Sconfinare, anticipare il giorno.

Riflessioni sulla prassi didattica del programma Aurora Fellows.

Francesca Postiglione
weBeetle
6 min readDec 27, 2021

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Vivere l’esperienza della formazione ha spesso a che fare col tracciare confini. Confini più o meno fisici, che vanno dalle pareti di un’aula al rigore lessicale che costringe l’incasellamento di concetti in categorie spesso non rappresentative della realtà.

Incasellare un percorso formativo sotto l’etichetta di “metodo” ha i suoi rischi, perché equivale al tracciamento di confini e perché presuppone, negli intenti, di rispondere con una pratica singolare ad un’esigenza plurale. Un metodo, che per natura ha necessariamente a che fare con una procedura — e quindi con dei confini tracciati- rischia di ingabbiare i processi di apprendimento, appiattendoli. Sfuggire alle classificazioni è un atto di ribellione e rappresenta un tema attuale e profondamente trasversale. Ed è proprio da questo atto di ribellione che si è consolidato il mio interesse nei confronti di Aurora Fellows.

Aurora Fellows è un programma formativo che si indirizza ai ragazzi e alle ragazze, Fellows, e che mira a formare imprenditori e imprenditrici del futuro; persone con mentalità allenate a gestire gli snodi di un percorso imprenditoriale. Imprenditorialità intesa come capacità di fare scelte coraggiose e lungimiranti, il saper rischiare, prendere decisioni con responsabilità. Cogliendone quindi il senso più ampio possibile.

Il programma non si basa su corsi definiti ma sul concetto di confronto che si declina a più livelli: confronto con sé stessi, confronto con chi intraprende lo stesso percorso, confronto con personalità guida, Wizard, provenienti da campi differenti: dall’innovazione, al management passando per le scienze umane. I ragazzi e le ragazze selezionate, attraverso la pratica del confronto, sviluppano e allenano competenze trasversali fondamentali per avere uno sguardo attento, un comportamento flessibile, un’apertura alla sperimentazione.

Il mio interesse nei confronti del programma ha una motivazione e questa motivazione si chiama sconfinamento. Ho provato a tratteggiarne la grammatica, per dare forma ad una struttura, per trovare delle ricorsività in questo andare al di là di confini rigidi. Questi i “luoghi” in cui l’ho trovato chiacchierando con Jacopo Mele e Chiara Castelli, co-founder del programma.

La classe, una finestra aperta

Lo sconfinamento è nel lessico come nella morfologia degli spazi di apprendimento. “Una finestra aperta”, così definisce Jacopo la classe in Aurora. Il concetto di spazio, in questa accezione, perde le caratteristiche fisiche e si lega a doppio filo con la pratica didattica. La pratica cambia la morfologia dello spazio, lo spazio che ne cambia la sintassi. Una pratica, quella di Aurora, che punta tutto sulla crescita delle persone all’interno di una comunità educante.

In questo contesto, l’unità di misura è rappresentata dalla relazione e non è un caso il fatto che per i/le partecipanti al programma il valore più importante trasmesso da questa esperienza sia, appunto “la classe”: il gruppo di persone che collabora nella costruzione dei processi di apprendimento, dell’identità, del senso di appartenenza. Una costruzione di una vera e propria comunità di pratica in cui ogni persona condivide il suo valore. Un “luogo” in cui si scambiano saperi, in cui si diventa capaci di affrontare nuovi problemi e di risolverli secondo una prospettiva innovativa, che nasce dalla valorizzazione delle diverse esperienze. Una casa in cui ognuno è importante.

Peer tutoring cross generazionale

Lo sconfinamento s’innesta nel patto educativo. Chi ha familiarità con le metodologie didattiche inclusive conosce le potenzialità infinite dell’apprendimento cooperativo e, probabilmente, il peer tutoring è tra le sue concretizzazioni quella più conosciuta. In ambito scolastico questa metodologia di apprendimento cooperativo consiste nell’insegnamento reciproco tra pari, nel quale uno studente/una studentessa svolge il ruolo di “tutor”, cioè la persona che offre un tutoraggio, e un/una secondo/a il ruolo di “tutee”, il/la ricevente di un insegnamento. Il presupposto di base è che l’osservazione di un modello, rappresenti una delle strategie educative più produttive. È consapevolezza generale che il peer tutoring possa creare “opportunità straordinarie per l’educazione di tutti gli studenti, anche di quelli che presentano difficoltà di vario genere e si rivela particolarmente funzionale per apprendere non solo abilità prettamente scolastiche, ma anche quelle che riguardano la sfera sociale, emotiva ed affettiva. Inoltre, si propone sia di favorire la strutturazione di rapporti interpersonali e di comportamenti adeguati di guida, di aiuto e di gratificazione dell’altro da parte del tutor sia di promuovere e facilitare l’apprendimento mediante il rapporto di collaborazione che si instaura tra tutor e tutee” (Bagnato, 2019). Partendo da questo assunto, Aurora Fellows sconfina sul metodo applicando quello che viene definito peer tutoring cross-generazionale (che non è sinonimo di tutoring cross-age, in cui gli studenti più grandi insegnano agli studenti più giovani, di solito su base individuale): tutte le persone che gravitano attorno alla classe sono considerate portatrici di conoscenza alla pari.

L’educazione è considerata quindi come un atto di reciprocità, come costruzione corale dell’apprendimento, uno spazio dinamico in cui la verticalità rigida del binomio “chi insegna-chi apprende” non trova spazio, né ragion d’essere. In questo spazio si coltivano mutuo apprendimento, responsabilità, autonomia, condivisione. Si lavora sul potenziale di ognuno, su quella che Vygotskij definisce zona prossimale di sviluppo, ovvero la differenza tra ciò che una persona sa fare da sola e ciò che è in grado di fare con l’aiuto e il supporto di un’altra. La sfera sociale è il lasciapassare per l’apprendimento individuale; interiorizzare la conoscenza è possibile attraverso un processo di apprendimento socializzato che contribuisce allo sviluppo cognitivo ed emotivo di chiunque graviti attorno a quella “finestra aperta”. Entrare nella classe significa quindi acquisire la consapevolezza che ogni vissuto, per quanto acerbo, abbia un suo valore e che ogni persona abbia qualcosa sì da apprendere ma anche qualcosa da insegnare.

Imparare dall’imprevedibilità

L’istituzione scolastica ci ha educato alla previsione di cosa accadrà, ci ha addestrato alla pianificazione rendendoci poco consapevoli che la vita non è quasi mai spiegabile attraverso un “se x allora y”. Esperire il fallimento, ad esempio, ci racconta che non è tanto il pianificare quanto il reagire, l’improvvisare, la capacità di gestione di fronte all’imprevedibile rappresentano il vero valore da trasmettere. In ambito cognitivo, si definiscono funzioni esecutive quei processi cognitivi di “ordine superiore” che permettono di pianificare, iniziare e portare a termine comportamenti diretti ad uno scopo, attraverso un insieme di azioni coordinate e strategiche. Tra questi figurano la flessibilità mentale, ovvero la capacità di mantenere o di spostare l’attenzione in risposta a differenti richieste o di applicare regole differenti in contesti differenti e l’autoregolazione, che è la capacità che abilita gli esseri umani a fissare le priorità e a resistere alle azioni e alle risposte impulsive. Queste funzioni non si apprendono, si sviluppano nel corso della crescita anche attraverso l’allenamento.

In Aurora questo è reso possibile attraverso la rimozione di ogni orientamento, di ogni pianificazione. Sconfinamento. Non ci sono basi sicure rappresentate da programmi, gli incontri con i Wizard non hanno ordini del giorno o argomenti prestabiliti da affrontare, non si trasmettono hard skills che riempiranno curricula. Si investe sulle menti non sui progetti e lo si fa anche attraverso l’addestramento all’imprevedibilità. Lo si fa attraverso il riconoscimento delle proprie fragilità, dei limiti e questo viene trasmesso attraverso la “messa in situazione”, l’esperienza immersiva, il fare per conoscere.

Quello che mi appare è che lo sviluppo delle personalità, come quello dei progetti, parte quindi dal riconoscimento di sé. “Diventa ciò che sei” recita un’ode di Pindaro, un paradosso all’apparenza ma che in realtà rappresenta una sfida. L’impresa non è facile anche perché quelli interiori sono i confini più difficili da valicare.

Rileggo quello che ho scritto e il ragionamento mi appare circolare: la conclusione mi porta ai presupposti di questa riflessione e viene da chiedermi se lo sconfinamento sia anche l’obiettivo del programma. Ma, in fondo, perché cercare una risposta adesso. Lo capirò osservandone gli sviluppi.

Questo articolo è stato scritto ascoltando “Get Better” degli alt-J:

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Francesca Postiglione
weBeetle

Facilitator & Corporate Trainer @weBeetle, psycholinguist, unaware nerd, picture book lover, mamma di Anita e Alma.