A Cardiff ha perso la Juve, non il calcio italiano

Alessandro Oliva
vivalafifa
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7 min readJun 7, 2017

Commentare il calcio italiano significa spesso e volentieri passare da un eccesso all’altro. Prima della finale di Champions League c’era chi non vedeva l’ora di consegnare il Pallone d’Oro a Dybala e chi riteneva Cristiano Ronaldo meritevole della panchina se avesse giocato in bianconero, giusto per citare due esempi tra i più significativi. Dopo la partita — per chi non lo sapesse, è finita 4–1 per la Juve: una bella botta, non c’è che dire — siamo subito saltati dall’altra parte della barricata che delimita il campo delle esagerazioni. Tra le quali spiccano la solita storia sulla Spagna che regala lezioni all’Italia, nonché una Serie A poco “allenante” e che quindi sarebbe causa degli insuccessi in Europa dei nostri club.

Partiamo da quest’ultimo assunto, che non è difficile da smontare e riporre in scatola. Non dovrebbe essere arduo intuire prima di tutto che un campionato di 38 giornate è cosa assai diversa da una competizione che di gare, in caso di arrivo in finale, ne prevede 13. Dunque un percorso totalmente diverso già come approccio: solo il girone iniziale può essere in piccolo paragonato ad un campionato, cioè ad un torneo dove una sconfitta può essere rimediata nel corso delle gare successive, sebbene il girone preveda 6 gare in tutto e una sconfitta qui ha un peso specifico diverso. In un torneo lungo come la Serie A (o la Premier) puoi programmare la stagione sul lungo periodo, in Champions dagli ottavi in poi te la giochi su andata e ritorno. In Serie A, come sosteneva Lippi, lo scudetto si vince in provincia in Champions prima o poi una squadra che quella coppa l’ha vinta anche più volte devi affrontarla e superarla. Ed è in questo contesto che non dovrebbe attecchire l’idea di un campionato allenante per la Champions: ogni torneo nazionale fa storia a sé, è un sistema chiuso dove si sviluppa un sistema di gioco che può essere riproposto in Europa con esiti diversi e non sempre positivi. Già: se un campionato è allenante per l’Europa, le squadre di Premier League, considerato il miglior torneo nazionale al mondo, dovrebbero sollevare quella coppa tutti gli anni. E invece, pensa un po’, l’ultimo club a vincerla è stato (per caso, diciamolo) il Chelsea nel 2012. Da quel momento in poi, solo il Manchester City ci è andato vicino centrando lo scorso anno la semifinale, in un doppio confronto con il Real che non passerà certo alla storia. Che la Serie A non sia allenante, poi, è un discorso che contraddice tutti i discorsi sulla bellezza del gioco del Napoli dei record di Sarri, o della Roma di Spalletti: decidetevi una buona volta, o sono forti oppure no.

Il discorso vale anche per la Liga, ovviamente. Un torneo cioè nel quale Barcellona e Real Madrid si dividono la posta da anni e dove ogni tanto si è permesso di fare capolino l’Atletico Madrid, ovvero un club che si è “permesso” di investire sul mercato (rischiando impicci con i fondi di investimento)e avviare un progetto tecnico con Simeone per rompere il duopolio Barcellona-Real. Si potrebbe obiettare allora che sì, la Liga è allenante visti i recenti continui successi europei di Real e Barça, ma bisogna stare attenti a non confondere campionati con stili di gioco. In questo momento storico del pallone, l’arte del palleggio al quale gli spagnoli sono abituati fin dalle cantere, è ormai predominante da anni ed ha trovato il suo massimo punto di equilibrio ed efficacia con il Tiki-Taka di Guardiola. Non deve essere un caso se l’Atletico Madrid, pur con organici mai davvero alla pari negli anni con quello del Real, sia arrivato in finale di Champions due volte negli ultimi anni, senza vincere: un conto è rompere il gioco dell’avversario, un altro crearlo. E il Real di Zidane, che può contare su abili palleggiatori del calibro di Modric e Kroos, di gioco ne crea quanto basta per vincere senza nemmeno sudarsela più di tanto.

Che poi è quello che è accaduto a Cardiff. La Juventus ha ampiamente meritato l’accesso alla finale, perché è riuscita ad unire la tenuta difensiva della scuola italiana con il giusto approccio alla tenuta del campo: in sostanza, il 4–2–3–1 usato da Allegri da gennaio in poi ha permesso alla squadra di occupare bene ogni spazio ed ha permesso di ritagliare specifici compiti a giocatori in modo tale da sfruttare le proprie qualità: l’intuizione di Allegri non è stata quella di “inventare” un sistema di gioco già visto con Mourinho nell’Inter del Triplete, ma di adattarlo alla squadra che aveva per le mani: vedi Mandzukic esterno o Dybala in grado di giostrare il pallone dietro a Higuain. Contro il Real, l’approccio della Juve è stato quello visto spesso in campionato, tant’è che le prime due occasioni della gara sono state create dai bianconeri. Il problema è stato a centrocampo. Se si vuole ricercare la lezione impartita dal Real Madrid alla Juve, va ricercata nell’equilibrio in quel settore del campo. Alla Juventus è mancata quella copertura totale spesso vista in altre gare, con Khedira che in particolar modo ha sofferto il palleggio del Real che, disposto a rombo, era dotato di due palleggiatori puri come Modric e Kroos contro uno come Pjanic. Dispoinendosi a rombo, il centrocampo del Real ha avuto tutto il tempo di far circolare palla, avendo sempre qualcuno al quale appoggiarsi per poter innescare l’azione attaccando lo spazio (così come fa il Napoli di Sarri, ma senza disporsi a rombo).

Il rombo del Real a centrocampo

Questa disposizione ha creato problemi di equilibrio alla Juve, che già nel primo tempo è andata in difficoltà nel momento in cui bisognava chiudere le fonti di gioco madridiste. Lo si vede bene nella breve accelerazione palla al piede di Kroos che avvia il momentaneo 0–1 di Ronaldo: nel momento in cui il tedesco parte sulla sinistra, dopo che il Real ha recuperato palla, in mezzo e sulla fascia opposta nessuno scende a recuperare la posizione dopo essersi spinto in avanti. Lo stesso accade nella ripresa, quando Isco riceve palla in mezzo e sia Pjanic che Khedira sono fuori posizione.

L’azione palla al piede di Kroos: il centrocampo non recupera in tempo e Ronaldo fa 1–0
Isco riceve palla sulla trequarti: Pjanic e Khedira sono fuori posizione

Che la Juve abbia faticato a gestire la transizione, ovvero il passaggio dalla fase di possesso a quella di non possesso, lo si vede poco dopo, quando Modric avanza palla al piede: chi lo marca? E la mancanza di equilibrio ha fatto sì che già a metà del primo tempo si creassero situazioni come questa in cui Modric si ritrova una gabbia di quattro giocatori attorno (dalla quale peraltro si libererà facilmente) che inevitabilmente lascia scoperte altre zone del centrocampo.

Chi marca Modric?
Una gabbia per quattro

Per avere maggiore equilibrio, alla Juve sarebbe servito un palleggiatore in più, magari abile a eseguire entrambe le fasi: una situazione che avrebbe permesso al gioco bianconero di avere maggiori soluzioni, oltre che meno dispendio di energie. Uno dei motivi della vittoria del Real sta proprio nella maggiore freschezza fisica mostrata, soprattutto nella ripresa: correre per coprire il campo per sopperire alla mancanza di equilibrio di cui sopra ti fa stancare di più e prima. Un palleggiatore in meno al centro ha inoltre costretto Dybala ad abbassarsi di più per cercare palloni da smistare, producendo due effetti negativi: il primo è stato quello di un sacrificio eccessivo da parte dell’argentino, che ha dovuto svariare meno sulla trequarti per doversi abbassare troppo per cercarsi palloni da giocare; di conseguenza, ha lasciato più solo Higuain, che ha dovuto fare reparto da solo rimanendo però senza molti rifornimenti (lo si vede nell’occasione di inizio gara) e concedendosi comunque l’assist per il gol di Mandzukic. Da qui a dire che Dybala e Higuain sono scarsi, per tornare alle esagerazioni nel commentare il nostro calcio, ce ne passa.

Resta aperta la questione psicologica. Possibile che la Juve soffra questo tipo di gare, avendone perse ben sette nella propria storia. E benché ogni finale faccia storia a sé, è probabile che in questo caso la Juve, dopo un cammino fino alla finale che l’ha vista incassare pochi gol ed aver eliminato ad esempio il Barcellona ai quarti, possa essersi sentita troppo sicura di sé. Questa è una sfida alla quale il club è chiamato nei prossimi anni, visto che la Champions è l’unico trofeo che manca per chiudere un ciclo che l’ha vista vincere 6 scudetti di fila. E se la qualità del gioco è legata anche al fatturato, la Juve ha tutte le possibilità finanziarie per investirle in un centrocampista di qualità che la aiuti a compiere il salto di qualità definitivo, quantomeno dal punto di vista tecnico. Che poi, è quello che da anni fa il Real, cioè da quando il club ha programmato un’attenta politica di aumento dei ricavi che gli ha permesso di investire in maniera prepotente sul mercato. Il tutto da soli, sfruttando la potenza del proprio brand e non quello della Liga (che ha cominciato a fare sistema solo di recente, per contrastare la Premier), così come la Juve ha fatto in Italia. Non deve essere un caso che i bianconeri, oggi, siano l’unica società di Serie A davvero internazionale, per fatturato e sfruttamento del brand. Il Real ha battuto la Juve, non il calcio italiano.

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Alessandro Oliva
vivalafifa

Scrivo di calcio, business e social media, recensisco sushi su Tripadvisor.