LA CURVA DI LAFFER APPLICATA ALL’EDITORIA

La pressione pubblicitaria come le tasse

Nereo Sciutto
Webranking
4 min readJun 6, 2017

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Arthur Laffer è stato, fra le varie cose, uno dei consiglieri economici di Reagan. La sua teoria è stata riesumata di recente dall’amministrazione Trump quindi è probabile che ne sentirai parlare di nuovo. Ma questa teoria ha un parallelo interessante se applicata al mondo dell’editoria ed è il motivo per cui te ne voglio parlare.

La teoria di Laffer si può riassumere brevemente in questo modo: non è vero che aumentando la pressione fiscale — in termini di aliquota percentuale — aumenti di conseguenza il gettito che gli Stati raccolgono dalle tasse.

Oltre un certo livello di tolleranza, infatti, l’aumento delle tasse porta a una riduzione dei ritorni fiscali perché le persone troveranno metodi per evadere, eludere o svicolare da una pressione ritenuta eccessiva. Paradossalmente a fronte di una pressione fiscale del 100% il gettito teorico sarebbe zero perché le persone preferirebbero non lavorare dato che non guadagnerebbero nulla.

Laffer ha usato questa teoria in modo molto efficace per suggerire ai governi di abbassare le tasse come soluzione innovativa per aumentare il gettito fiscale che gli Stati raccolgono. E la teoria funziona. Basta soltanto che sia applicata quando la percentuale di tassazione è nell’area di curva decrescente, cioè nel suo spazio che possiamo chiamare di inefficienza.

È qui che si vede il parallelismo con l’editoria online dove la pressione pubblicitaria si sostituisce a quella fiscale e che possiamo misurare in percentuale di spazio occupato (anche solo above the fold) da banner e advertising, rispetto alla dimensione occupata dalla pagina. Ovviamente, il gettito fiscale viene sostituito dalla raccolta pubblicitaria che gli editori riescono a ottenere.

Per far quadrare i conti — in un mercato nel quale l’adv viene pagato meno di quello che dovrebbe e lo diciamo da anni — il publisher di turno aumenta progressivamente la pressione pubblicitaria, inserendo quanti più contenuti pubblicitari riesca, in uno spazio che rimane fisso. Sul web gli spazi sono contingentati. Internet — sembra strano a dirsi — non può espandersi come quei periodici femminili che arrivata la stagione estiva lievitano al punto da sembrare volumi enciclopedici. Sul web lo spessore cartaceo non c’è.

Online, se aggiungiamo una pubblicità, togliamo spazio ai contenuti.

L’evidenza di dinamiche lafferiane nell’editoria si è già vista con l’ascesa degli ad blocker come risposta degli utenti a una pressione pubblicitaria poco gradita. Ma non parliamo di questo ora, ma degli effetti — ben più radicali — del traffico che proviene dai motori di ricerca.

Un piccolo inciso: per un editore, l’attività di SEO è strategica, quasi vitale, per compensare quello che il brand — la testata — riesce (o non riesce più) a portare. Anni fa, uno dei mantra di quest’industria era: “Google è il socio di maggioranza di ogni editore online” seguita da una più profetica “…anche se lo è in maniera occulta e non tutti gli editori se ne rendono conto”.

Google è quindi in grado di influenzare — in modo forte e repentino — le strategie editoriali di chiunque faccia dei contenuti online il proprio lavoro. Ed è qui che Google diventa l’elemento che rende la curva di Laffer così attuale. Lo è perché proprio questa teoria economica ci dice la soluzione che dobbiamo adottare per massimizzare il ritorno economico della pubblicità e, persino proteggere l’equity del brand editoriale.

Google, seguendo la sua già nota attitudine a privilegiare risultati sulla base del gradimento potenziale delle persone, ha di recente cambiato il proprio algoritmo per penalizzare i siti che presentino troppa pubblicità a scapito dei contenuti veri e propri. Contenuti ai quali è interessato l’utente e sulla base dei quali quella pagina viene indicizzata e premiata con un posizionamento di rilievo.

Quindi se c’è troppa pubblicità Google non posizionerà bene quella pagina, indipendentemente dalla qualità del contenuto che c’è dentro che essendo coperto, contornato, affiancato da troppo rumore pubblicitario, diventa meno rilevante e poco apprezzato da chi lo vuole leggere.

Questo spinge verso il basso la seconda variabile della curva di Laffer (gli introiti pubblicitari) perché se Google penalizza pagine e siti con alti tassi di presenza pubblicitaria, la raccolta ne risentirà in modo fortissimo perché si ridurrà il traffico proveniente dai motori di ricerca. Al punto che una pagina totalmente coperta di pubblicità non verrà trovata da nessuno e non verrà neanche letta dalle persone (se non finanche rimossa integralmente da un ad blocker). Portando la raccolta pubblicitaria praticamente a zero.

Oggi il lavoro dei consulenti di SEO è anche quello di preoccuparsi della User Experience perché Google premia chi la fornisce ai propri lettori e punisce sempre più duramente chi tratta questo tema in modo superficiale.

Questo è quindi un campanello di allarme — o forse una campana che suona a lutto — per chi non riuscirà ad accorgersi di questi cambiamenti.

In Webranking abbiamo raccolto una serie di evidenze concrete e un case study interno che ha dimostrato questa semplice equazione:

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