Wonder Woody

Cinque ragioni (più una) per cui mi sono innamorato del più grande regista vivente

Alessandro Beghini
Waste of Ink
Published in
5 min readDec 28, 2017

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Mi sono innamorato di Woody Allen quasi per partito preso subito dopo aver visto Zelig. Da quel giorno non ne ho potuto più fare a meno. Anzi meglio, da quel giorno non ne ho voluto più fare a meno.

Quello che vorrei fare ora è mettere in fila cinque ragioni (più una bonus) per cui mi sono innamorato del suo cinema. Forse cinque sono poche, ma sono un unizio e sono anche un modo per rispondere a quella classica domanda che tutti mi fanno: “ Ma perché parli sempre di Woody Allen?”

L’opening di Manhattan

Se Manhattan è un film stupendo, a tratti inarrivabile, i primi quattro minuti circa sono uno dei punti più alti toccati dal Cinema moderno. Il bianco e nero di Gordon Willis dipinge il vissuto quotidiano delle strade in un modo unico e quasi commovente accompagnato da Rapsody in Blue di George Gershwin, mentre la voce di Allen in sottofondo parla di New York come un poeta parlerebbe della sua amata.

“New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata.”

All’interno di questi quattro minuti scarsi c’è tutto il personaggio di Ike Davis: il suo lavoro, le sue incertezze, il suo amore per New York, ogni cosa.

Cosa di può chiedere di più ad un opening? Nulla.

Diane Keaton e Woody Allen in Manhattan, 1979.

Il dialogo con gli alieni in Stardust Memories

Se dovessi descrivere Woody Allen, le sue paure, insicurezze, dubbi, usando un minuto soltanto di un suo qualsiasi film sceglierei senza dubbio il dialogo con gli alieni nel finale di Stardust Memories.

Sandy corre verso gli alieni e pone loro domande di ogni genere dall’umana sofferenza all’esistenza di Dio, non trovando alcuna risposta. Fino a che non chiede loro ciò che lo ha afflitto per tutto il film.

Sandy: “ Non dovrei cessare di fare film per fare qualche cosa che conti come assistere i lebbrosi o diventare un missionario o simili?

Alieno: “Lasciatelo dire non sei il tipo del missionario, non reggeresti mai e a proposito non sei neanche Superman. Sei un comico. Vuoi vendere un vero servizio all’umanità? Trova battute più buffe.

L’analissi spiazza Sandy e anche lo spettatore, ma il concetto è chiaro: se vuoi essere d’aiuto per il mondo in cui vivi non fingerti qualcosa che non sei, fai ciò che sai fare e fallo nel migliore dei modi.

L’intuizione di Gil Pender in Midnight in Paris

Midnight in Paris è un piccolo gioiello nella filmografia recente di Allen ed il personaggio interpretato da Owen Wilson è uno tra i più affascinanti e particolali usciti dalla penna del regista newyorkese.

La pellicola non è soltanto un omaggio ai giorni passati e ad artisti amati dal regista, è una vera e propria riflessione sulla potenza delle illusioni nella vita di tutti i giorni. Su come spesso si pensi che le nostre insoddisfazioni siano legate più al tempo che viviamo che alla nostra stessa vita. Allen smonta queste fantasie grazie al suo protagonista, il quale riesce a sentirsi davvero felice solo nel momento in cui si libera delle proprie illusioni.

“Ecco che cos’è il presente, è un po’ insoddisfacente perché la vita è un po’ insoddisfacente.”

Owen Wilson e Marion Cottilard in Midnight in Paris, 2011.

Il personaggio di Cecilia in The Purple Rose of Cairo

Se quello di Gil Pender è un personaggio affascinante quello di Cecilia, interpretata da Mia Farrow, mi fece letteralmente impazzire.

La dolce cameriera maltratta e tradita dal marito che si sente a suo agio solo davanti allo schermo del cinema Jewel, viene catapultata in una situazione surreale e romantica. Lei che per tutta la vita ha sognato ad occhi aperti davanti alle immagini dei grandi divi di Hollywood sembra trovare finalmente la via per la felicità.

“Per tutta la vita io mi ero chiesta come sarebbe stata da questa parte dello schermo.”

Il personaggio di Cecilia viene dipinto da Allen completamente immerso in un mondo fatto di illusioni. Una donna che non trova nulla nel mondo reale e che ama e viene amata solo da ciò che è finto.

Il finale di Annie Hall

Se per Manhattan era l’opening, per Annie Hall non può che essere il finale. L’ultimo saluto tra i due protagonisti nel quale i flashback dei momenti più significativi della loro relazione si alternano mentre in sottofondo la voce della Keaton canta It Seems Like Old Times.

Il cuore si gonfia di speranze e ricordi fino a che Allen non decide di chiudere con un’ultima riflessione che spiazza completamente lo spettatore lasciandolo di stucco.

“E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va da uno psichiatra e dice: ‘Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina’. E il dottore gli dice: ‘Perché non lo interna?’, e quello risponde: ‘E poi a me le uova chi me le fa?’. Be’, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo/donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”

Nostalgia e umorismo si mischiano lasciando nella bocca di chi guarda un forte aroma agrodolce. Un finale meraviglioso.

Diane Keaton and Woody Allen in Annie Hall, 1977.

La capacità di raccontare una storia

Nel Cinema è una capacità che andrebbe data per scontata, ma non sempre i registi odierni ne sono provvisiti.

Saper creare una storia capace di catturare l’attenzione dello spettatore tanto da intrattenerlo e farlo emozionare è una qualità sempre più rara, di cui Allen è sicuramente ben provvisto.

Nella sua carriera ha portato sul grande schermo quasi cinquanta storie diverse, senza contare quelle per il teatro, i racconti scritti, i film per la tv e la recente serie per Amazon.

Woody sembra sempre avere una storia pronta da raccontare e per quanto si possa dire che non tutti i suoi film siano capolavori assoluti si può di certo dire che le sue sono storie originali, sincere, vogliose di intrattenere e stupire.

“Quello che io offro, sempre, è una storia. Per me è questo che sono i film.”

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