Atti cinematografici in luogo pubblico EP.5

Sapete che ore sono? Non vorrei essere in ritardo.

Alessandro Beghini
Waste of Ink
5 min readJan 11, 2018

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Sindrome della Belle époque la chiamavano i personaggi di Midnight in Paris, nome accattivante che mi ha sempre colpito. Mi ritrovo a pensarci mentre giro per i corridoi di quello che dovrebbe essere una specie di museo delle stranezze Hollywoodiane. Ci sono ciocche di capelli della Monroe e costumi da set di ogni film immaginabile. In un angolino ci sono un paio di bicchieri e una bottiglia appoggiati su un vassoio e protetti da una teca, un bigliettino afferma che siano quelli usati in una scena di Casablanca. Voglio crederci, anche perché ho pagato 12 dollari per entrare in questo posto e non ho alcuna intenzione di sentirmi fregato.

Hollywood Boulevard è la celebrazione del passato, a partire dalla Walk of Fame e finendo al Chinese Theatre, passando tra negozi di souvenir in cui ti puoi portare a casa, per pochi centesimi, un dollaro finto con sopra la faccia di Jack Lemmon. La cosa più strana però, in mezzo a tutto questo idolatrare i tempi che furono, è che mi sento a mio agio qui, molto più che in altre zone della città.

Il motivo credo sia semplice da individuare, almeno per me, mi trovo a mio agio perché è questo il motivo per cui sono qui. Mi sono infilato su un aereo incuriosito e appassionato di una Los Angeles che in fondo sapevo morta. Sono venuto per vedere Bogart, Grant, Trumbo; arrivato fin dall’Italia per scoprire dove vive la Monroe o cercare intravedere Billy Wilder. Lo so, so bene di essere arrivato fuori tempo massimo, di essere in un tremendo ritardo ma ho preso il primo volo che potevo.

Ora mi accontento di passeggiare tra i ricordi che questa città offre, i quali non sono di certo pochi ma pur sempre ricordi rimangono. Per questo motivo, mentre passo di fianco ad una vetrina dentro la quale si cela un giaccone di pelle che dovrebbe essere stato indossato da James Dean, mi chiedo sinceramente: sono nel posto giusto, ma non è che ho sbagliato orario?

Lo noto anche in classe, al primo giorno di lezione, quando l’insegnante per rompere il ghiaccio ci chiede quali siano i nostri film preferiti, quelli che più ci hanno spinto a intraprendere una strada come questa. Le mi risposte sfiorano il ridicolo: Casablanca, Sunset Boulevard, Citizen Kane, Psycho, Some Like it Hot, il più recente film che cito è Annie Hall. Di fianco a me viene sciorinata la filmografia di Nolan pezzo per pezzo, oppure c’è chi cita Gone Girl, chi parla di Mad Max o chi ammette di essere attratto anche dai vecchi film come Terminator ad esempio. Terminator? Un vecchio film? Ma non avrà quarant’anni.

Intendiamoci, mi piacciono gran parte dei film di Nolan, ho adorato Gone Girl e ritengo Mad Max una specie di dono ultraterreno; ma se dovessi indicare questi tra i film che più mi hanno spinto a intraprendere questa strada di certo mentirei.

L’indizio finale arriva al secondo giorno di lezione, quando ci viene chiesto di esporre alcune nostre idee su cui lavorare nelle settimane future. Mentre i miei compagni parlano di nerd che sventano attacchi terroristici, spacciatori del cartello della droga messicano, poliziotti corrotti e storie che affondano le radici nel teen drama io butto lì l’idea per un noir ambientato durante la seconda guerra mondiale. In classe cala un secondo di silenzio e la faccia della tutor parla da sola e sembra dire: “Ma chi cazzo pensi di essere? Zemeckis?”

Decisamente, sembra proprio che io sia arrivato in ritardo.

Il problema è che mentre Gil Pender si sente pronto ad abbandonare le sue illusioni alla fine di Midnight in Paris, io non sono dello stesso avviso. Ci sto ancora troppo bene ad immaginarmi con Tony Curtis tra gli studios della Warner proponendo soggetti e chiacchierando del più e del meno. Sono fantasie legate a questo posto che ancora non mi sento in grado di abbandonare. Lo testimonia il fatto che l’altro giorno all’osservatorio Griffith la gente fotografava Los Angeles e io cercavo le location di Rebel Without a Cause. Penso sia una specie di malattia la mia, la radicata illusione che le storie che voglio raccontare possano funzionare solo in un’epoca che non mi appartiene per niente. Qualche strizzacervelli forse ne potrebbe dedurre che sono molto insicuro riguardo il mio lavoro e che idealizzo il passato per non affrontare il presente. Possibile, ma è una versione non sufficientemente romantica per bastarmi.

Preferisco pensare che certe storie appartengano ad un altro tempo. Non che questo significhi che siano migliori, le cose vecchie non sono sempre meglio, semplicemente sono diverse. Non significa che ho sbagliato tempo, che sono arrivato in ritardo, che ora non si possano più raccontare storie come queste. Significa che dovrò trovare un modo diverse per raccontare certe storie. Non è la Hollywood di Singing in the Rain questa, anche se La La Land ce lo ha fatto pensare per qualche secondo, questa rimane la Hollywood dei film ad altissimo budget, dei remake studiati a tavolino, dei supereroi e delle Dive al silicone. Non è una Hollywood tanto diversa da quella di una volta negli atteggiamenti, sono solo cambiati i modi in cui certi atteggiamenti vengono esibiti.

In fin dei conti, quasi sicuramente, se mi fossi trovato ad essere uno sceneggiatore negli anni d’oro avrei di certo rimpianto di non poter fare film muti. Si tratta di una malattia l’ho detto subito, la maledizione perpetua di chi vive idealizzando.

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