#1 | Pulp Pasolini

O la necessità di mettere in scena la violenza

Alessandro Beghini
Waste of Ink
5 min readMar 31, 2020

--

La violenza è il mio nuovo soggetto di studio preferito in questi giorni di quarantena o sarà che la violenza è sempre stato un tema centrale per me, che mi ha sempre (come è abbastanza scontato che sia) intimorito.

Così ritrovandomi ad approcciare alla violenza mi sono trovato a guardare Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, un film di cui ho sempre conosciuto l’esistenza senza però mai sentire la necessità di guardarlo, almeno fino a domenica scorsa. I grandi cinefili dell’era dell’internet mi dovranno perdonare se non ho finito di guardare tutta la filmografia di Pasolini entro i diciotto anni come buona usanza dovrebbe essere, ma cosa volete farci, sono un pessimo soggetto cui intavolare certe discussioni.

Una prima domanda fulmina nella mia testa durante la visione: cosa ci spinge ad interessarci alla violenza? Non dico cosa ci spinge ad essere violenti, ma cosa ci spinge a volerla rappresentare a tutti costi, la violenza esiste e basta, per quale motivo bisogna farci un film o un’opera letteraria, perché ci ostiniamo a rappresentarla nell’arte? Forse è la necessità di esorcizzare l’insita paura di essere inconsapevoli carnefici? Forse vogliamo comprendere la violenza per poterci difendere o la vogliamo solo denunciare perché ci disgusta?

Giuditta e Oloferna, olio su tela del Caravaggio

Provo a darmi una risposta a questa domanda, anche se scontata: per conoscerci.
Ho sempre avuto la sensazione che la frase: “siamo la somma di tutte le nostre esperienze” fosse incompleta, confusa; sarebbe molto meglio dire: siamo la somma di tutte le violenze che abbiamo subito. Sarebbe più onesto ammettere che tutte le nostre incertezze, le nostre paure e gran parte delle nostre scelte sono figlie dirette delle violenze che abbiamo finito per subire consapevolmente o non, e di quelle che abbiamo inflitto, consapevolmente o non. Rappresentare la violenza non è che un modo per rappresentarci, mettere in mostra tutto quello che siamo avvolgendolo in una nebbia più o meno fitta di crudeltà.
Pasolini la mostra schietta, il film non è che un susseguirsi di atti violenti: dal rapimento all’omicidio, passando per stupri, umiliazioni (la coprofagia forzata è solo una delle tante) e torture. Si vuol mostrare la violenza di pochi uomini come allegoria di una violenza immensamente più grande, usare il sesso per rappresentare in maniera diretta il rapporto vittima-carnefice, mostrare il lato caotico e anarchico del potere attraverso la depravazione.

Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975

Insomma io non sono un critico, anzi tutte le scelte che ho fatto nella mia vita le ho fatte proprio per non diventarlo, quindi non è il caso io mi metta a pontificare troppo su Salò, sarebbe più onesto se semplicemente vi esortassi a guardarlo. Forse sono più a mio agio se parlo di un regista che mi è più vicino per continuare il discorso. Prendiamo Tarantino, prendiamo Once Upone a Time… in Hollywood.

Quella che non ho problemi a dire sia la più grande opera di Tarantino (no, Pulp Fiction non è il suo miglior film cercate di crescere) parla di violenza, proprio come Salò, ma lo fa in maniera più laterale, meno diretta. Se ci pensate la violenza è il movente di molti personaggi o quanto meno uno dei loro tratti più spiccati: la setta di Manson la usa per ripulire il mondo dai “porci fascisti”, Rick è un attore che recita esclusivamente ruoli aggressivi perché la violenza è il pasto quotidiano che i network regalano alle famiglie americane, Sharon Tate tutti noi sappiamo passerà alla Storia per essere la vittima di un eccidio e infine c’è Cliff che ha un passato violento, un lavoro violento e vive delle circostanze che lo obbligano ad essere violento.
Tarantino ci racconta il suo mondo attraverso i legami che ogni suo personaggio ha con la violenza e non solo, Tarantino per dipingere il suo mondo ideale, in cui Sharon Tate continua a vivere, ha bisogno di ricorrere ad una sequenza di una violenza inaudita, proprio come per liberare il mondo da Hitler aveva avuto bisogno di un massacro in un cinema e per combattere la schiavitù aveva dovuto rendere il suo Django più violento di ogni altro muso bianco in tutto il selvaggio west. Puoi creare il mondo che preferisci, ma non puoi farlo senza sporcarti le mani, lo sanno i fascisti di Pasolini e lo sa Cliff Booth.

Once Upon a Time… in Hollywood di Quentin Tarantino, 2019

Un passo indietro dal delirio che ho descritto e proviamo a tirare le fila.

Siamo tutte le nostre violenze?
I pensieri orribili che facciamo, i gesti insensibili che abbiamo compiuto, le schifezze che possiamo aver subito: di questo siamo fatti?
In una società in cui il successo è uno standard così raggiungibile, così facile da mostrare, non è che finiremo per distinguerci solo per le cose orrende che ci riguardano?
Ammesso che sia vero, come dobbiamo comportarci?

La vera domanda forse è: esiste un modo per convivere con la propria violenza?
Quali sono le nostre opzioni? C’è una via di mezzo tra fingere che la violenza non ci influenzi e addirittura non esista e rinchiudere una ventina di ragazzini in una villa per darsi al sadomasochismo?

“Il principio di ogni grandezza sulla terra è stato totalmente e lungamente inzuppato di sangue e ancora — amici miei — se la memoria non mi tradisce — sì è così: senza spargimento di sangue non si dà perdono.”

--

--