We will make America great again

Rebecca De Fiore
Virgola
5 min readJan 30, 2017

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L’insediamento di Trump alla Casa Bianca tra retorica del declino e slogan da campagna elettorale.

Nessun accenno alla storia americana né alla Costituzione. E, dopo un rituale quanto breve ringraziamento al suo predecessore, la descrizione di un paese distrutto e da ricostruire. Sceglie toni duri e cupi, Donald Trump, per il suo discorso di insediamento pronunciato il 20 gennaio 2017 a Capitol Hill. “Non stiamo solo trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra o da un partito a un altro, ma stiamo ridando il potere da Washington a voi, il popolo”, afferma il quarantacinquesimo presidente Usa in quella che è probabilmente la frase chiave della sua orazione.

Seduti dietro di lui ci sono i protagonisti della recente storia politica americana: i Clinton, i Bush, gli Obama. Presidenti che nei loro discorsi di insediamento avevano deciso di ricordare le fasi cruciali della storia del Paese sottolineando i sacrifici dei loro antenati. Donald Trump, invece, sceglie di differenziarsi da tutti loro parlando di una storia in cui il potere è stato concentrato nelle mani di élites e politici e affermando che “tutto questo cambierà. Partendo da qui e da ora”.

Nel suo discorso, il più breve da quello di Jimmy Carter nel 1977, Trump non si è discostato dal suo stile. Ha, infatti, riproposto gli stessi temi affrontati nella campagna elettorale affermando di voler determinare, insieme ai cittadini Americani, il corso dell’America e del mondo “per molti, molti anni”. Nonostante una Capitol Hill più vuota del solito, il suo basso livello di popolarità e le numerose manifestazioni non violente in una Washington divisa in due, sembrerebbe quasi che il presidente Trump già speri in una sua rielezione tra quattro anni.

Il New Yorker lo ha definito un “dark inaugural”. L’America descritta da Trump, infatti, è il ritratto di un Paese triste e solo, abbandonato negli ultimi anni. È un Paese pieno di vittime, lasciate sole dall’establishment che per troppi anni ha protetto solo se stesso: “madri e bambini sono intrappolati nella miseria nelle nostre città; le nostre fabbriche arrugginite sono sparse come cimiteri nel paesaggio della nostra nazione; un sistema educativo dispendioso, ma che diploma i nostri meravigliosi studenti privi di ogni conoscenza; e il crimine, le bande e le droghe hanno rubato troppe vite e privato il nostro Paese di tanto potenziale non realizzato. Questa carneficina americana si arresta qui e ora.” Nella frase finale di questa violenta descrizione, colpisce l’utilizzo della parola carnage (carneficina). Si nota, infatti, tutta la crudezza del lessico usato da Trump che si rivolge agli americani usando parole forti, che parlano alla pancia e non al cuore. È, quindi, secondo lui, arrivato il momento di cambiare, di proteggere finalmente il popolo da tutto questo. E Donald Trump si presenta come l’unica figura capace di difendere la sua gente promettendo di tornare a occuparsi dei dimenticati. I forgotten men, infatti, su cui ha fatto leva durante tutta la campagna elettorale sono di nuovo al centro del discorso. I forgotten men “non saranno più dimenticati”.

È come se il nuovo presidente volesse assicurarsi che l’America sappia quanto fosse miserevole prima della sua venuta. Ma è davvero così l’America descritta da Trump? Sembra di essere tornati indietro nel pieno della crisi del 2008 quando ogni giorno decine di fabbriche erano costrette a chiudere e migliaia di americani perdevano il posto di lavoro. Oggi, invece, alle soglie del 2017 la situazione sembra essere cambiata. Il presidente uscente Barack Obama, infatti, nel suo penultimo mese alla Casa Bianca, ha portato il tasso di disoccupazione al 4,6%, livello minimo dall’agosto del 2007. I mille posti di lavoro che Trump ha salvato in Indiana lo scorso dicembre sembrano niente rispetto ai 178.000 impieghi aggiunti solo nel mese di novembre da Obama, che in 8 anni di presidenza ha garantito 15,5 milioni di assunzioni.

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-12-02/disoccupazione-usa-minimi-nove-anni-154056.shtml?uuid=ADqMZL6B

Le bande criminali e la droga stanno davvero distruggendo l’America privandola di giovani promettenti? Assistiamo forse a un “massacro americano” nella Chicago delle gang, ma a livello nazionale la verità è che il tasso di criminalità è al livello più basso da decenni.

La storia di un Paese in declino prosegue quando Donald Trump affronta il tema della politica estera. I governi precedenti, a suo avviso, hanno speso risorse preziose oltreoceano a scapito dell’industria americana. Hanno pensato a difendere solo i confini stranieri dimenticandosi dei propri. “Ma questo è il passato”, dice Trump, “da oggi una nuova visione governerà il nostro paese. Da oggi l’America viene prima di tutto”. Torna così fuori il tema dell’America first, termine che il Presidente utilizza senza conoscerne apparentemente la storia. America first, infatti, erano anche le parole che galvanizzarono un vasto movimento populista contrario all’ingresso degli Usa in guerra contro la Germania nazista nel 1940. Fu creato anche un comitato in quegli anni, l’America First Committee, che si opponeva al sostegno offerto a Francia e Gran Bretagna dal presidente Roosevelt.

Le critiche al discorso del tycoon, a livello internazionale, si sono concentrate soprattutto sull’America First e sulla visione protezionistica di Trump. Il Presidente, infatti, ha affermato che “ogni decisione sul commercio, sulle tasse, in materia di immigrazione, sugli esteri sarà presa a beneficio dei lavoratori americani e delle famiglie americane. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri paesi che distruggono i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono il nostro lavoro”. Quest’affermazione ha destato grande preoccupazione in tutto il mondo dal momento che dietro ai toni patriottici si teme possano nascondersi tendenze nazionalistiche e isolazioniste.

Donald Trump per il suo discorso di insediamento ha scelto un linguaggio semplice che potesse arrivare facilmente a tutti i cittadini. Come se volesse rendere facile la memorizzazione e per fissare alcuni punti importanti utilizza molte liste (jobs, factories, wealth) e ripetizioni (“right here and right now”, “their victories have not been your victories, their triumphs have not been your triumphs”, “their dreams are our dreams, and their success will be our success”, “millions and millions”, “trillions and trillions”…). La protagonista assoluta del suo discorso è l’America e America, infatti, è la parola usata più volte dal Presidente: ben 33 volte. Seguono i termini paese, nominato 11 volte, e persone, nominato 10. Se non stupisce che siano queste tre le parole più usate da Trump, spesso protagoniste di altri discorsi inaugurali, colpiscono alcune parole da lui usate per la prima volta in quest’occasione, su tutte carnage e Islamic.

Donald Trump conclude il suo discorso di insediamento come ha concluso tutti i suoi comizi elettorali — together we will make America great again — come se parlasse ancora ai suoi sostenitori e non all’intera nazione. Agita ripetutamente il pugno destro nell’aria, benedice l’America e stringe la mano ad Obama, che con il suo discorso inaugurale del 2009 aveva suscitato ben altre reazioni.

Il testo integrale del discorso

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