Fame e conflitti: guardare indietro, per andare avanti

Conversazione a tre voci sul significato della risoluzione 2417 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fame, pace e sicurezza nel mondo post-COVID

WFP Italia
Storie dal World Food Programme (WFP)
8 min readJun 4, 2020

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Il 24 maggio ricorre il secondo anniversario dell’adozione all’unanimità della risoluzione 2417 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che riconosce il legame tra conflitti e fame condannando l’uso di quest’ultima come arma di guerra. A distanza di due anni, riflettiamo con tre esperti sul suo significato e sull’impatto che la pandemia di coronavirus potrebbe avere sulla pace e sulla sicurezza a livello globale.

Nel 2017, la Somalia era uno dei quattro paesi che rischiava la carestia, con quasi 3 milioni di persone che non riuscivano a soddisfare le proprie esigenze alimentari e 3,3 milioni che necessitavano di sostegno nei mezzi di sussistenza. Foto: WFP / Karel Prinsloo

“La risoluzione 2417 ha il merito di aver attinto a un momento storico terribile e di averne cristallizzato gli effetti”, dice Brian Lander, vicedirettore dell’ufficio di Ginevra del World Food Programme. Lander si riferisce al fatto che, nel 2017, circa 20 milioni di persone erano sull’orlo della carestia in quattro paesi: Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen. Tutti e quattro colpiti da conflitti.

La fame è stata definita come ‘l’arma più economica di distruzione di massa a disposizione degli eserciti’: economica e facile da innescare. “Anche una momentanea e violenta interruzione delle attività di sostentamento, che sia mirata e diretta, può avere un impatto di lunga durata. Se perdi la semina o il raccolto, non puoi recuperarli. Se gli animali non raggiungono i pascoli o non si abbeverano, difficilmente sopravvivono”, spiega Matthew Hollingworth, Direttore del WFP in Sud Sudan, al telefono da Juba. “Quindi, in molti casi, un piccolo e ben congegnato raid tattico può avere lo stesso impatto di una strategia di ampia scala di ‘terra bruciata’. In entrambi i casi, la fame come conseguenza della violenza è terrificante, oscuri o palesi che siano i mezzi utilizzati per raggiungerla”.

Da sinistra a destra: Matthew Hollingworth, Direttore del WFP in Sud Sudan; Sigrún Rawet, Vicedirettrice della SIPRI e Brian Lander, Vicedirettore dell’ufficio WFP a Ginevra

“Certo, la fame era già vietata dalla Convenzione di Ginevra”, continua Brian Lander. “Ma qui, per la prima volta, è stato riconosciuto dalla massima autorità nel mondo che la fame e i conflitti devono essere affrontati in modo coerente e che la fame come arma di guerra non è accettabile.”

Nel 2017–2018, Sigrún Rawet, ora Vicedirettrice dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), era a capo dell’ufficio Sviluppo e Aiuti umanitari della Rappresentenza Permanente svedese presso le Nazioni Unite a New York, quando la Svezia ricopriva il ruolo di membro non permanente del Consiglio di sicurezza. Rawet ricorda la genesi della risoluzione. “Volevamo trarre il massimo dai due anni di presenza della Svezia nel Consiglio di Sicurezza e volevamo concentrarci sulla prevenzione dei conflitti. Più facile a dirsi che a farsi, in alcuni casi”, chiosa Rawet.

“C’era tensione tra paesi come la Svezia, che credeva che il Consiglio di Sicurezza debba anche occuparsi di questioni di sicurezza più ampie nella prevenzione dei conflitti — come il clima, l’uguaglianza di genere, la fame e l’acqua — e altri paesi che pensavano, invece, che si dovessero trattare solo gli aspetti più tradizionali, militari, dei conflitti”.

La conseguenza fu che ci vollero cinque mesi prima che la risoluzione si ratificasse, “un tempo piuttosto lungo”, commenta Rawet.

“Questa risoluzione ha posto le persone più vulnerabili al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza, cosa che, purtroppo, non sempre avviene”.

Fondamentale fu costruire una forte e ampia coalizione attorno a questo tema — con i Paesi Bassi, la Costa d’Avorio e il Kuwait come co-sponsors e il sostegno del Perù in tutto il processo. “C’erano punti delicati ma le discussioni sono state di buon livello e alla fine siamo stati molto felici che questa risoluzione abbia messo le persone più vulnerabili al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza, cosa che, purtroppo, non sempre avviene”.

Rispettare la risoluzione

Tutti concordano sull’importanza simbolica della risoluzione. Ho chiesto, facendo l’avvocato del diavolo, se fosse tutto lì il senso.

“Penso che abbia dato luogo a una serie di sviluppi che si sono basati sul significato della risoluzione 2417”, risponde Lander, citando l’istituzione di commissioni d’inchiesta sull’uso della fame in casi specifici, il crescente impegno su temi della fame e dei conflitti da parte del Consiglio per i Diritti Umani e del Relatore Speciale sul Diritto al Cibo, così come il recente emendamento dello statuto della Corte Penale Internazionale, che estende la giurisdizione della Corte all’uso strumentale della fame nei conflitti non internazionali. “Leggo l’emendamento allo statuto della Corte Penale Internazionale come una conseguenza diretta della risoluzione”, continua Lander. “E questo è un altro forte segnale che questo tipo di tattiche — che si tratti di un assedio o di un blocco — sono inaccettabili, qualunque sia il contesto.”

Hollingworth concorda: “La risoluzione ha fornito all’ONU e ai suoi paesi membri un strumento per identificare ed indagare con regolarità attività che riguardano non solo casi di riduzione alla fame come atto di guerra, ma anche gli obblighi, più sottilmente articolati, a proteggere i sistemi alimentari e a garantire il funzionamento dei mercati evitando che i civili siano costretti a fuggire”.

“La risoluzione è rilevante? Assolutamente sì. La nostra sfida ora è renderla più significativa. “

“Quindi, se la domanda è ‘la risoluzione 2417 è rilevante nelle situazioni di conflitto?’ la risposta non può che essere: assolutamente sì. La domanda più difficile è: è anche significativa? Quello che bisogna fare, ora, è di renderla sempre più tale”. Tra le misure che potrebbero contribuire a questo fine, Hollingworth indica la nomina di un Relatore Speciale delle Nazioni Unite che ne sostenga l’attuazione; una Misura Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite che definisca il ruolo dell’ONU nel monitoraggio della risoluzione; e l’inclusione della risoluzione nelle linee guida e trainings militari e civili forniti ai combattenti statali ed extra-statali.

“Ciò richiede tempo”, osserva Hollingworth, e non posso fare a meno di chiedermi se non ci sia il rischio che la pandemia di coronavirus possa minarne il progresso.

Pace e sicurezza in un mondo post-coronavirus

“Penso che sia reale il rischio di tornare un pò indietro”, afferma Lander. “Il COVID-19 sta distogliendo gran parte dell’attenzione da problemi che sono probabilmente ugualmente preoccupanti ma forse non altrettanto immediati. In un certo senso, è una facile copertura. La risposta alla pandemia dà ai governi carta bianca nella retromarcia sui diritti umani a livello locale, con misure e restrizioni sull’accesso ai mercati e altre cose che potrebbero essere facilmente indirizzate a comunità o gruppi minoritari che si stava già cercando di isolare”.

Gli sfollati a causa del conflitto nel nord-ovest della Siria dipendono dalle consegne transfrontaliere dalla Turchia. La pandemia potrebbe colpire gravemente la loro unica risorsa alimentare. Foto: WFP / Fadi Halabi

Sigrún Rawet, che ha la sicurezza globale al centro del suo lavoro con SIPRI, sta monitorando gli sviluppi della situazione attuale e condivide le preoccupazioni di Lander. “Il fatto che il COVID-19 potrebbe far raddoppiare il numero di persone che soffrono di fame acuta — ciò che il Direttore esecutivo del WFP ha definito una pandemia della fame — mostra già l’entità della minaccia”, dice Rawet. “Siamo preoccupati che gli effetti cumulativi del coronavirus e le sue conseguenze economiche, inclusa la perdita di reddito dovuta ai lockdown, possa causare un aumento delle tensioni sociali — e non solo in paesi che tradizionalmente consideriamo ‘fragili’. La storia ci insegna che l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari può portare ad instabilità e rivolte, e con la revoca delle restrizioni potremmo vedere esplodere criminalità e violenza”, avverte Rawet. “Con i più vulnerabili colpiti maggiormente dal COVID-19, stiamo entrando in un periodo molto difficile”. Questo sarà anche un tema importante da approfondire nel partenariato strategico tra SIPRI e WFP sulla complessa relazione tra fame e conflitti.

Rawet è particolarmente preoccupata per i paesi africani, che sono già alle prese con flagelli simultanei quali cambiamenti climatici, povertà e, spesso, conflitti.

Nel Sud Sudan, l’impatto del COVID-19 su un sistema già fragile ha comportato un picco di insicurezza alimentare. Foto: WFP / Gabriela Vivacqua

Forse nessun paese come il Sud Sudan rappresenta meglio la situazione attuale. Il neonato Governo di Transizione dell’Unità Nazionale, che ha appena due mesi di vita, stava già affrontando enormi sfide dovute a decenni di guerra, siccità, inondazioni, un’economia stagnante e, recentemente, un’invasione di locuste. Poi è arrivato il COVID-19 e il forte calo dei prezzi del petrolio ha fatto evaporare il 98% del budget del governo.

“Questo paese non può permettersi in questo momento combattimenti su larga scala. Non ne è rimasta tanta, di resilienza“.

“All’inizio del 2020, le nostre previsioni indicavano che entro maggio — cioè ora — il 55 per cento della popolazione, equivalente a 6,5 milioni di persone, si sarebbero trovate nell’ insicurezza alimentare a livello di crisi”, spiega Hollingworth. “A causa delle restrizioni ai viaggi e ai movimenti legate al COVID-19, tra 1,5 e 2 milioni di persone che vivono nelle aree urbane non riescono a guadagnare i 2 o 3 dollari al giorno su cui contano per andare avanti. Ciò significa che, oggi, circa il 70 per cento della popolazione non sa se mangerà domani”.

La fragilità si estende anche alla sicurezza. Solo nelle ultime quattro settimane, gli scontri tra le fazioni che non hanno aderito all’accordo di pace hanno costretto tra le 6.000 e le 20.000 persone a fuggire dalle loro case negli stati meridionali del paese. “Queste sono persone che vivevano e lavoravano nelle terre fertili del Sud Sudan e ora devono fare affidamento sull’assistenza umanitaria”, precisa Hollingworth, aggiungendo che la comunità umanitaria è messa già a dura prova e a fatica riesce a soddisfare le esigenze esistenti. La risposta a bisogni ancora maggiori diventa a questo punto davvero problematica.

“Dobbiamo assolutamente cercare di impedire un ritorno al tipo di scenario che abbiamo avuto nel 2013 o 2016, quando il conflitto era in pieno svolgimento. Adesso questo paese non può permettersi combattimenti su larga scala. Non ne è rimasta tanta, di resilienza,”conclude Hollingworth.

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Matthew Hollingworth è Direttore e Rappresentante del WFP in Sud Sudan. In precedenza, ha ricoperto il ruolo di Direttore in Sudan e nella Siria in guerra. Ha anche lavorato come Vicedirettore regionale per il Medio Oriente, il Nord Africa, l’Asia centrale e l’Europa orientale. Ha esperienza in molti contesti difficili, tra cui Afghanistan, Egitto, Iraq, Libano, Libia e Pakistan e in aree come logistica e risposta alle emergenze.

Brian Lander è vicedirettore dell’ufficio WFP a Ginevra. All’inizio del 2020 è stato coordinatore di emergenza del WFP nella Siria nordoccidentale e, alla fine del 2019, coordinatore di emergenza regionale della risposta nel Sahel. Oltre a prestare servizio presso la sede del WFP a Roma, ha lavorato per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per 20 anni in Asia, Africa e presso il suo quartier generale a Ginevra.

Sigrún Rawet è Vicedirettrice dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI). Prima di entrare a far parte del SIPRI a settembre 2018, è stata a capo dell’ufficio Sviluppo e Aiuti umanitari della Rappresentanza permanente della Svezia presso le Nazioni Unite (ONU) a New York. In precedenza ha ricoperto numerosi incarichi presso il Ministero degli Affari Esteri svedese, tra cui quella di capo della divisione dei conflitti. Dal 2019 è commissario della commissione Lancet / SIGHT per la salute, il genere e i conflitti e, tra il 2012 e il 2015, è stata anche consulente del Segretario Generale del Fondo per il consolidamento della pace.

Testo originale in inglese di Simona Beltrami

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