Voci catalane

Rebecca De Fiore
Virgola
Published in
6 min readNov 22, 2017
Foto di Argenis Ibanez

Durante la crisi catalana abbiamo imparato a conoscere i protagonisti politici e le loro posizioni: il dialogo tra sordi di Mariano Rajoy e Carles Puigdemont, le dichiarazioni del Re e le violenze della polizia nel giorno del referendum. Ma quali sono le opinioni dei cittadini comuni? E come argomentano le loro adesioni ai rispettivi schieramenti? Si riesce ancora a discutere serenamente tra unionisti e indipendentisti? Abbiamo ascoltato tre cittadini di Barcellona con posizioni, età e storie diverse per provare a comprendere come i catalani stiano vivendo questi giorni di incertezza.

“Noi spagnoli amiamo parlare di politica, ma la polarizzazione, le violenze del 1 ottobre e le forti dichiarazioni dei politici impediscono una discussione che possa aiutare”, afferma il giornalista Jordi Barrachina, convinto che la Spagna debba essere uno Stato federale. Kenneth Vera, ingegnere unionista, la pensa allo stesso modo: “Con amici e familiari non si parla della questione per evitare conflitti. Questo dibattito non arricchisce la società, la divide”. Arnau Cusi Garcìa, studente di Scienze Politiche all’Università Complutense di Madrid e schierato a favore dell’indipendenza, crede, invece, che “la grande partecipazione abbia rivitalizzato la società catalana. Sono sorte tante organizzazioni cittadine a livello locale e le università non vivevano un fermento simile dal 2011, anno delle proteste contro i tagli all’istruzione”.

Kenneth Vera — Illustrazione di Elisa Bellino

Lingua e istruzione. Kenneth sostiene che gli indipendentisti si siano approfittati della crisi economica per rilanciare la loro causa e il 28 ottobre ha partecipato, avvolto in una bandiera spagnola, alla manifestazione unionista a Barcellona. Tifa Espanyol e non è d’accordo con la linea seguita dalla squadra rivale, il Barcellona, che ha scelto di schierarsi pubblicamente a favore dell’indipendenza: “Se la pensano così dovrebbero smettere di giocare nella Liga spagnola, ma ci sono troppi interessi economici”. In famiglia parla spagnolo ed è in spagnolo che ha scelto di educare i suoi tre figli: “Li porto in una scuola privata proprio perché possano parlare allo stesso modo il castigliano, il catalano e l’inglese. Nelle scuole pubbliche l’indottrinamento a favore della catalanità inizia già da piccoli”.

La pensa diversamente Jordi, che ha scelto di iscrivere suo figlio in una scuola pubblica dove “ai bambini insegnano la storia e la cultura spagnola, oltre al Rinascimento italiano e alla geografia della Catalogna. Parlano indistintamente lo spagnolo e il catalano, non conosco nessun bambino che non parli perfettamente il castigliano”.

Jordi Barrachina — Illustrazione di Elisa Bellino

Stampa. Jordi ha 56 anni e lavora per la televisione spagnola. Non è soddisfatto, però, di come la stampa sta gestendo il conflitto tra unionisti e secessionisti. “Credo che le televisioni, insieme ai social network, stiano acutizzando il problema con grida e insulti. C’è stata violenza, ci sono persone in carcere e c’è un serio problema politico che non si risolve gridando. Ci sono movimenti come Parlem-Hablemos che la pensano in questo modo, ma quando c’è una polarizzazione di questo genere nessuno li ascolta o li mette in prima pagina”.

Dover scegliere tra l’essere spagnoli o catalani, secondo Jordi, non significa nulla. Per lui essere spagnolo vuol dire mangiarsi un gazpacho freddo o bersi una birra con gli amici. Rispetto all’indipendenza della Catalogna, ha sempre sostenuto che la Spagna debba essere uno Stato federale, piuttosto che una repubblica. “Credo che il conflitto catalano sia una crisi dello Stato spagnolo. Il movimento indipendentista non ha niente di identitario o etnico, è un movimento che lotta per una miglior gestione delle risorse e per una politica non autoritaria. Le classi medie e popolari catalane si sono ribellate contro il silenzio e la corruzione del partito che sta al governo e che usa gli strumenti dello stato come li usava la dittatura franchista. L’unica soluzione è realizzare un referendum legale, d’accordo con il governo, per vedere esattamente cosa vogliono i cittadini”.

Arnau Cusi Garcìa — Illustrazione di Elisa Bellino

Identità spagnola. Secondo il sondaggio di Metroscopia per El Pais, oggi gli indipendentisti convinti sono circa il 30% della popolazione catalana. La famiglia paterna di Arnau è indipendentista dai tempi del franchismo e il padre ha sempre militato in partiti catalanisti. Per questo in casa hanno sempre parlato catalano, anche con la madre che, originaria di Burgos in Castiglia, lo ha imparato per rispetto nei confronti della regione che l’ha accolta. “Io mi sento catalano”, afferma Arnau. “La Spagna non è mai riuscita a creare una propria identità e le persone sentono una grande appartenenza alla regione in cui nascono. Lo stesso vale per la cultura: si parla della paella valenciana, del chotis di Madrid e delle sardenes catalane. È sbagliato dover creare a tutti i costi una cultura unitaria”.

Economia e Europa. Uno degli aspetti più discussi e concreti della separazione sono gli effetti sull’economia. Madrid perderebbe il 20% del suo Pil nazionale e circa 16 miliardi di euro di contributi che incassa con le tasse. Anche la Catalogna, però, nonostante sia una delle regioni europee più industrializzate, potrebbe subire ripercussioni. In seguito al referendum centinaia di imprese hanno cambiato sede, tra cui i due colossi bancari locali, la Caixa a Valencia e Banco Sabadell ad Alicante. Inoltre l’uscita dall’UE e dall’euro, oltre a farle perdere i fondi strutturali e di investimento europei, potrebbe crearle non pochi problemi per l’esportazione dei prodotti, considerando che oggi la Catalogna esporta prodotti in Spagna per 44 miliardi di euro l’anno e in Europa per 37 miliardi. Kenneth, che lavora come ingegnere a Barcellona, è preoccupato per la situazione. “Nel mio lavoro stiamo già notando le conseguenze, si sono fermati improvvisamente numerosi investimenti immobiliari. Rischiamo di entrare in una nuova crisi economica dovuta alla perdita di impieghi”.

Una Catalogna indipendente presenterebbe domanda immediata per l’ingresso nell’Unione europea, avendo già a Bruxelles un ufficio di rappresentanza permanente come gli Stati membri, e con un’economia di 212 miliardi di fatturato l’anno farebbe parte del gruppo di economie più grandi dell’area euro. Ma l’ingresso nell’UE sembra impossibile, perché Madrid non riconoscerebbe l’indipendenza ponendo un veto. “Anche la Spagna dovrebbe lasciare l’Europa, perché la Spagna senza la Catalogna sarebbe un’altra cosa. Un nuovo paese, con una costituzione nuova, che dovrebbe fare domanda per entrare nell’Unione europea. Io credo che alla fine per una questione economica saranno costretti ad accettare entrambe nell’UE”, sostiene Arnau. In un futuro con la Catalogna indipendente, Jordi non riesce a vedere una Barcellona diversa da quella di oggi, con le frontiere chiuse e senza studenti Erasmus. Immagina due stati che possano collaborare tra di loro: “Ci sono teorici che parlano di Stati cooperativi pensando a Spagna e Catalogna. Credo che il futuro passerà da qui: una federazione del XXI secolo”.

Le prossime elezioni. Il ritorno alle urne per restituire alla Catalogna un governo eletto dai cittadini era l’opzione preferita dalla maggior parte dei catalani, indipendentemente dallo schieramento, già prima che Rajoy optasse per l’attuazione dell’articolo 155. Stando al sondaggio di Metroscopia, appoggiano le elezioni soprattutto i votanti di Ciudadanos. Tra loro, il 21 dicembre, andrà a votare Kenneth: “Purtroppo temo che non vincerà nessuno e che la situazione non cambierà. Per risolverla occorre dialogare e arrivare a un patto fiscale, che è il vero problema di tutta questa situazione”. Jordi non voterà Ciudadanos, ma andrà a votare anche lui: “Credo che torneranno a vincere i partiti che sostengono l’indipendenza. Queste elezioni daranno solo un momento di respiro. Finché il governo spagnolo e il Parlamento non inizieranno a negoziare o le sinistre non riusciranno a vincere e a fare le riforme di cui ha bisogno il Paese, questo conflitto andrà avanti”.

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