Montevarchinità

Un.Dici
StorieDaMontevarchi
6 min readAug 4, 2016
L’entrata a Montevarchi dal Ponte di Vetro. La foto è di Sabina Broetto

Abito a Montevarchi. In realtà non c’è nessun altro posto in cui avrei desiderato abitare nell’arco di 30 km.

Non dico che non esistono luoghi migliori, ma mi accontento. Avrei sempre voluto prendere casa a Barcellona; diciamo che la differenza di prezzi è un tantino a vantaggio della mia città.

Montevarchi era paese di “bevitori, mignotte e gioco di azzardo” dice spesso un mio amico. In realtà non è che oggi queste pratiche siano così impopolari ovunque…….forse si è perso un po’ il gioco di azzardo. Ma del resto è stato legalizzato nei tabacchini: facessero lo stesso con la prostituzione, non avremmo case “fantasma” in via Marzia e in via Cennano.

A Montevarchi abbiamo una piscina, un palasport, uno stadio ma non un campo da cricket: era stato promesso alla comunità indiana dal candidato perdente alle elezioni. Evidentemente comunità politicamente ininfluente, che dovrà continuare ad arrangiarsi nei campi liberi a disposizione, come fanno i “gladiatori” del “nostro” Gioco del Pozzo.

Una volta a Montevarchi vigeva una moneta che si chiamava Il Varco, il centro storico era un insieme di accampamenti medioevali, strani personaggi con vestiti bizzarri si aggiravano per la città, qualcuno con le scarpe a punta e i copricapo probabilmente tipici di quell’epoca. Quale epoca? Non lo so. Ma poi questo è quello che ci racconta la rievocazione storica, non è detto sia vero. Però il Varco oggi varrebbe quasi quanto il dollaro, al cambio. Credo.

A Montevarchi esistono anche le frazioni, ma spesso a chi ci abita sembra di no, vista la poca attenzione ai dettagli del loro quotidiano……. ma a onor del vero a Montevarchi ogni quartiere — ogni strada — la vede più o meno allo stesso modo, a parte il Centro Storico (lettera maiuscola ovviamente).

Di quello, piace parlar spesso. Lo si descrive come potenzialmente bello, ma praticamente invivibile. Si sta ripopolando ma è sempre deserto, e comunque è stato “invaso”. Tutto sommato a parte qualche pisciata nei vicoli e qualche intonaco calante, risulta abbastanza in linea con la cura del suolo comunale tutto.

Molti miei amici, conoscenti e coetanei sembra che ultimamente stiano invadendolo. O ripopolandolo. O semplicemente migrando dove i prezzi delle case sono alla portata delle tasche e dei risparmi di un aspirante trentenne. Magari tra 10 anni diventerà come Williamsburg a Brooklyn: conosco gente interessante, dategli il tempo di lavorarci su.

Questa foto scattata in Via Cennano — ma potrebbe essere La Havana Vieja — è una splendida opera di Enzo Righeschi

Io che abiterei nel centro storico, non ci abito. Se lo dico, mi si chiede quanto vorrei abitare in un luogo dove i panni stesi alle finestre abbondano e l’odore di piscio nei vicoli è mediamente piuttosto presente. In realtà, amando Barcellona, decadenza e vicoli (e inevitabile puzzo di piscio, che fa parte del pacchetto) potrebbero farmi sentire finalmente “a casa” , o comunque dove avrei sempre voluto abitare. Potrebbe piacermi quindi. Soprattutto quando sono ubriaco.

Credo che Salvador Dalì e probabilmente anche Charles Bukowski avrebbero abitato volentieri a Montevarchi. Nel caso del primo, l’ispirazione lo avrebbe sicuramente direzionato a trasformar la città in un museo surrealista a cielo aperto (come ha fatto a Figueres); nel caso del secondo, vai a sapere se mai avesse potuto incontrare nei bar qualcuno capace di metterlo in soggezione.

A Montevarchi ci sono i Bar. I Bar vivono parallelamente e di pura e godibile inerzia rispetto a tutto il resto che, complice la crisi odierna , tentenna. Nei bar si scopre la montevarchinità, soprattutto in quelli aperti dopo le 22. Evviva i bar.

Un bar di prima mattina quando la Montevarchinità è rappresentata dai decani. La foto è di Sabina Broetto

Come descrivere la montevarchinità? Difficile. Mi si dice con frasi tipo:

“un dito alla crema da Gelè la domenica pomeriggio dopo la partita”

“il pane con il pomodoro stropicciato alla vecchia capannina, lungo l’Arno

“ se sei del Giglio, non sei del Pestello e tanto meno di Via Roma. Ma se sei di Levane, non sei Montevarchino”.

A parte gli scherzi (!!), io la descriverei oggi in questo modo.

Prima di una tornata elettorale, il montevarchino modernizzato (che ha scoperto da pochi anni Facebook e i social network), si autoalimenta nella polemica verso la gestione comunale momentanea. Sottolinea all’impazzata mancanze, problematiche, “degrado” (addirittura a questa parola riesce a dare un nuovo significato, visto ciò che rappresenterebbe realmente). Polemizza e invita alla resa dei conti finale, più o meno orgogliosamente appoggiato da chi si presenta come alternativa.

Una volta che il comune passa di mano, e l’alternativa diventa governo, in neanche sette giorni le stesse persone riprendono — come in un gioco nuovo che non stanca mai. Come a #PokemonGo, che non smetti mai di cercare — a denunciar lo stesso: semplicemente cambiando il colore dei responsabili, all’alternarsi della gestione. Gli ex governanti, ora all’opposizione, più o meno orgogliosamente si accodano.

Polemica, dissacrazione, inoggettività e poca pazienza. È questa la Montevarchinità?

Forse no. Forse si tratta semplicemente di Italianità D.O.C.G. E infatti Montevarchi si trova nella cartina più o meno al centro della penisola. “non si direbbe se si passa la sera da Piazza Vittorio Veneto, dove ci sentiamo ospiti a casa nostra” risponderebbe qualche irriducibile nel gruppo polemico cittadino sui social.

Qualcuno dovrà pur riempire gli spazi pubblici e centrali che i Montevarchini, in un evidente eccesso di montevarchinità, hanno deciso di abbandonar a se stessi in tempi non sospetti no?

Quindi forse tra qualche anno la montevarchinità sarà rappresentata da una pigmentazione della pelle lievemente più scura di quella media attuale. O forse potremo riconoscerla nella pratica del chiudersi in casa a tremare, dietro grate alle finestre, guardando il mondo esterno con timore e ringhiando con rabbia su una tastiera del pc. Chissà.

Foto di Sabina Broetto

Ma bando alle tristezze e alla depressione, amici!

Montevarchi non è così malsana e decadente come il buon padre di famiglia che può legger questa descrizione bislacca sarà portato a pensare!

#MontevarchiBella!

Mi auguro che non me ne vorrà colui che ha coniato recentemente questo slogan di successo popolare senza precedenti (malgrado il riscontro elettorale non troppo all’altezza). In certi sabati mattina, o in certe domeniche pomeriggio di cielo azzurro e aria fresca primaverile, Montevarchi è proprio #BellaBellaBella tutta. Dai suoi boschi e le sue vette, passando per il lungarno (se l’erba è tagliata) e le frazioni. Per non parlare del patrimonio museale e culturale o delle serate estive in Piazza Varchi quando c’è un buon concerto, o nelle stesse davanti alle gelaterie. Quando la montevarchinità si riversa per le strade, a qualsiasi ora del giorno, è veramente un piacere camminare per Montevarchi. Ugualmente lo è passare la domenica nella curva sud dello Stadio, quando gioca l’Aquila Calcio, anche e forse soprattutto in quei mesi in cui il freddo ti punge fin sotto le sciarpe rossoblè, e magari diluvia.

Foto di Sabina Broetto

Montevarchi universo diverso dal resto del mondo, proprio perché infondo uguale a tutti gli altri comuni di poco sopra i ventimila abitanti in Italia.

Montevarchi come Paese con ambizione di esser Città; antagonista dei “cugini” apparentemente quasi gemelli a pochi km di distanza, ma rivaleggiante con il capoluogo di provincia.

Con mio padre, quando ero piccolino, era una gioia passar dalla Torrefazione Bronzi a comprar le caramelle gommose, guardando le foto ingiallite di Louis Armstrong sulle pareti mentre il jazz suonava in sottofondo, nel locale pubblico più american retrò che esista fuori dalla città di New Orleans, nel mondo. Lo era ancor di più andar a prendere il caffè, dopo il pranzo dai nonni, al Bar Giglio da Gloria e Puleggia.

Sono questi i miei primi ricordi di montevarchinità.

Oggi dal Bronzi mi fermo per comprar sigarette e al bar frequento molto più con una birra in mano, che con un caffè.

Mia madre dice che da quando finalmente sono riuscito a trasferir i miei libri e dischi (più qualche straccio di vestito) a Montevarchi, sembro come liberato da una sorta di limite autoimposto alle mie passioni — che le teneva rinchiuse in me stesso — pur abitando a una manciata di metri di distanza dal suolo comunale.

Dice che sono più sereno. Che sono più me stesso.

Come quando sono a Barcellona.

Meno male.

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Un.Dici è l'universo di Julian Carax, doppio di Davide Torelli, che sarei io. Qualcosa in più qui: https://linktr.ee/davidetorelli