Torino d’essai: la resistenza del cinema d’autore

Ossia come l’amore di un’intera città può salvare un patrimonio culturale di cui l’Italia pare essersi dimenticata

Gabriele Sebastiani
Virgola
8 min readMay 15, 2017

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Il Cinecafè Ambrosio di Torino, in Corso Vittorio Emanuele II (Credits: Chessifa)

Fin dalla Mole Antonelliana, suo simbolo identitario e famoso nel mondo, negli ultimi anni Torino ha scelto di legarsi indissolubilmente al cinema, decidendo di instaurarvi all’interno il Museo Nazionale del cinema e tornando a riscoprire qualcosa che le appartiene da molto tempo, qualcosa che proprio da qui ha cominciato a conquistare tutta la nostra Penisola. Prima capitale della settima arte in Italia, la città rappresenta un caso pressoché unico nel panorama culturale nostrano: in una nazione in cui negli ultimi vent’anni abbiamo assistito all’invasione dei cinema multisala con sei, otto, dieci film tra cui scegliere ogni sera, Torino è l’unica città italiana, insieme alla sola Bologna, in cui le sale d’essai hanno saputo opporre una strenua resistenza, opponendo a una disinteressata quantità una ricercata qualità che altrove ha invece dovuto soccombere.

Il multisala Reposi in pieno centro, i due The Space nella zona nord della città e nella vicinissima Beinasco, così come i due Uci Cinema nel centro commerciale del Lingotto e a Moncalieri: Torino è assediata da diversi contendenti agguerriti che puntano alla grandezza delle sale e alla spropositata varietà della scelta per spuntarla sui rivali. Eppure, in una dinamica di mercato simile, in una città che non supera nemmeno il milione di abitanti, stupisce che nel solo centro, nel raggio di appena 1,5 chilometri quadrati, si possano contare almeno sette piccoli cinema d’essai che hanno saputo resistere alla crisi, all’avvento dello streaming e della pirateria.

Per parlare di questo peculiare fenomeno mi incontro con Stefano Boni, responsabile della programmazione del Cinema Massimo, uno degli esempi delle sale di qualità di Torino. Il Massimo sorge a pochi passi dal Museo Nazionale del Cinema — da cui è peraltro gestito — in una zona centralissima della città. Boni mi fa accomodare in un ufficio che dà su una delle facciate della Mole, in via Gaudenzio Ferrari, davanti a una scrivania colma di dvd con i film di Kurosawa e di depliant dei prossimi eventi che il cinema propone.

Il Cinema Massimo visto dall’incrocio di via Verdi e via Montebello (Credits: Kitchenfilm)

“È sicuramente vero, Torino rappresenta un caso unico in Italia: ha saputo resistere all’ondata dei multisala tra gli anni Novanta e Duemila. Anzi, si potrebbe dire che c’è stato un vero e proprio revival del cinema d’essai in città”, mi conferma. “Chiaramente sono anche tante le sale storiche che hanno chiuso in questi anni difficili: basti pensare allo Studio Ritz, proprio dietro la Chiesa della Gran Madre, il cinema Fiamma in zona San Paolo o il cinema Doria, ma se a Milano e Roma sono davvero pochi gli esempi di piccole realtà che hanno saputo fronteggiare il fenomeno, a Torino non si può parlare di una debacle”.

La capacità di rimanere in piedi durante tempi avversi non dipende solo dal caso o dalla fortuna: la città sabauda sembra conservare nel suo Dna un certo appeal, una ricettività molto alta dal punto di vista cinematografico. “Torino è stata capace di costruirsi un suo pubblico nel tempo, a partire dai cineclub aperti negli anni Cinquanta e Sessanta. Da non sottovalutare, poi, la presenza in città della sede dell’Aiace — l’Associazione Italiana Amici del Cinema d’Essai — che continua ad avere quasi diecimila soci. Un’enormità”, mi spiega Boni.

Lo scenario torinese si avvale quindi di un sistema culturale che alimenta la cinefilia dei suoi cittadini. Tanta è infatti l’offerta di qualità che si contrappone al cinema più commerciale, così come sono numerose le iniziative legate alla settima arte che vengono ospitate in città nell’arco dell’anno: basti pensare al Torino Film Festival attivo dal 1982 — quando ancora si chiamava Festival Internazionale Cinema Giovani — o il LGBT Film Festival, diventato ora il Lovers Film Festival. A contribuire in maniera decisiva alla sopravvivenza di una situazione così rara, anche la passione di molti esercenti d’essai, pronti a investire i propri soldi affinché pezzi di storia di Torino riescano a rimanere a galla.

L’interno della Mole Antonelliana che ospita il Museo Nazionale del Cinema (Credits: Mole24)

Un sistema complesso che unisce pubblico e privato ha infatti permesso a una Torino orfana della Fiat di trovare nel cinema — e in realtà nella cultura nella sua totalità — il nuovo polo d’attrazione su cui investire. Basti considerare che il capoluogo piemontese ha avuto una delle prime Film Commission italiane, per anni la più attiva nel settore. In più, sembra che per i torinesi il cinema abbia un’importanza davvero particolare, che rappresenti un valore, un tratto distintivo della città da difendere e di cui vantarsi quanto la Juventus, il Bicerin o i Gianduiotti.

Un amore per la sala che rispecchia la situazione del cinema francese più che di quello italiano. La sproporzione tra i biglietti strappati Oltralpe e in Italia è abissale, con la Francia che registra un umiliante più centotrenta per cento di presenze in sala nel 2016 a fronte del solo dieci per cento di abitanti in più. “Il cinema in Francia è protetto in tutta la sua filiera di produzione. Il film non viene messo in discussione, è un orgoglio nazionale anche per il pubblico: è un’abitudine che è resistita nel tempo, al contrario dell’Italia”. Torino rappresenta quindi un’anomalia, se si esclude l’unico caso vagamente assimilabile di Bologna, in cui la cineteca della città cerca di garantire un’offerta di qualità adeguata alla grandezza del capoluogo emiliano.

Ma per un quadro che appare confortante su scala nazionale, non si possono certo nascondere anche le evidenti problematiche che bisogna affrontare ogni giorno. “La resistenza è comunque un lavoro complesso, la multi-canalità della fruizione cinematografica, legale e non, è certamente una concorrenza pesante, soprattutto per quanto riguarda le classi giovani”, spiega Boni. Sebbene non sia l’unico problema che affligge l’industria cinematografica, il download digitale illegale è forse quello che causa più danni in assoluto: “Evidentemente i sistemi dissuasivi non sono abbastanza forti: l’Italia è il secondo paese al mondo per download illegali, dietro solo alla Cina”. Un dato preoccupante che evidenzia la mancanza di adeguate risposte e contromisure volte alla tutela del cinema.

La Galleria San Federico che ospita il rinnovato Cinema Lux, per anni rimasto chiuso (Credits: Mole24)

Se è proprio tra i giovani che questo problema sembra attecchire più fortemente, è qui che per le sale d’essai torinesi bisogna ricercare una soluzione: molti gli investimenti per lavorare sul pubblico del domani, molto più sfuggevole. “Bisogna iniziare a educare i ragazzi alla fruizione cinematografica già in età scolare”, afferma Stefano Boni, che spiega come al Cinema Massimo si creino programmi ad hoc per i ragazzi delle scuole medie inferiori. “A volte alcuni ragazzini che ospitiamo ci dicono di non essere mai stati in una sala cinematografica. Ciò vuol dire che già la generazione dei loro genitori è stata disabituata ad andare al cinema: per evitare il disastro è indispensabile svolgere un lavoro di rieducazione all’immagine in sala”.

Una rieducazione che sembra poter avere un effetto decisamente positivo se parte dal basso, come ipotizza Boni, per “rinfrescare l’aria”. Le iniziative dei giovani per i giovani funzionano perché l’evento creato dai propri coetanei diventa un valore aggiunto: le nuove generazioni sentono loro un qualcosa che, fruito diversamente e proposto “dall’alto”, potrebbe indisporre. La logica dell’evento è quella predominante oggigiorno, specie se arriva da persone che vengono considerate di pari condizioni quindi: questo perché “i giovani non hanno lo stesso rispetto che noi avevamo dei nostri predecessori e in parte hanno ragione. A volte è davvero difficile prendere la generazione degli anni Cinquanta, Sessanta come possibile insegnante”, spiega lucidamente Boni. Non basta più, oggi, far vedere un bel film: serve anche qualcos’altro.

Puntare sui giovani è l’unica misura possibile in una Torino che sì, sembra ancora dedicare al cinema un’affezione speciale, ma il cui pubblico si fa sempre più vecchio. Nel suo ufficio il mio interlocutore, quasi sottovoce, mi confessa come la situazione attuale possa essere il punto massimo dello splendore dei cinema d’essai in città: “Il nostro pubblico di fiducia è costituito per il cinquanta per cento da persone che hanno ancora la sala come luogo prediletto per la fruizione del film: questa fetta di audience, però, sta calando vertiginosamente. Nel 2001, da quando lavoro per il Cinema Massimo, l’età media dei nostri spettatori si aggirava attorno ai sessant’anni. Oggi, per chi è rimasto, si avvicinano gli ottanta”. Il Torino Film Festival, vero carro trainante di tutto il sistema, sembra funzionare almeno in parte, agendo da catalizzatore e provando ad attrarre anche il pubblico più giovane. “Anche il documentario sulle formiche durante il Festival fa il tutto esaurito: è un fenomeno anomalo però. Sono convinto che senza un adeguato riciclo dal prossimo anno la situazione sarà molto meno rosea e gli spettatori precipiteranno. Presto venti sale d’essai in città saranno eccessive”.

Il Nuovo Cinema Romano in Galleria Subalpina, a pochi passi da Piazza Castello (Credits: Spotted By Locals)

Già il 2017 sembra non essersi aperto sotto i migliori auspici per quanto riguarda le presenze in sala: il primo trimestre dell’anno ha infatti evidenziato un meno ventun per cento di spettatori in Italia. Un dato che stona rispetto al più sei per cento del 2016 che però risulta essere così positivo “solo perché è uscito nelle sale Checco Zalone”. Boni sostiene come il problema non sia tanto il fatto che proprio Zalone traini il cinema italiano a un bilancio positivo, ma che “in Italia ci si basa su di lui per salvarsi. Se togli i film di Zalone c’è il deserto: bisogna farsi delle domande, anche perché i fenomeni comici del genere si esauriscono. Basta vedere Pieraccioni, Benigni, Aldo, Giovanni e Giacomo. Questo rischia di essere un anno complicato, un anno in cui dovremo chiederci se la realtà effettiva è quella positiva del 2016 o se dobbiamo prepararci a situazioni in perdita come in questi primi mesi”.

Quando chiedo se i vari festival cinematografici torinesi possano portare nuovi affezionati nelle sale, Boni mi racconta del paradosso che pesa sul Torino Film Festival: “Il pubblico non si affeziona, molto spesso c’è uno zoccolo duro di cinefili e qualche curioso, ma anzi: dopo la rassegna c’è un crollo spaventoso di presenze. Per qualche settimana dopo il TFF le sale sono vuote, come se la grande sbornia da film porti a un down di spettatori: eppure allo stesso tempo non si può rinunciare a un evento simile. Sottrarre occasioni del genere a Torino sarebbe una tragedia”.

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