Lettera a mio padre

Lorena Ramonda
Vita un giorno disse
4 min readApr 18, 2020

Ho sperato tanto che non arrivasse mai questo giorno. Perché una vita senza papà io non la volevo. Come si fa a vivere senza papà? Come ci riesce la gente? Da chi vai quando vuoi dei consigli? Quanto ti serve un abbraccio? Chi mi difenderà? L’unico uomo che mi abbia veramente rispettato e voluto bene. E invece guarda. Sono 10 anni che manchi da questa casa, da questa terra che amavi tanto e che non avresti lasciato per niente al mondo. Guarda, guarda com’è la vita.

Tu eri quello che in casa portava sempre il sorriso e l’allegria, a volte scherzavi così tanto che mamma si arrabbiava: “ah, se peul pa parlese cun ti!”[1] e noi ancora più giù a ridere. Tu eri l’equilibrio e quando sei andato via questo equilibrio si è spezzato. Perché io sono come te, però anch’io ho tanto bisogno di ridere e c’è stato ben poco da ridere dal quel lontano 2004.

Avevo appena 21 anni, stavo per entrare nel mondo del lavoro, e avevo ancora un infinito bisogno di te.

Invece hai cominciato dicendo che non ricordavi più le cose, e noi a minimizzare dicendo che bastava fare più attenzione. Ma poi hai continuato insistendo, un po’ scherzando un po’ no, così ti abbiamo portato dal dottore, ma era più che altro per poterti dire “guarda papà non hai niente, visto?”. Invece la batosta. È Alzheimer.

Ci è venuto giù il mondo. Non sapevamo cosa fosse realmente l’Alzheimer, sapevano che era la perdita di memoria completa, che è di per sé già orribile, ma è molto di più di questo.

Non è dimenticarsi qualcosa. È dimenticarsi tutto.

Ma la cosa più brutta è stata vedere nei tuoi occhi la consapevolezza di questa malattia. Eri abituato a stare a casa da solo perché di solito era mamma che andava in giro per noi. Un pomeriggio eravamo tutti via, e forse eravamo andati proprio ad un incontro dove ci spiegavano cosa ci saremmo dovuti aspettare. Una volta a casa mentre facevo cena, tu sei sbucato in cucina, mi hai guardato e mi hai detto un po’ timidamente: “Non lasciatemi mai più da solo.” Mi si è spezzato il cuore. Ti ho abbracciato e ti ho detto: “Oh no papà mai più!

Questa malattia è terribile. Ti porta via le persone e porta te via dal malato. È un allontanamento continuo ed infinito. Perché tu sempre più non potrai comunicare con loro come prima e loro con te. Pur essendo lì. Questa malattia è terribile! L’uomo è fatto di memoria. Senza memoria che cos’è? Che cosa siamo?

Per la prima volta in vita mia ho visto la paura nei tuoi occhi, tu che sei sempre stato quello forte che non aveva paura nemmeno di andare in ospedale, mentre io ero terrorizzata: “Ma papà non hai paura?” “Ntch, noo”. O forse l’avevi ma non me l’avresti mai detto.

Questa schifosa malattia non porta solo perdita di memoria, porta depressione, a te, il papà sempre allegro, che ci faceva sempre ridere, aggressività, proprio a te papà che eri sempre quello che non ci voleva vedere litigare “rusi nen!”[2] e allucinazioni. È stato straziante vederti vagare per il cortile agitato in cerca di persone che vedevi solo tu, sentirti dire che volevi andare a casa quando a casa c’eri già. È stato spaventoso quando inconsapevole maneggiavi attrezzi con rabbia: abbiamo avuto paura per noi, ma soprattutto per te e non sapevamo cosa fare se non sederci ed aspettare che ti passasse per poi nascondere tutti gli attrezzi pericolosi. Ci siamo spaventati quando, una mattina, ci siamo svegliati e tu non eri a casa, scappato per la seconda volta e… dove ti troviamo adesso? Fortuna che c’era qualcuno che ti conosceva e ti ha riportato da noi.

Sono stata malissimo quegli anni.

Eh sì, papà, ci siamo arrabbiati un po’ tutti con te, ma non era con te che eravamo arrabbiati, tu non ne potevi niente, eravamo arrabbiati con quello schifo di malattia che ti stava portando via. Per cui nel 2008 quando abbiamo deciso per il tuo bene, ed il nostro, di portarti in una struttura più adatta, per quanto facesse male non averti più qui con noi, è stato un piccolo sollievo.

Non volevo perdere mio padre invece per colpa di questa malattia schifosa è morto due volte. La prima quando si è dimenticato chi era e chi eravamo. La seconda, quella definitiva, due giorni fa. Senza contare le tante piccole morti intermedie: quando non era più lui a portare noi per mano, ma noi lui. Quando ha smesso di parlare. Quando ha smesso di camminare. Quando ha smesso di mangiare da solo e doveva essere imboccato. E la cosa più orribile è che noi non potevamo fare niente. Niente. Eravamo spaventati quanto lui e non potevamo fare niente. Se non aspettare.

Sono boh.. 8 anni che non sentiamo più la sua voce. Non abbiamo sentito da lui le sue “ultime parole” come molti hanno la “fortuna” di avere.

Ma io lo so che cosa mi avresti detto papà: “Voei pì ca piures. Las capì?”[3]

Sai che cosa ha detto il dottore di te l’altro giorno? La fibra è forte. Sei stato un drago papà, l’ultimo vero Jedi sei tu. E noi che siamo tuoi figli non possiamo che essere altrettanto forti. Sappi solo una cosa, che come ho voluto bene a te non vorrò bene a nessun altro.

Ovunque sei ora spero che tu sia sereno. Ma so che lo sei. Qualunque cosa è meglio di quello che hai passato.

20 aprile 2018

[1] Ah, non si può mica parlare con te!
[2] Non litigate
[3] Non voglio più che piangi. Hai capito?

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