“Siamo il lavoro che facciamo?” — A Millenial Retrospective

Una riflessione sull’identità personale e l’identità professionale e sulla necessità sociale di definire che fai “nella vita”

Anna Grazia Longobardi
weBeetle
8 min readApr 9, 2024

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Non sono né una psicologa né una sociologa.

Non mi occupo di risorse umane.

Sono una Visual & UI Designer.

Ero qui, con le mani sulla tastiera, pensando a come iniziare questa riflessione: pensavo di partire con delle definizioni, qualche dato di ricerca sulla psicologia del lavoro o del perché mi sono trovata a riflettere sul tema dell’identità, personale e professionale.

D’istinto, ho scritto un titolo, un sottotitolo e ho fatto delle premesse su quello che non sono e su quello che sono.

Ho riletto quelle 3 righe iniziali e mi sono fermata.

Il sottotitolo è:

Una riflessione sull’identità personale e l’identità professionale e sulla necessità sociale di definire che fai “nella vita” prima di chi sei

Ho realizzato quindi che per definire quello che faccio, ho detto che sono una Visual & UI Designer.

Questo segnale mi convince ancor di più a perseverare nella scrittura di questa riflessione.

Mi sono definita Visual & UI Designer. Riflettendoci bene, mentre il ritmo della tastiera va sotto le note di Life on Mars di David Bowie, avrei dovuto dire “Faccio la Visual & UI Designer e sono una creativa” (già solo per il fatto che, mentre scrivo, mi sono “distratta” già 3 volte scarabocchiando su un foglio).

Magari starai pensando:

“Vabbè, designer o creativa, alla fine qual è la differenza?”

La differenza sta nell’azione, non nella definizione.

Mi trovavo fuori un bar, con amic*, e una ragazza appena conosciuta mi ha chiesto “cosa fai nella vita?”.

Questa domanda mi manda in tilt ogni volta. “Nella vita” è un perimetro troppo grande di azioni. “Nella vita” si va ai concerti, si incontrano amici e sconosciuti, ci si emoziona per nuova canzone, si cucina senza voglia per sé ma con voglia per gli altri, si studia, ci si arrabbia, si sta con la famiglia, si va in bicicletta (io no eh, mai imparato!), si legge un libro, si guarda una serie su Netflix.

La ragazza però si aspettava di sapere che lavoro facessi, come chiunque pone quella domanda.

La mia mente non riesce a tradurre “nella vita” come “di lavoro”.

Penso un attimo e mi viene da rispondere:

“Tante cose e niente”

Ma uscirebbe del sarcasmo che non so se offende le nuove conoscenze (in amicizia, sarcasmo a gogo).

Rispondo:

Non lo so ancora.

Ed è stato in quel momento che è come se avessi riascoltato la mia risposta e mi sono domandata:

Siamo il lavoro che facciamo?

D’istinto, io mi rispondo di no (anche tu hai risposto così, lo so).

Ma sento un tentennamento nella mia testa e un magone nello stomaco.

Cerco “magone” sul Google quasi per confermarne i sintomi.

Ok, un “peso”.

Ma qual è ‘sto peso?

Credo che in parte sia una reazione sociale difensiva quella di definirsi col proprio lavoro, piuttosto che parlare di sé. Quell’effetto da “chiacchiera da bar” in cui ti prepari all’ennesima replica dello spettacolo “interagire con le persone: a guide for dummies”.

Proponiamo lo stesso script probabilmente per risparmio energetico.

Ma quel “Non lo so ancora.” mi è arrivato come se qualcun’altr* avesse risposto a me, non viceversa.

È come se un Babel Fish avesse tradotto “cosa fai nella vita?” con “come ti identifichi professionalmente?”.

La conversazione continua e la ragazza incassa la risposta e inizia a parlare di sé, di quello che è “nella vita”.

Mi sorprende sentirla sicura nel definire se stessa in un lavoro davvero verticale.

Penso a come avrei continuato se avessi risposto “Tante cose e niente” al posto di “Non lo so ancora”.

“Ricopro il ruolo di Visual & UI Designer in weBeetle da 6 anni. Per 2 anni mi sono occupata di Visual Design per eventi fieristici. Per un anno, UI Design (e non solo) per una start-up di videogiochi. Per un paio di edizioni, Visual Design per un festival di cinema. Per pochi mesi, Graphic Design per una tipografia. Per un anno, insegnante di doposcuola. In 10 anni, ho fatti diversi progetti di Brand Identity e Visual Design per clienti di diversi settori (musica, cinema, sport, fotografia, scuola primaria), nel tempo libero “illustratrice” (tra molte virgolette) che mi ha portato in qualche fiera e contest.”

Quindi potrei dire che la mia identità personale (“sono”) è essere creativa, la mia identità professionale (“faccio”) non riesco a identificarla verticalmente come la ragazza al bar.

Starai pensando che non è una cosa “brutta” fare cose diverse.

Ma quindi perchè è così difficile rispondere a “cosa fai nella vita”?

Mi sembra quasi che il mondo lavorativo intorno a me sia fatto di persone che sono riuscite a identificarsi in uno specifico settore, specifico ruolo. Come se avessero trovato la propria “strada”. Questo concetto di “strada” mi riporta a pranzi domenicali tra un giro di forchetta sugli spaghetti e discorsi politici, quando qualche parente puntava il discorso su qualcun* di famiglia, tipo bollettino news, e su quello che stava facendo “nella vita”.

“Ah ma lui/lei era bravo/a a scuola! Lo sapevo che trovava subito la sua strada”

La “sua strada” sembra essere un vettore con verso e direzione posizionato nello spazio tridimensionale della “vita”. Ma io faccio design, un vettore non mi basta.

C’è stato un momento, quando a vent’anni ho iniziato a lavorare, in cui quella “strada” non interessava a nessuno. Tutti intorno a me, amici, colleghi, conoscenti, sconosciuti avevano solo una frenetica voglia di buttarsi nel mondo lavorativo, senza preoccuparsi di “definirsi” professionalmente. Questo perché il lavoro ci sembrava più un mezzo per soddisfare la nostra identità personale.

Se chiedessi a mio padre “cosa fai nella vita?”, lui probabilmente mi risponderebbe con “lavoro nella scuola pubblica ma nel tempo libero mi diverto con tante cose”.

Qual è stato il momento in cui identità personale e identità professionale si sono fuse?

Credo che la radice sia nelle radici.

La generazione dei miei genitori (“Baby Boomer”) sono cresciuti con la mentalità del lavoro come puro sostentamento familiare. Loro sono quelli della generazione dei sognatori, di quelli che “da grande vorrei essere un astronauta”, di quelli che, a prescindere dal livello di istruzione, avevano quella famosa strada già scritta dai propri genitori.

E cosa succede se leggi subito il finale della storia?

Cambi libro.

Quella generazione sognava di scriverlo il proprio “libro”, non di leggerlo.

Ed è forse qui che è scattato qualcosa: il lavoro diventa anche un mezzo di realizzazione personale.

La mia generazione è cresciuta con quella generazione di genitori che avevano un piede nei proprio sogni e un piede nella paura di affrontarli perchè “non davano sicurezza economica”.

L’effetto qual è stato?

Effetto A “Predisposizione”

Una delle reazioni della Generazione Y (o Millennials) è stata quella di seguire le predisposizioni: “in cosa sono abile?”. Spesso è anche supportata da un contesto familiare in cui quella predisposizione già era coltivata, motivo per cui per qualcuno è stato naturale scegliere quella strada non imposta.

Effetto B “Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita”

Questa invece è la reazione che ci hanno venduto con una bella frase di Confucio (che oggi forse troviamo solo nei biscotti della fortuna).

Scegliere quello che ami come lavoro. Amare il proprio lavoro.

In questo preciso istante abbiamo cliccato il button per mergiare la nostra identità personale e professionale.

Questa reazione porta con sé tutto il peso dei sogni della generazione precedente. Ma nel passaggio ci hanno anche iniettato anche 10ml di “paura di non avere solidità economica”. Perché ovviamente se scegli quello che ami, quell’unico amore monogamo, l’ansia di fallire è dietro l’angolo. E noi millenials non abbiamo fatto la “scuola dei fallimenti”, li abbiamo dovuti sperimentare, vivere. Una run difficile.

Qualcuno parlerebbe di resilienza, ma non lo farò. Si tratta solo di ricominciare il livello e imparare il pattern dei propri fallimenti.

I videogiochi sono come il sogno americano. Lavora duro e avrai la tua villetta col barbecue. Non ci sono porte chiuse a priori.

— Zerocalcare, La profezia dell’armadillo

Questo istinto di sopravvivenza, di adattarsi in continuazione, di ricominciare il livello e di riadattarsi ancora, ti trasposta di checkpoint in checkpoint attraverso micro-obiettivi.

Ma quindi cosa devi fare nel gioco?

“Ho saltato qui nelle spirali di fuoco, o ucciso il boss e ho salvato il piccolo amico del protagonista”

Sì, ma qual è l’obiettivo del gioco?

Bello livellare, belle le ricompense e l’albero delle skill. Ma la missione principale qual è?

“Non lo so ancora.”

Con la paura di fallire per non vedere più quel Game Over, abbiamo perso di vista quello che amiamo. Abbiamo dimenticato perché avevamo scelto quella strada.

Un po’ come una relazione stabile: dopo più o meno tempo, pensi a perché vi siete scelt* e se quell’amore c’è ancora a prescindere dalle persone che siete diventate nel tempo.

Quando ci si mette in discussione, si ha più paura di cambiare strada che di ammettere che quella strada non era giusta. O che era giusta in quel momento ma non ora. O che non era unica ed esclusiva.

Noi della Generazione Y abbiamo una così rapida reazione quando vediamo un ostacolo che nel dubbio premiamo “Jump”. A furia di saltare però poi è facile cadere. E il “Non lo so ancora” è come premere “Jump”.

Ho pensato, ovviamente sotto la doccia, piena di dubbi e paranoie e con l’identità personale e professionale fuse in una monolitica e arcana reliquia indecifrabile, a cosa avrei risposto a quella ragazza al bar dopo questa riflessione.

Cosa fai nella vita?

“Mi innamoro di quello che faccio, anche quando quello che faccio cambia.”

Noi, della Generazione Y, siamo quelli che se iniziamo la run in modalità Easy, la ricominciamo in modalità Master solo per migliorarci e settare un nuovo micro-obiettivo.

C’è una soddisfazione paragonabile all’amore carnale.

Ora parlo per me, questo definisce la mia identità personale e professionale: un creative professional, se devo usare paroloni da Linkedin, ma di fatto sono un unicorn hunter (letteralmente, nessun riferimento a pratiche intime).

Brano consigliato solo alla fine della lettura

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