Storie di ordinaria integrazione, ieri e oggi

Elisa Bellino
Virgola
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6 min readSep 30, 2017

904 Dopo di Cristo, Robilante celebra la cacciata dello straniero dal volto del colore dell’ebano

2016 Dopo Cristo, Robilante accoglie lo straniero dal volto del colore dell’ebano.

E’ mattina quando arrivo, carica di viveri di ogni tipo, come uno di quegli arabi che passano per le strade a vendere ogni sorta di cianfrusaglia. Varco la soglia di Robilante come il figliol prodigo che ha disilluso ogni aspettativa del “padre padrone”, e rimette piede nel suolo natale a capo chino e totale solitudine, in cerca di redenzione. Mi rendo conto di non essere sola.

Tornare a casa è sempre difficile. Quel paesino di 2500 abitanti, incastonato nella montagna a 686 metri di altezza, 90 km da Ventimiglia e 100 dalla mia Torino; trascina dietro di sé un velo di speranze ormai morte, pensieri infantili, giochi di gruppo fino a tarda notte e camminate sfiancanti.

Robilante. Vista suli prati che accompagnano la salita verso la frazione del Malandrè

Armandomi di buona volontà attraverso il centro ciottolato e, dando le spalle alla chiesa barocca, ricordo i tempi di quando la religione era un calderone, all’interno del quale riporre ogni paura: del futuro, del passato, della morte e della vita. Robilante, che un tempo era un borgo povero e semplice, mi sorprende sempre per la sua immobilità. Per lungo tempo il paese fu feudo dell’abate di San Dalmazzo, per poi divenire distretto di Cuneo e passare in mano ai Savoia, nel 1364. Nel corso dei secoli si susseguirono diversi padroni, che contribuirono a scrivere la storia di questo piccolo paesino intriso di anni e anni di cultura e tradizioni, che trasudano dai muri di quelle case secolari, sparse per i prati verdeggianti, e dalle piccole cappelle campestri.

Ma il mio luogo preferito è certamente il Malandrè, una piccola frazione situata sulla destra ortografica del fiume Vermenagna, a circa 900 metri di altezza. Raggiungere tale luogo è per me un’esperienza mistica che sfiora il trascendentale. La strada, asfaltata a metà, è composta da tornanti di cui il diametro rimpicciolisce man mano che saliamo verso l’alto. Si ha come l’impressione di raggiungere il monte Olimpo, quando la salita si fa man mano più ripida, e l’aria diventa fine e tagliente, anche nei giorni d’estate. Ad ogni curva si prova la speranza di aver raggiunto la sommità, ma non è mai la fine. Attraverso il ponte del “Rio Vermenagna”, come lo chiamavo da bambina, credendo che fosse il mare; fiancheggio una zona denominata “Teit Freid”e la strada diventa più ripida, le curve si stringono quasi ad abbracciarmi, i pini impediscono ai raggi del sole di toccare il suolo. Gli esseri umani si diradano, man mano che salgo, la loro lingua cambia dall’italiano ad un piemontese stretto, che io stessa fatico a comprendere. E’ facile incontrare qualche pastore su di qua, con il gregge alle spalle, o qualche ciclista che tenta la salita della morte.

Quel giorno, però, incontrai due ragazzi neri che accompagnarono silenziosamente il mio cammino, fino alla cima.

Quando ero piccola arrivavo correndo gli ultimi passi che mi separavano dal “Pilone del Moro”, con i muscoli delle gambe in fiamme, il viso paonazzo e la felicità di una bambina cresciuta sui monti.

“Pilone del Moro”, frazione Maladrè, Robilante

“Il Pilone del Moro” è una piccola struttura verticale costruita in muro con una nicchia ricavata all’interno, a protezione di un affresco. Ricorda la strage avvenuta tra il comune di Boves e Roccavione, ai piedi di una collina; luogo tutt’ora denominato in dialetto piemontese “Ciadel”, (dal latino clades, che significa appunto strage), avvenuta durante l’invasione dei “mori”. La storia racconta che, intorno all’anno 904, i Saraceni, gli infedeli dalla pelle color ebano, scesero nella Valle mettendo a ferro e fuoco i centri abitati. La popolazione venne in gran parte trucidata e i superstiti furono costretti a fuggire. Mia nonna mi raccontava la storia dei “negri infedeli” con molto orgoglio, in quanto, nonostante fu una tragedia, rappresenta la forza dei robilantesi nei confronti della cacciata del nemico.

Robilante mi stupisce accogliendo superstiti di una guerra lontana. Giovani uomini dalla pelle color ebano, che hanno attraversato il mediterraneo su un gommone gonfiabile, con il terrore, che ancora morde loro le caviglie. Uomini paralizzati come marionette, nell’attesa infinita di ottenere un’identità. Un tempo cristallizzato nell’aspettativa di uno o due anni, che si colora di campi verdeggianti, salite massacranti e l’aria pungente di un paesino di cui non conoscono la storia, le tradizioni, e nemmeno la lingua.

Robilante. Cappela campestre innevata

Un viaggio che mi raccontano con una glacialità e una consapevolezza disarmante, tanto che riesco a sentire l’odore del deserto, il terrore che paralizza ogni muscolo presente in corpo, quando si realizza, a soli vent’anni, di essere in mano a trafficanti di esseri umani. Il pentimento, che assale la coscienza, per aver lasciato il calore famigliare verso una morte sicura; l’istinto di sopravvivenza, che obbliga l’essere umano ad una metamorfosi lenta, durante la quale il cuore si protegge da ogni agente esterno. La sola cosa importante è avere salva la vita, pagata il prezzo di troppe altre morti.

Robilante è la terra promessa, un paese di transizione dove abbassare le difese, rilassare i muscoli e coprire il proprio corpo con comodi vestiti. E’ un luogo tranquillo, a misura d’uomo, dove la vita scorre fluida, immobile, senza particolari scossoni.

L’ambiente è impregnato di colori nuovi, troppo verde e poca civiltà, ma va bene così, “No c’è problema”, perché qualcuno si prende cura di loro, si preoccupa di impartire loro lezioni di italiano e matematica, di attivarli nell’area comunale attraverso i lavori socialmente utili.

Robilante non è più una zona nemica, anche se si, all’inizio non volevo starci. Mi sembrava un buco di posto, quei luoghi magici delle favole che mia mamma mi raccontava da bambino; dove la vita è ferma, gli uomini non invecchiano, non muoiono, e i bambini non nascono. C’è anche la foresta sacra, vedi”, mi dice sorridendo, indicandomi il boschetto dove, più di 15 anni fa, provavo l’ebrezza del mio primo bacio.

E’ già notte quando i lampioni della strada si accendono ad intermittenza, il freddo ci sorprende impreparati, la fame ci attanaglia lo stomaco. Sorrido nel vuoto, non riesco bene a vedere il loro volto.

“Cosa si mangia qua? Vieni, prepariamo l’Ugali, ti piacerà”.

Qualcosa bolle in pentola, ma non mi è permesso di sapere cosa. Il coperchio appiattito da chissà quale bomba attutisce i borbottii dell’acqua che bolle. Il vapore si ribella con calci e pugni contro la superficie metallica, ma nessuno lo ascolta. Scopro le l’Ugali altro non è che una semplice polenta bianca, che il fuoco può essere spento con l’acqua, anche quando è “very very big”, che la guerra è come una partita di calcio, e la vita, in fondo, non è altro che un giro in giostra.

Tornare a casa è sempre difficile, questo paesino di 2500 abitanti, incastonato nella montagna, mi regala da sempre emozioni contrastanti, prima fra tutte l’irrefrenabile voglia di fuggire verso luoghi più floridi. Ma le mie montagne, che custodiscono da sempre tutti i miei segreti, hanno aperto un nuovo varco, una porta verso l’ignoto e il diverso, che mi regala un nuovo inizio.

904 Prima di Cristo, Robilante celebra la cacciata dello straniero dal volto del colore dell’ebano

2016 Dopo Cristo, Robilante accoglie lo straniero dal volto del colore dell’ebano.

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Elisa Bellino
Virgola
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Visual designer, storyteller, creative. (Believer of stupid things).