Una Jihad al femminile: rileggere il Corano per un Islam più equo

Il femminismo islamico è ritenuto dai più un ossimoro, ma è davvero così? Al Salone del Libro Luciana Capretti racconta le storie di donne coraggiose che partendo dai testi sacri cercano di scardinare oppressione, pregiudizi e stereotipi.

Gabriele Sebastiani
Virgola
6 min readMay 23, 2017

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L’opera dell’artista iraniana Shirin Neshat “Nida (Patriots)”, copertina dell’opera di Luciana Capretti La Jihad delle donne, presentata al Salone del Libro di Torino.

È il 2001 l’anno in cui noi occidentali abbiamo cominciato a conoscere, relazionarci e convivere con l’Islam. O meglio, abbiamo cominciato a metabolizzare questo culto dal nostro particolare punto di vista, quello di una cultura che si auto elegge più avanzata, più progressista e che si sente minacciata dal diverso, che purtroppo si è presentato a noi nelle sue vesti più macabre, distorte ed eclatanti, ponendo quindi le basi per un sentimento diffuso di timore che fatica ancora oggi a scemare.

Sedici anni dopo, nel 2017, eccoci infatti ancora divisi a dibattere tra chi dell’Islam vuole vedere solo lo stereotipo sedimentato nel tempo da atti eversivi, figli più di menti travagliate che di veri fedeli di Allah e chi, invece, cerca di combattere l’associazione ormai inconscia tra Corano ed esplosivi studiandone i retroscena, alzando quel velo di superficialità molto caro a chi ama riversare opinioni senza averne i mezzi per farlo adeguatamente. Perché l’Islam non è solo quello estremista, perché l’Islam non è solo oppressore, perché dell’Islam, alla fin fine, forse conosciamo solo un lato della medaglia: quello tramandato, difeso e predicato dagli uomini.

Il Corano — di cui molti musulmani, specie quelli reazionari, millantano di conoscerne gli insegnamenti senza aver mai studiato una sola pagina — è stato infatti letto, tradotto e usato ideologicamente per quattordici secoli solo da una prospettiva esclusiva, quella maschile: un punto di vista che con il passare del tempo ha cercato sempre più di soggiogare quello opposto, quello delle donne, togliendo loro progressivamente libertà, diritti e usanze e instillando in noi una visione spesso distorta e dispregiativa di cui però non sembriamo conoscere l’origine. Tra i divieti imposti da un credo fortemente manipolato dall’uomo, vi è soprattutto l’impossibilità di attingere alla fonte sacra delle parole divine per interpretare e valorizzare ciò che è stato nascosto o trasfigurato: il senso di equità e parità tra i sessi di cui il Corano si fa promotore nella sua originalità sconosciuta in Occidente e, molto spesso, anche tra chi potrebbe beneficiarne in prima persona.

Ma qualcosa in questo senso si sta muovendo. Un qualcosa che noi occidentali non riusciamo ancora vedere chiaramente, di cui non conosciamo gli estremi e che ci sfugge mentre si alimenta sotto il nostro naso, quando noi siamo ancora intenti a guardare il dito che invece ci sta indicando la Luna. È infatti dagli anni Novanta che diverse donne islamiche figlie della globalizzazione, con l’Oriente e l’Occidente che scorrono insieme nel sangue, provano a dirci che la versione che conosciamo del loro credo non è quella giusta, non è quella vera per tutti. Si chiamano Amina Wadud, Ani Zonneveld, Sherin Khankhan o Shirin Ebadi. Vivono negli Stati Uniti, in Danimarca, in Germania e, seppur con posizioni culturali e religiose differenti, vogliono lanciare un messaggio ben chiaro: c’è un’altra jihad che non usa i mitra, è quella delle donne che rileggono il Corano per rivendicare come l’Islam sia la religione più egualitaria tra i monoteismi, per dire che è ormai tempo che i testi sacri vengano rivisti, attualizzati e che i musulmani si sgravino da una tradizione che va contro a molti degli insegnamenti cardine della loro stessa religione. Una jihad che ritrovi insomma il suo significato etimologico più vero, a discapito di quello che siamo abituati a sentire più spesso, legato a ben più tristi ambiti: la jihad come una sfida personale.

Amina Wadud, la prima donna che è riuscita a condurre la preghiera come imamah a New York nel 2005

Le storie di queste donne coraggiose sono raccolte ne La jihad delle donne di Luciana Capretti, giornalista Rai che ha deciso di far luce sull’ancora poco noto femminismo islamico occidentale, iniziando la sua indagine in occasione di un servizio da preparare per Tg2 Dossier. Presentato al Salone del Libro di Torino il 19 maggio 2017, il volume raccoglie le esperienze di imamah — femminile di imam, colui che conduce la preghiera del venerdì davanti ai fedeli — di guide spirituali, di alcune conversioni e della loro lotta per una cultura islamica che si confronti con il presente per evolversi, riscoprendosi più liberale. I movimenti delle donne di cui si parla restano per ora minoritari nel marasma di correnti discordanti che vivono in seno all’Islam. Il loro sforzo per attestare che tra le righe del Corano vi sia la prova dell’uguaglianza tra uomini e donne spesso è condannato aspramente da chi non accetta una rilettura in rosa delle sure, di chi ne ha paura.

Perché dietro la riscoperta del testo sacro si nasconde un mondo nuovo di idee, di prospettive, di emancipazione che potrebbe lentamente corrodere quell’Islam di stampo ultraconservatore ed eversivo. Il movimento femminista islamico — definizione che ancora oggi molti guardano con sarcasmo, ritenendo che le due parole messe siano un ossimoro — è frutto di una coesistenza culturale che fa della simbiosi tra credo, etnie e lingue diverse il terreno adatto per far maturare un cambiamento sociale auspicato da troppo tempo. Non è un caso che le rappresentanti più esposte nella lotta per un Islam più equo siano donne che si definiscono occidentali non solo per via del loro certificato di nascita ma anche per appartenenza culturale, senza per questo rinunciare alla loro identità di fedeli musulmane. Non è nemmeno casuale il fatto che la maggioranza di queste donne appartenga alla seconda generazione di migranti in terre occidentali, dovendo far quindi i conti con uno stile di vita che tende a ovest e un credo religioso che tende a est, tanto che alcune di loro si ritengono ibride. Tutte loro ritornano alle origini con uno spirito critico figlio del loro background multiculturale che, se fossero nate in Iran, Egitto o Arabia Saudita, difficilmente avrebbero potuto vantare. Un po’ come se la simbiosi tra due mondi apparentemente incompatibili abbia causato una dissonanza cognitiva capace di aprire strade di libertà ed evoluzione prima impraticabili o forse addirittura invisibili.

La domanda che sembra spingere tutte queste donne a rivedere il testo cardine del loro culto per migliorarne l’applicazione nel mondo è legata a un dato sorprendente: si calcola infatti che entro o poco dopo il 2050 l’Islam potrà vantare lo stesso numero di fedeli del Cristianesimo, per ora il credo con più proseliti nel mondo. “Che tipo di Islam vogliamo per inaugurare quel traguardo storico, che immagine della nostra cultura, del nostro credo vogliamo far riecheggiare ad ogni latitudine?, si chiedono le donne dell’Islam, alcune velate, altre no, tutte convinte che l’oppressione vera non sia tanto nell’indossare un copricapo simbolico quanto più nell’imposizione di un’unica lettura, peraltro errata, del Corano. Ed è questo che le spinge ad andare avanti per veder finalmente raccontata la storia dal loro punto di vista, sperando di poter scardinare uno per uno, lentamente, i preconcetti che condizionano il pensare occidentale, di cui loro non si possono dire certamente fautrici.

Una sfida lunga, sfibrante eppure imprescindibile: o si nega l’Islam e la propria cultura nella sua interezza o si cerca per lo meno un compromesso che consenta alle donne piccoli diritti negati da una misoginia risalente al Medioevo — non certo agli insegnamenti di Maometto: pregare insieme agli uomini, divorziare, aborrire e condannare i matrimoni tra bambine e uomini, condurre la preghiera del venerdì in Moschea, esprimere la propria idea, dire a un uomo: “No, stai sbagliando”. Diritti che forse riteniamo per lo più scontati, dimenticandoci che in Italia, nemmeno cinquant’anni fa, una donna non poteva lasciare suo marito se lo riteneva necessario.

La lettura del libro di Luciana Capretti permette quindi di conoscere una realtà rimasta troppo tempo taciuta, facendo risvegliare in noi la voglia di supportare e credere in questa piccola, grande rivoluzione portata avanti da chi non ha più voglia di abbassare il capo e sottostare a una lettura del mondo che ha fatto il suo tempo, sperando che la jihad personale di queste donne audaci diventi una sfida globale per un mondo più equo, coinvolgendo anche le loro sorelle musulmane che ancora vivono in paesi dove l’emancipazione femminile pare essere solo un’utopia.

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