Della Nike, di Kaepernick e della presunzione di noi marketer

Nereo Sciutto
Webranking
Published in
5 min readJan 18, 2019
Estratto dalla copertina del Time di ottobre 2016. Kaepernick è stato candidato al Personaggio dell’Anno da Time nel 2017.

Questo è un post su noi marketer. Un’autocritica sulla nostra (in)capacità o leggerezza nel giudicare.

L’esempio è Nike e il (commovente imho) spot che a settembre ha visto per protagonista (fra gli altri) Colin Kaepernick, il quarterback dei 49ers (NFL) che è stato licenziato — e non ha più trovato 1 squadra che lo assumesse — per essersi inginocchiato durante l’inno nazionale per protesta contro le violenze della polizia e le ingiustizie in US verso la popolazione di colore.

Il claim, duro come un pugno nello stomaco era “Believe in something, even if it means sacrificing everything”. Chapeau.

Il video completo è questo e racconta le vite eccezionali di diversi sportivi di colore. Se non l’hai visto, dagli 2 minuti del tuo tempo.

In US (e poi ci lamentiamo di cosa succede a casa nostra) è stato strumentalmente letto come un insulto alla bandiera, ai veterani, al paese. Questo, nonostante le mille spiegazioni di Kaepernick che invece ci ha sempre visto un richiamo a quei valori di unità e di fratellanza che la bandiera porta.

Terminato l’incipit arriviamo ai fatti. All’alba di quello spot sono partite le proteste, testimoniate anche da video di americani sdegnati che bruciavano scarpe Nike e inneggiavano al boicottaggio più estremo e “politicamente guidato”.

Con Donald Trump, primo grande artefice della contro-protesta verso un comportamento che ha fin da subito strumentalizzato a suo vantaggio, fra le varie cose chiedendo ai proprietari delle squadre NFL il licenziamento di tutti i giocatori che dopo Kaepernick hanno sposato la protesta silenziosa e assolutamente pacifica. Semplicemente mettendosi un minuto in ginocchio.

E qui arriviamo ai marketer, che dal loro trono dorato hanno iniziato a pontificare sulla rovina della Nike, sulla perdita di valore, sul “Nike is getting absolutely killed”, sul rischio esagerato che l’azienda si era presa, sul rincoglionimento dei manager e così via. Il tutto analizzando una strategia mostruosa, una execution altrettanto forte, entrambe figlie di un coraggio manageriale che in Italia non sarebbe mai — dico mai — anche solo stato valutato in un brief.

Diverse immagini di SF qui: https://www.sfgate.com/sports/article/Colin-Kaepernick-billboard-nike-football-just-do-i-13204328.php

La solita sindrome del pontificare dal salotto di casa propria. Un’altra faccia dell’effetto Donning-Kruger che tanto viene sbandierato di questi tempi (sorry per l’abuso che ne faccio anche io).

A partire dal 1° marketer d’America:

…generando risultati così:

Nessuno ha guardato i numeri

Ma — come succede sempre — nessuno ha guardato i numeri (o aspettato per). Quei dannati numeri che alla fine di tutto sono il motivo per cui un brand oggi sente il bisogno di introdurre valori forti nella propria comunicazione. Per avvicinarsi a un pubblico che oggi è più complesso, più lontano dall’oggetto in sé.

L’intento era ovvio: da una parte celebrare i 30 (!) anni del riuscitissimo claim “Just Do It” rilanciando il concetto e facendolo letteralmente esplodere fra i millennials.

È passato molto in sordina a fine anno ma è il motivo per cui ho pensato di scriverne: l’ultima trimestrale 2018 di Nike è stata in crescita molto forte. Anche e soprattutto negli US. E su tutte le linee di prodotto in modo indifferenziato. 10% di incremento nei profitti e un 9% nelle vendite in Nord America. Battendo le previsioni di inizio anno sia della stessa Nike che degli analisti di mercato. Fonti varie: qui, qui e qui …e poi c’è Google ;-)

Converrai con me che per un’azienda da quasi 35 billions di fatturato è un risultato “non facile”.

Ma non c’è stato solo il dato di vendite overall. Uno degli obiettivi di Nike (così come dichiarato da più parti) è stato anche qualitativo: riposizionare il marchio su un pubblico nuovo, non dipendendo più solo dagli “over”. Questo è un effetto passato un po’ in sordina ma che si poteva vedere fin dal giorno 1 (se si fosse cercato un numero a supporto): gli investitori millennials sono letteralmente corsi (“piling on” è molto più visuale, lo ammetto) ad acquistare azioni Nike.

Che dire, al di là dei pareri personali, abbiamo la fortuna di vedere gli Stati Uniti da una certa distanza e questo ci fa appassionare per una campagna (come è successo per me che incidentalmente seguo l’NFL quindi ho visto giocare e inginocchiarsi Kaepernick prima di leggerne sulla stampa) senza il peso di veterani, bandiera, inno nazionale, Trump e gente che brucia scarpe come se fosse un simpatizzante dell’Isis con la bandiera di Israele.

Però sulla profondità delle analisi outside-in (cioè che facciamo da fuori senza sapere che succede dentro o senza avere informazioni interne) o — divano-in come si diceva prima — potremmo fare un po’ di autocritica e cercare riscontri prima di prendere posizione su un’azienda. Succede spesso anche a casa nostra. Magari è utile per diventare consulenti migliori, un po’ meno emotivi e più data driven (come va tanto di moda dire oggi).

My 2 cents, non me ne vogliate troppo :-)

PS: Nike ha continuato a tenere (e pagare) Colin Kaepernick come testimonial dal 2016 a oggi. Anche senza una squadra. E fino al settembre 2018 senza usarlo come testimonial di campagna.

PPS: A febbraio ci sarà il Superbowl. E con lui il concertone dell’half time. La protesta è ancora viva dopo due anni. La lega professionistica (l’NFL) continua a seguire la linea presidenziale e combatte il movimento iniziato da Kaepernick. Per questo, nonostante l’invito e una montagna di soldi e visibilità, artisti come Rihanna, Adele, Jay Z e Pink si sono rifiutati di esibirsi. Aspetto con trepidazione di vedere che cosa farà la Nike (e non solo lei) in quell’occasione.

Questo post è stato scritto da Nereo Sciutto per il blog di Webranking.

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