My Salone

Viaggio poco serio all’interno del Salone del Libro di Torino

Giovanni Barbato
Virgola
9 min readMay 24, 2017

--

Credit: Salone Internazionale del libro

Nella mitologia letteraria contemporanea il Salone del Libro è il luogo sacro per eccellenza all’interno del quale si celebra il grande rito della cultura. Il Lingotto per 5 giorni si trasforma nella terra santa di migliaia di lettori che vanno in pellegrinaggio ad omaggiare i loro déi. Quest’anno anche io sono andato a farci un giro.

Chi ben inizia…

Tre giorni prima dell’inizio decido di dare un’occhiata al programma. Apro il sito e vado nella sezione dedicata. Mi accorgo che per ogni giornata ci sono almeno 15 pagine di eventi. Chiudo Chrome e clicco sull’icona di Fifa 17. Il giorno seguente mi sveglio con l’ansia di dover affrontare quell’interminabile elenco telefonico e cerco di posticipare il momento il più possibile, allenando la mia mente all’idea che prima o poi mi sarei dovuto scontrare con quel maledetto programma. Dopo 7 sigarette, 2 caffè ed una camicia sudata riesco a salvare le cose che mi interessano. Una media di 10 eventi a giornata che scientificamente e con precisione matematica si sovrappongono gli uni agli altri. Non mi faccio prendere dallo sconforto e mi dico che quando sarò sul posto deciderò cosa fare. Nel frattempo scopro che ho solo un ingresso omaggio e non c’è modo di averne altri. Penso ai 20 euro spesi la sera prima in birra e patatine, ma non me ne faccio una colpa: due giorni in meno di Salone. Il conto corrente piange e, si sa, i primi tagli sono sempre alla cultura.

Chicken dance

Per arrivare al Lingotto la metro è il mezzo più veloce. Solitamente non se la caga nessuno e quasi sempre è mezza vuota. Quando scendo le scale trovo un’immensa folla. Mi sembra di vedere la partenza per una maratona, per un attimo vedo anche qualcuno che fa stretching. Arriva il treno, le porte si aprono e comincia la gara. Le persone che erano già dentro i vagoni non riescono a scendere e rimangono intrappolate. Mi affretto e riesco a trovare un piccolo spazio fra l’immancabile ciccione puzzolente (figura ricorrente sui mezzi pubblici) e la signora che grida all’amica al telefono (figura altrettanto ricorrente). Ogni volta che mi trovo in queste situazioni penso a quella storia dei polli di McDonald’s, quelli degli allevamenti intensivi, che vivono l’intera vita in 30 centimetri quadrati.

Credit: Salone Internazionale del libro

Arrivo al capolinea e non ho nemmeno bisogno di muovere le gambe, surfo l’onda di gente che spasma per salire le scale e mi trovo in un baleno all’ingresso. Il mio biglietto omaggio mi risparmia una lunga coda ai cancelli. Supero i controlli di sicurezza ed ecco davanti a me le porte del famigerato tempio della cultura moderna. Ho appuntamento con un amico al quale devo fare delle riprese per un’intervista. Ci incontriamo ed assieme varchiamo la soglia dell’ingresso. La sensazione è quella che si prova ad entrare in un palazzetto dello sport, l’eco amplifica le voci di migliaia di persone ed è come se sopra di me ci fosse un incredibile cappa di chiacchiericcio e rumori di vario tipo. Arriviamo allo stand ed iniziamo l’intervista. Ho la telecamera in spalla e già dopo 5 minuti inizio a sudare. Sento le gocce formarsi sula mia fronte e scendere a solleticarmi le tempie. Cerco di resistere ma mi sento un idiota ed inizio ad asciugarmi con la cadenza regolare di due minuti, dando alle riprese un bellissimo effetto mal di mare. Passa qualche altro minuto e sento il fuoco sotto le ascelle. Allargo le braccia per fargli prendere aria. Arriva il mal di schiena.
Cerco una posizione più comoda. Poi iniziano a tremarmi le mani e poco dopo pure i gomiti. L’effetto mal di mare è ormai diventato effetto Titanic che affonda con oceano in tempesta. Tutto questo si trasforma in una sorta di balletto tragicomico mentre cerco di mantenere un minimo di serietà assumendo un’espressione concentrata. Alzo lo sguardo e vedo che due espositori dello stand affianco mi lanciano occhiate sogghignando. Me ne frego e gli auguro una bella diarrea fulminante.
L’intervistato non smette più di parlare. Avviso che bisogna tagliare, non c’è più tempo. Sembra aver capito, ma continua imperterrito per altri 15 interminabili minuti. Poi finalmente, stop.

Rastaman vibration

È ormai ora di pranzo e insieme al mio amico cerco qualcosa da mangiare. Troviamo un piccolo stand che vende hot-dog. Chiedono cinque euro e cinquanta per quella salsiccetta striminzita. Ecco, io oltre che ad essere spesso al verde sono anche un po’ tirchio e testardo. Così mi dico che col cazzo che vi lascio cinque euro e cinquanta per sta roba, piuttosto non mangio e muoio di fame. Mentre il mio amico fa la fila esco dalla porta lì vicino per fumarmi una sigaretta. Do la prima boccata e come un lampo si avvicina a me una presenza ciancicando qualche cosa di cui capisco soltanto la parola “rasta”. La prima cosa che penso è “ma porca vacca, gli spacciatori pure al Salone?”. Alzo lo sguardo ed è un signore di mezza età con gli occhi chiari, pizzetto e capelli corti canuti. Ha l’aspetto pulito ed ordinato. Non ha l’aria di essere uno spacciatore ed infatti non lo è. È solamente l’autore di un libro sulla religione rastafariana che inizia ad illustrarmi per filo e per segno tutta la sua opera, sfogliandola e citando intere pagine. Dentro di me so che quello è solo l’inizio di un lunghissimo pippone che culminerà con la frase “se vuoi te lo lascio”, che poi non significa un cazzo “se vuoi te lo lascio” perché se vuoi “lasciarmelo” me lo regali e me lo metti in mano dicendo “tieni te lo regalo” mica “te lo lascio”. Ad ogni modo, il suo monologo continua mentre il sole mi brucia la faccia e man mano che procede mi rendo conto di non sapere nulla sul rastafarianesimo e che questa persona ha fatto un gran lavoro di ricerca e studio di storia e teologia, paragonando testi, testimonianze, opinioni. Insomma mi stavo quasi appassionando finché lui non dice “se vuoi te lo lascio”. Hai rovinato tutto amico mio. Gli dico di lasciarmi comunque un biglietto da visita e ci congediamo. Penso che lo richiamerò, alla fine un po’ di simpatia se l’è guadagnata.

Credit: Salone Internazionale del libro

Una volta salutato il mio amico, controllo il programma e mi dirigo verso l’evento che mi interessa. Non faccio in tempo a fare due passi che mi imbatto in un muro umano sgangherato che ha tutta l’aria di essere una fila. Alzo lo sguardo sopra le teste delle persone e non vedo la fine. Lo costeggio pari pari per mezzo salone notando come per chissà quale destino la fila seguiva esattamente la direzione che dovevo prendere io. Man mano che avanzo comincia a farsi strada in me il pensiero che quelle persone potrebbero essere lì proprio in attesa di entrare allo stesso evento in cui devo andare io. Impossibile, mi dico. E invece no. Possibilissimo. Non mi abbatto e trovo un altro incontro che mi potrebbe interessare. Scavalco il muro umano e davanti a me si para subito un’altra fiumana di gente a comporre una seconda fila, più corta, che confluisce in quella precedente. Mi fermo per un attimo ad osservare e scuotendo la testa penso che nemmeno i libri possono salvare le teste di cazzo.

Mission Impossible

Devo attraversare l’intero salone per poter raggiungere la mia nuova meta così mi immetto nel flusso di gente. Dopo neanche dieci metri, già due persone mi sono passate sui piedi con i loro trolley. Mi guardo attorno e vedo trolley di ogni tipo. Gialli, rossi, rigidi, morbidi, medi, piccoli e perfino una bambina con uno rosa delle Winx. Secondo me lì dentro non ci mettono nemmeno i libri, ma il pranzo portato da casa perché sono tirchi e al verde pure loro. Penso che il giorno successivo avrei potuto portare il mio trolley rosso senza sentirmi uno scemo.

Credit: Salone Internazionale del libro

Provo a guadagnare qualche metro verso la mia destinazione ma vengo continuamente fermato da persone che mentre camminano improvvisamente si fermano. Sembra che lo facciano apposta. Si inseriscono sulla tua traiettoria di camminata e poi, tac. Ti si inchiodano davanti. E si fermano sempre in un punto scomodo da aggirare. In una strettoia, a fianco a un altro gruppo fermo o vicino a un muro sul quale devi strisciare rasente trattenendo la pancia perché col cazzo che loro si spostano. Ci prendo la mano e riesco a prevedere quando loro si pianteranno davanti a me. Riesco con sicurezza a riprendere la mia strada quando mamme impazzite col passeggino mi sfrecciano su tutti i lati. Sono circondato.
Ma ancora una volta non mi perdo d’animo e riesco ad aggirare l’ostacolo, intravedo la sala sul fondo, penso che posso farcela, che a breve potrò sedermi e godere delle parole di un illustre nome fino a quando attorno a me non cominciano a ronzare come mosche esseri umani ibridi per un terzo uomo, un terzo passeggino e un terzo trolley che si incagliano fra di loro bloccando ogni sventurato che passa da quella zona.

Credit: Salone Internazionale del libro

Allora provo a prendere una via secondaria, più stretta, ma ecco che scopro che i corridoi minori sono infestati da creature selvatiche che prendono il nome di “preadolescenti”. Corrono, schiamazzano e ascoltano Rovazzi a tutto volume dal cellulare. Sento che sto per esplodere in un pianto isterico quando una voce si rivolge a me e mi dice: “Ciao! Vuoi imparare una tecnica che ti permette di imparare e memorizzare molto velocemente?” Alle sue spalle l’insegna dello stand recita “genio in 21 giorni”. Gli dico che non c’ho soldi e loro ne chiedono un sacco. Lui inizia una filippica incredibile sul fatto che se tengo ad una cosa sono anche disposto ad investirci. Di tutto punto gli rispondo che infatti ho già sborsato diecimila euro per fare la scuola che faccio. Io gli dico che faccio la Scuola Holden e lui con una faccia stranita mi dice “non la conosco”. Senza troppi filtri gli rispondo: “Ma come, sei al salone del libro e non sai che cos’è la scuola Holden?” E la sua risposta è stata: “Io lavoro”. Ecco, beato te. Grazie e arrivederci.

Aspetta e spera

Finalmente arrivo all’evento che mi interessa. C’è già una discreta fila nonostante manchino ancora 30 minuti. Chiedo conferma di essere nel posto giusto: “Mi scusi è la fila per Damilano?” “No, noi siamo in fila per Starnone”. Le persone subito a fianco però mi confermano che loro invece sono in fila per Damilano. La coda si agita e tutti chiedono a tutti per che cosa sono in fila. Non capisco più niente e nel dubbio mi metto in fondo ed inizio ad aspettare anche io. Tanto, mi pare di capire, l’importante è fare la fila, poi per che cosa non importa, tu mettiti dietro e aspetta.

Tutto sommato, dai…

Il pomeriggio si svolge seguendo questo copione: gente che non sa dove andare, trolley, passeggini, file, caldo, rumore. Quando la sera esco da quell’enorme hangar sono completamente rincoglionito. Ho le gambe rotte, la testa ovattata e gli occhi che mi bruciano.
Mentre mi fumo una sigaretta sulle gradinate dell’uscita, ripenso a tutta la mia giornata. Lentamente le orecchie si liberano, le gambe riprendono forza e gli occhi si rilassano. Ripenso a tutti gli incontri a cui sono riuscito a partecipare e solo in quel momento mi dico “però, che bello”.
Salgo sulla metro pensando a cosa avrei potuto metter il giorno dopo dentro il mio trolley.

--

--