazza si canta come se i giocatori potessero sentirci da Cardiff. Ci credono davvero tutti, anche se non si salta più, anzi si rimane fermi per sperare di non perdere il piccolo squarcio visivo guadagnato.

Io ho davanti a me il ragazzo più alto di tutta la piazza e mi destreggio sulle punte come una ballerina di danza classica, facendo perno su una borsa frigo bianca e arancione che ho dietro. Quando le azioni si spostano sul versante basso del campo ammetto di aver visto poco calcio, ma il gol di Cristiano Ronaldo l’ho visto bene.

È il 20’ del primo tempo, la piazza è rimasta ferma, qualcuno ha solo abbassato la testa. Al 27’ del primo tempo Alex Sandro mette al volo una palla in area per Higuain, che stoppa di petto e appoggia a Mario Mandzukic, che controlla e in rovesciata scavalca Navas, segnando il gol del pareggio.

Piazza San Carlo trema.

I tifosi saltano e si abbracciano, qualcuno si spinge, io guardo incredulo lo schermo aspettando il replay di un gol pazzesco. Ma prima del replay vedo alla mia destra una signora di mezz’età a terra, circondata da ragazzi che la aiutano ad alzarsi. Nell’entusiasmo è scivolata e si è tagliata la gamba destra con una bottiglia spaccata.

In quel momento sembra una cosa di poco conto, mentre il gol di Mandzukic sembra il segnale della rimonta. Non avrei mai immaginato che la caduta della signora fosse un campanello d’allarme e il gol invece significasse davvero poco.

Il secondo tempo inizia con una Juventus che scende in campo solo per occupare il terreno di gioco. Non riesce a conquistare palla, nè a mantenere il possesso, quando gioca a un tocco è imprecisa e quando arriva a due o più tocchi viene schiacciata e aggredita da un Real Madrid che sembra avere una marcia in più. Dopo 16 minuti arriva il gol del vantaggio madridista; ne passano altri tre e Cristiano Ronaldo marca il 3 a 1.

La piazza è congelata.

Dopo pochissimi minuti sposto lo sguardo verso la mia sinistra. Ho sentito un rumore che mi ha fatto venire i brividi, lo stesso di quando ti sfreccia di fianco la metropolitana.

Poi la terra ha tremato, per la seconda volta.

Sento il rumore delle bottiglie che esplodono sotto migliaia di passi, poi non ho più il tempo di percepire nulla. Sono travolto dalla folla che corre verso di me. Non ho il tempo di girarmi perchè la borsa bianca e arancione mi fa cadere.

In queste situazioni di solito si dice che la cosa più importante è non cadere e non restare a terra. Ho preso un paio di calci sui fianchi, poi ho messo le mani sui vetri e ho provato a rialzarmi. Non so come sono riuscito a farlo senza ferirmi. Mi sono messo a correre. Ho provato a sollevare qualcuno, tra una spinta e una gomitata, fin quando non mi sono ritrovato ai lati della piazza.

La transenna del parcheggio ai lati della piazza cede, una ragazza è caduta, ma non ho il coraggio di avvicinarmi. Sembra che tutto si sia calmato. Mi guardo la maglia, è sporca di sangue. Mi tocco le braccia e le gambe, non sono ferito e capisco che il sangue non è mio. Un signore che non avrà più di quarant’anni è steso a terra con mezza bottiglia infilata nel ginocchio e grida il nome del figlio che non riesce a trovare. Provo a cercare i miei amici. Sono rimasto solo. Ho perso il cellulare.

Il maxischermo trasmette implacabile le immagini della partita, ma nessuno lo guarda più. Tra le urla non si sente nemmeno la telecronaca.

Rientro in piazza, cerco i miei amici e il telefono, vedo la borsa bianca e arancione che mi fa capire quanto mi sono spostato e dov’ero. Anche un amico ha visto la stessa borsa, ci abbracciamo ma non abbiamo nemmeno il tempo di chiederci se stavamo bene, perché siamo di nuovo sommersi dall’onda di persone che corrono.

Basta davvero poco a farci avere paura. Basta che delle 30.000 persone uno solo inizi a correre e tutti correranno. Nessuno sa verso quale direzione. Nessuno sa a che prezzo. Qualcuno trova riparo nei portoni, altri vengono portati in spalla perchè sono feriti. Alcuni gridano che in piazza stanno sparando, altri che è scoppiata una bomba.

La paura del terrorismo può spargere lo stesso sangue di un attentato. L’ho capito ieri sera.

Quando arrivo in Piazza Castello tutte le maglie bianconere sono diventate rosse. Ho perso il conto delle ambulanze e delle vetture di polizia e carabinieri, l’unica cosa che posso dire con certezza è che appena una sirena si spegne se ne accende un’altra.

Ritrovo i miei amici, qualcuno senza scarpe, qualcun altro che cerca di rassicurare la famiglia. Io chiedo in prestito un telefono per chiamare casa ed evitare attacchi di cuore. Quando sono in Piazza San Carlo vedo un cimitero di bottiglie, zaini, occhiali rotti e scarpe. Non avevo mai visto così tante scarpe e così tante persone che cercavano di ritrovare le proprie, dello stesso numero, dello stesso modello, dello stesso colore, come se fossero i tasselli di un puzzle da ricomporre.

Non ho idea di come sia stato possibile uscirne illesi, però so che in Piazza San Carlo ho deciso di fare il giornalista. Perché tra i calci, le corse, la preoccupazione per i miei amici, ho pensato “se ne esco vivo, devo scrivere un pezzo”.

Questo forse non è vero giornalismo, ma è una promessa mantenuta.

E alla fine non so nemmeno com’è finita la partita, ma oggi non mi interessa poi così tanto.

--

--

Andrea Costantino Levote
Virgola

Giornalista, scrittore e storyteller. Il giorno studio reporting alla Scuola Holden, scrivo di sport e leggo; la sera alleno una squadra di calcio.